LA BALIA

Regia: Marco Bellocchio - Con: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi , Maya Sansa, Jacqueline Lustig, Michele Placido, Pier Giorgio Bellocchio
Soggetto e Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Daniela Ceselli. - Liberamente tratto dalla novella omonima di Luigi Pirandello
Fotografia
: Giuseppe Lanci - Musica: Carlo Crivelli - Durata: 100' - Origine: Italia 1998

Ancora Pirandello. Una novella, questa volta, della sua celebre raccolta "Novelle per un anno". Marco Bellocchio, pur incorniciandola, come era in origine, nella Roma inizi del secolo, ne ha mutato le prospettive, i caratteri dei personaggi ed anche certi temi, indirizzati molto più all'ottimismo che non al pessimismo dell'autore letterario. Lo schema però, in un certo senso, rimane simile. Una coppia borghese (Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio) mette al mondo un figlio, poiché però la madre non può allattare, si rende necessario far venire dalla campagna una balia (Maya Sansa) come si usava all'epoca. (...)

Dimenticando Pirandello, però (anche se quel testo ha una vitalità drammaturgica difficilmente accantonabile), non si può dire che il film non abbia dei valori da accostare anche con simpatia. Intanto quel curioso triangolo moglie, marito e balia, in cui la gelosia continua a esplodere nei confronti della balia ma per l'affetto che nutre per il bambino; quindi i modi di rappresentazione di cui Bellocchio si è servito per animare la sua storia in una Roma principio di secolo illurninata dalle splendide scenografie di Marco Dentici e sorretta ad ogni immagine dalla minuziosa e fine scenografia di Giuseppe Lanci: in primo piano soprattutto le facce, sguardi, i palpiti segreti, le emozioni mai gridate (anche nei momenti più scoperti). Con la possibilità di far procedere l'azione, nonostante i molti fatti che la percorrono, unicamente in virtù delle reazioni dei personaggi e della rivelazione, spesso sommessa, dei loro sentimenti. Una trovata espressiva che sa diventare stile.

(Gian Luigi Rondi - Il Tempo -)

Mia madre mi raccontava di come lei e le sue sorelle e fratelli, in tutto 11, man mano che nascevano, venivano mandati a balia, come si diceva allora: in campagna, in casa di donne che oltre al loro piccino ne allattavano altri 2 o 3, in situazioni igieniche molto precarie. Ogni tanto uno moriva, ma non era poi questa gran disperazione, di figli ce ne erano sempre troppi. Le famiglie ricche invece si portavano in casa una balia tutta per il loro bambino, e l'abbigliavano riccamente (tanto che i gioiellini delle balie sono ancora molto richiesti), perché spesso le signore o non avevano latte (e non esisteva pavimentazione artificiale) o non volevano allattare per non sformarsi il seno. Il bel film di Marco Bellocchio che qui ha ritrovato profondità e dolcezza, ci riporta a questa scomparsa figura femminile, misteriosa portatrice di vita, simbolo carnale di attaccamento, di unione tra donna e bambino, e allo stesso tempo "non persona" relegata a una mera funzione di sostentamento, creatura invisibile, quasi animale.

(...)

La bella casa, ricca e ombrosa, percorsa da stuoli di cameriere sfuggenti, si illumina quando arriva Annetta, giovane e splendente balia bruna dal seno glorioso, che viene dalla campagna romana e con la violenza e il disprezzo per i poveri di quell'epoca ha dovuto abbandonare il suo bambino per dedicarsi al figlio dei ricchi. È commovente come Bellocchio racconta quelle vite femminili soggiogate e inutili, la gelosia che può nascere tra la signora elegante, e, come si diceva allora, la serva: non per l'attenzione di un uomo, ma perché la ragazza analfabeta possiede un tesoro inestimabile della femminilità che l'altra non ha, il seno turgido, la possibilità di allattare, l'istintiva fisicità che le fa amare il piccino non suo, la rende meravigliosa, calda per lui. Sullo sfondo le prime bandiere rosse, le ribellioni degli sfruttati, i carabinieri a cavallo che disperdono i cortei per difendere la quiete borghese, indifferente e crudele. Valeria Bruni Tedeschi, signora dalla muta infelicità, ha una sua ansia abbandonata, l'esordiente Maya Sansa, rustica e opulente balia, è molto bella e brava, anche doppiata.

