LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL SACRIFICIO

 

 

Cristo salva tutti gli uomini attraverso il dono di se stesso, attraverso il sacrificio di sé sulla croce. Ciò è attestato numerose volte nel Nuovo Testamento. Leggiamo alcune pericopi: "Cristo ha dato se stesso per tutti" (2 Cor 5, 15; cfr. Eb 2, 9); Cristo ha dato se stesso "in riscatto per tutti" (1 Tm 2, 6; cfr. 2 Pt 2, 1); Cristo ha annullato il peccato con il sacrificio di se stesso (Eb 9, 26) ed è "vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Gv 2, 2; cfr. 1 Gv 4, 10); il sangue di Cristo "è versato per noi" (Lc 22, 20), ci giustifica (Rm 5, 9), ci libera (1 Pt 1, 18), ci libera dai peccati (Ap 1, 15), ci purifica da ogni peccato (1 Gv 1, 7); dalle piaghe di Cristo siamo stati guariti (1 Pt 2, 25; cfr. Is 53, 5). La nostra salvezza è dunque legata al sacrificio di Cristo, alla sua sofferenza.

Ma vi sono altri luoghi biblici in cui la salvezza viene collegata alle nostre sofferenze, al nostro sacrificio. Leggiamo negli Atti degli Apostoli che "è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio" (At 14, 22). Nella Lettera ai Romani san Paolo afferma che dobbiamo offrire i nostri corpi come sacrificio vivente (Rm 12, 1); e nella seconda Lettera ai Corinzi, che siamo tribolati per la salvezza (2 Cor 1, 6; cfr. 2 Cor 4, 17). La Lettera di Giacomo ci dice che quelli che sopportano sono beati (Gc 5, 11). E la prima Lettera di Pietro che sopportare la sofferenza è gradito a Dio (1 Pt 2, 20).

In altri passi ancora viene fatto un collegamento tra il nostro sacrificio e il sacrificio di Cristo, tra le nostre sofferenze e le sofferenze di Cristo. Vi sono intanto quei passi in cui si afferma che occorre seguire Cristo e che per farlo occorre "prendere la croce" (Mt 10, 38; 16, 24; Mc 8, 34; Lc 9, 23) e rinnegare se stessi (Mt 16, 24; Mc 8, 34; Lc 9, 23). Vi è poi un passo della prima Lettera di Pietro che ci invita a rallegrarci di partecipare alle sofferenze di Cristo (1 Pt 4, 13). Ma è nel corpus paolino che si trovano i due passi, di importanza centrale, che collegano le nostre sofferenze alle sofferenze di Cristo, in vista della salvezza. Nella Lettera ai Romani san Paolo afferma che siamo "coeredi di Cristo, dal momento che soffriamo insieme con lui, per essere con lui glorificati" (Rm 8, 17). È attestato che soffriamo "insieme con lui", per essere nella gloria "con lui"; cioè, che siamo salvati con Cristo perché soffriamo con Cristo. Nella Lettera ai Filippesi san Paolo sostiene che la conoscenza di Cristo significa per lui "partecipazione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, con la speranza di giungere, in qualche modo, alla risurrezione dai morti" (Fil 3, 10-11). La "partecipazione" alle sofferenze di Cristo ci rende "conformi alla sua morte", facendoci sperare nella risurrezione. Ci viene attestato, cioè, che, come Cristo ha sofferto ed è risorto, anche noi, soffrendo, risorgeremo.

Che la salvezza sia legata alla sofferenza e al sacrificio di Cristo, ma anche degli uomini, è attestato anche dal Magistero cattolico, il cui insegnamento in proposito si può riassumere in alcuni passi della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Salvifici Doloris (1984): "Cristo dà la risposta all’interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza […] prima di tutto con la propria sofferenza" (n. 18); Cristo compie l’opera della salvezza "per mezzo della sua Croce" (n. 16); "ognuno […] è chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche redenta" (n. 19); "quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni [del Regno di Dio]" (n. 21). La Salvifici Doloris, inoltre, pone una spiegazione del perché vi è un legame salvifico tra la sofferenza degli uomini e la sofferenza di Cristo: "ogni umana sofferenza, in forza dell’unione nell’amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo" (n. 26); "nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia" (n. 26). Mi sembra chiaro, tra l’altro, come questa "particolare grazia" non possa essere riservata solo ai cristiani, dato che tutti gli uomini, di ogni tempo, luogo, cultura e religione, sperimentano nella loro vita la sofferenza. La Lettera apostolica sottolinea, infine, e la ritengo una attestazione fondamentale e centrale del Magistero cattolico, che Cristo ha legato la sofferenza all’amore, che dalla sofferenza nasce l’amore che ci salva e non c’è amore senza sofferenza e sacrificio: con la passione di Cristo l’umana sofferenza "è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all’amore" (n. 18); "la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella "civiltà dell’amore". In questo amore il significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo e raggiunge la sua dimensione definitiva" (n. 30).

Sulla base di questi dati biblici e magisteriali, credo si possa fare una riflessione sulla salvezza attraverso il sacrificio, che arrivi a mostrare una convergenza della posizione cattolica con quella delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni.

Nella passione e morte di Cristo non è l’uomo che sacrifica una vittima a Dio, ma è Dio che, fattosi uomo, sacrifica se stesso (cfr. Gv 1, 29; Rm 8, 32). Questo autosacrificio di Dio ci dice che Dio non vuole il sangue della vittima sacrificale offerta dall’uomo, ma vuole salvare l’uomo attraverso l’amore. Poiché l’amore passa attraverso il sacrificio di sé, e non può esserci amore senza sacrificio di sé, e poiché Dio è amore (1 Gv 4, 8), non poteva non sacrificare se stesso. Quando anche l’uomo sacrifica se stesso, anche l’uomo diventa amore, e partecipa alla vita di Dio, entra in Dio: "chi sta nell’amore dimora in Dio" (1 Gv 4, 16); cioè, si salva. Il testo che conferma questa convinzione è Rm 3, 25-26: "Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia". La fede che giustifica è quella in Cristo "strumento di espiazione"; è la fede nella salvezza che passa attraverso il sacrificio. Ed è il sacrificio di Cristo che giustifica; quindi l’amore. Quindi anche l’amore degli uomini e le loro opere; perché l’amore degli uomini viene da Dio, è lo stesso amore di Dio: "l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5, 5). L’uomo che agisce guidato da questo amore agisce come Dio; cioè, sacrifica se stesso. E perciò si salva. La salvezza, allora, avviene per l’amore di Dio divenuto amore degli uomini; avviene attraverso il sacrificio di Dio divenuto sacrificio degli uomini.

Credo sia questo anche il senso di un’affermazione della costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes (1965): l’uomo non può "ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé" (n. 24). E credo sia proprio questo dono di sé che manca dove manca l’uomo ritrovato, cioè nelle troppe occasioni e nei troppi luoghi della storia in cui non manca qualcuna delle cose di cui egli è capace.

Ma anche l’uomo incapace di sacrificare se stesso può salvarsi. Perché può riconoscerlo, può riconoscersi debole e peccatore. Allora interviene per lui il sacrificio di Cristo a salvarlo (2 Cor 12, 9). È la dinamica del perdono e della misericordia divina. La salvezza viene sempre da Dio; l’uomo la accoglie. Nel caso in cui l’uomo sia capace di sacrificare se stesso, questa capacità, che lo salva, gli viene dallo Spirito Santo donatogli da Dio. Nel caso in cui l’uomo riconosca la sua incapacità al sacrificio e il suo peccato, egli di fatto riconosce che la sua vita è un sacrificio, che è stato sacrificato nella debolezza umana. E questo riconoscimento lo unisce al sacrificio di Cristo; e perciò lo salva. Perché il sacrificio che lui riconosce è quello compiuto da Cristo, Dio-uomo che non ha risparmiato se stesso. Il peccatore pentito, cioè, di fatto riconosce Cristo, anche se non crede in Cristo, o lo nega, o non ne ha mai sentito parlare. Quindi ha fede. Non solo, ma chi crede, in ogni religione e in ogni tempo, riconosce la sua debolezza; si riconosce, cioè, come incapace di salvarsi da sé e bisognoso di una salvezza che non viene da lui. Poiché tale salvezza viene da Cristo, chi crede di fatto riconosce Cristo, anche se non crede in Cristo, o lo nega, o non ne ha mai ascoltato il messaggio. Ecco perché "l’uomo è giustificato per la fede" (Rm 3, 28). E perché la salvezza non è opera dell’uomo, ma di Dio.

Ed ecco perché il Magistero cattolico afferma che con l’eucaristia ci uniamo a Cristo "mediante l’atto redentore del suo sacrificio" (RH n. 80) e nella Dichiarazione congiunta fra cattolici e luterani tedeschi stilata nel 1984 1 si dice che l’eucaristia offre a Dio solo il sacrificio di Cristo avvenuto una volta per sempre sulla croce.

Del resto, il sacrificio di sé, il riconoscimento della propria debolezza e il pentimento hanno una dinamica simile e conducono a un risultato simile. Il sacrificio di sé significa sacrificio del proprio orgoglio e della propria pretesa di forza e di potenza, che è poi il peccato originale: "Sarete simili a Dio" (Gn 3, 5). Così anche il riconoscimento della propria debolezza significa sacrificio della propria pretesa di forza e potenza. Ecco perché agli occhi di Dio il peccatore pentito è gradito come il giusto, ed entrambi sono salvati. Questa salvezza passa attraverso il sacrificio di sé ed è opera di Dio. Ritengo che questa concezione non crei nessuna contraddizione tra la visione cattolica e quella protestante della salvezza.

Il senso profondo della croce è allora la salvezza di chi pecca e si riconosce peccatore e di chi crede, di ogni tempo, luogo, cultura e religione. Tale senso nasce anche da una lettura integrata della passione nei Sinottici. Cristo sulla croce ha sperimentato veramente l’abbandono del Padre (Mt 27, 46; Mc 15, 34). Poiché ha sacrificato la propria onnipotenza, il suo sacrificio è stato vero e reale; non è stata una finta o una messa in scena. Ma pur avendo sperimentato tale abbandono, non ha perso la fiducia nel Padre, al quale consegna lo Spirito (Lc 23, 46) e che salverà il peccatore che si è riconosciuto tale (Lc 23, 40-43). Il sacrificio di Cristo è stato necessario perché gli uomini non sono perfetti e non sono capaci del sacrificio di sé. Cristo si è sacrificato per tutti quelli che riconoscono la propria debolezza e la propria incapacità di sacrificarsi, e tra questi vi sono uomini di ogni tempo, luogo e religione.

A questa si può aggiungere un’altra riflessione. Se la salvezza ci è data da Dio solo per il sacrificio e i meriti di Cristo, perché non è data a tutti indistintamente gli uomini? Perché qualcuno non si salva? Perché c’è l’Inferno? Occorre ritenere che la salvezza ci è data non solo "per" Cristo, ma anche "in" Cristo (cfr. At 4, 2; Rm 6, 23; 1 Cor 15, 22; 2 Tm 1, 9; 2, 10; 1 Gv 5, 11). Egli ci ha detto: "Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16, 24; cfr. Mc 8, 34; Lc 9, 23). E ancora: "Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio la troverà" (Mt 16, 25; cfr. Mc 8, 35; Lc 9, 24). La salvezza passa anche attraverso il proprio sacrificio, perché se uno non rinnega se stesso di fatto non aderisce pienamente alla volontà di Dio, cioè alla realtà come ci è stata data, che è diversa da quella che vorremmo, da quella che il nostro io desidererebbe. E quando aderisce alla volontà di Dio pienamente, uno prende la sua croce, perché accetta il proprio corpo con i suoi limiti, la propria debolezza umana, la propria sofferenza.

La salvezza passa anche attraverso il proprio sacrificio per un altro motivo, collegato al precedente: la necessità della propria conformità a Cristo. Si salvano quelli che sono conformi a Cristo (cfr. Gv 13, 15; Rm 8, 29; Fil 3, 10-11), quelli che seguono la via seguita da Cristo: debolezza, sofferenza, morte, risurrezione.

Per questa conformità a Cristo non è necessaria una fede esplicita. Quelli che si salvano senza credere in Cristo, seguendo la voce della loro coscienza e compiendo il bene attraverso un sacrificio, aderiscono alla volontà di Dio, che è quella che tutti siano salvati per Cristo e "in Cristo". Del resto, lo stesso Gesù ha detto: "Non chiunque mi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio" (Mt 7, 21). E l’enciclica Redemptor Hominis di Giovanni Paolo II afferma che "Cristo si è unito in certo modo ad ogni uomo" (n. 13). Dio non pretende che gli uomini si salvino aderendo esplicitamente alla Chiesa fondata da Cristo, ma seguendo la via seguita da Cristo e compiendo la sua volontà.

Chi afferma che la religione cristiana è superiore alle altre religioni, che è via ordinaria di salvezza (mentre le altre religioni sono vie straordinarie), perché in essa risuona la parola di Dio, rivelata dallo stesso Figlio di Dio, dovrebbe ricordarsi che proprio il Figlio di Dio ha detto la parola di Mt 7, 21, che non sembra dare la priorità, nel progetto di salvezza divino, alla religione o al culto, ma alla vita conforme alla volontà di Dio.

Da quanto fin qui detto nasce un’ultima riflessione, che mi sembra possa portare a conciliare e ad avvicinare diverse posizioni di diverse religioni.

Uno dei punti centrali rivelati dalla vita e dal messaggio di Gesù è questo: per entrare nel Regno di Dio non bisogna porre davanti a Dio i propri meriti aspettando la ricompensa; ma bisogna porre la propria vita, se stessi; bisogna donarsi, sacrificarsi, annullarsi, "entrare" totalmente in Dio, e pertanto "uscire" da se stessi: andare verso Dio, gli altri, il cosmo. Il sacrificio e la croce, che agli occhi dell’uomo possono sembrare un male, diventano così costitutivi del bene. E la grazia, l’intervento gratuito di Dio, che agli occhi dell’uomo può sembrare donata per la realizzazione di sé, appare donata per questo ingresso totale in Dio, per la realizzazione della gloria di Dio. E in questa dinamica, il divino è al contempo impersonale, poiché entrando nel divino la persona non è più separata dagli altri e dal resto del cosmo, e personale, in quanto la coscienza di questo dono di sé ne è elemento costitutivo.

Non si può, in conclusione, non notare che tutto ciò sembra poter conciliare diversi elementi centrali di diverse dottrine: il sacrificio personale cattolico, la divinizzazione ortodossa, la salvezza "sola gratia" protestante, il valore del sacrificio induista (in particolare nella religione vedica), il divino impersonale e l’estinzione del desiderio buddista.

 

 

NOTE

  1. Comunione ecclesiale nella parola e nel sacramento, Documento comune di cattolici e luterani, 37, 1984, in EO 2/1359.