(- La Repubblica -)

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TERMINUS PARADIS

Regia: Lucian Pintilie - Con: Costel Cascaval (Mitu Cafanu), Dorina Chiriac (Norica), Gheorghe Visu (colonnello Vatasescu)
Soggetto e Sceneggiatura: Lucian Pintilie Fotografia: Calin Ghibu Origine: Romania 1998 - Durata: 100'

Richiede un piccolo sforzo di curiosità andare a vedere Terminus Paradis di Lucian Pintilié, ma chi lo fa, accettando l'invito dell'Istituto Luce, non resterà deluso. Perché il nuovo film del cineasta rumeno (autore del discreto Un'estate indimenticabile nonché regista teatrale per anni inviso al regime di Ceausescu, al punto da dover emigrare in Francia nel 1972) non getta solo uno sguardo inquietante sulla Romania postcomunista: dentro vi ribolle un umorismo grottesco e acre che riverbera i dilemmi della condizione umana a ogni latitudine. "Il nostro problema è che abbiamo dovuto trovare il modo di convivere con l'Apocalisse", sostiene Pintilie, citando tra i motivi ispiratori del film addirittura L'idiota di Dostoevskij. Ma in realtà non ha molto del principe Myskin il "porcaro" sifilitico Mitu Catanu che sperimenta sulla propria pelle lo sfacelo di un paese corrotto e immiserito. "L'uomo non viene dalla scimmia, viene dal porco", teorizza infatti il poveretto, innamorato della sgualdrinella Norica e costretto ogni volta a gesti sempre più eclatanti - ruba perfino un carro armato per distruggere il chiosco di un truce rivale - pur di difendere il suo amore.

Interpretato dall'imperscrutabile Costel Cascaval e dalla beffarda Dorina Chiriac, il film rovista stoico tra le macerie della dittatura comunista, svelandone gli aspetti più odiosi e imbecilli, come nel paradossale incipit. E uno spiritaccio anarchico promana qua e là dallo sbattersi. dei personaggi in quell'agone brutale, appena riscaldato da un palpito, di umana pietà.

(Michele Anselmi - L'Unità -)

"Quando tutta la nomenklatura comunista si è trasformata in una classe di nuovi ricchi, quando la mafia ha preso il posto del partito onnipotente, quando ogni tipo di resistenza diventa impossibile, quando non resta che l'esilio (quale?), quando insomma tutto accade troppo tardi", spiegava il regista rumeno Lucian Pintilie nel catalogo della Mostra del cinema di Venezia, allora si fa un film disperato, anarchico, estremo, poetico e - a tratti - di difficile comprensione come il suo Terminus Paradis (che alla Mostra si è conquistato il Premio speciale della giuria).

Il film di Pintilie - un regista che dopo il lusinghiero inizio di carriera, per un quarto di secolo, negli anni del potere di Ceausescu, non ha potuto fare film nel suo paese - è affascinante e balzano come il suo protagonista, Mitu, guardiano di porci, ribelle a ogni regola e gerarchia, figlio della nomenklatura che rifiuta i privilegi e la protezione della medesima, sorta di idiota dostoevskijano, ma a tratti violento, nella Romania postcomunista, da cui sogna di evadere per andare negli Stati Uniti - anche se, come si apprende durante una visita di suo fratello, matto come lui, gli Stati Uniti non sono poi quel regno di Bengodi che dal fondo della disperazione rumena si può sognare.

Il quadro che disegna Pintilie - e di cui spesso non si riescono a cogliere in pieno tutte le allusioni - trasmette un profondo senso di disagio: ed è un paradossale e a tratti poetico elogio della purezza di spirito e della follia, unica forma possibile di resistenza umana in una società devastata e corrotta.

(Irene Bignardi - la Repubblica -)

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ORPHANS

Regia: Peter Mullan - Con - Gary Lewis, Douglas Henshall, Rosemarie Stevenson, Stephen McCol
Soggetto e Sceneggiatura - Peter Mullan - Fotografia: Grant Scott Cameron - Musica: Craig Armstrong - Durata: 95'

Mullan ha ceduto alla tentazione di dichiarare che nel film ci sarebbero degli elementi simbolici relativi alla Scozia, oggi orfana, e agli scozzesi che, contemporaneamente, assimilandola alla figura materna, piangono i valori che una volta aveva rappresentato e che oggi non ci sono più, dalla famiglia alla solidarietà civile. Si può anche seguirlo, quello però che interessa di più sono i modi con cui ha affrontato il lutto di quei fratelli e la notte di pioggia che fa loro da cornice. Intanto la commedia nera, con rabbie, appunto, unghiate, lacerazioni. Poi un grottesco che sa mescolare al dramma l'ironia, con la sola riserva nei confronti di alcuni compiacimenti trasgressivi che vanno oltre l'irriverenza: probabilmente per ricordarci che Mullan ha recitato nelle malebolge di "Trainspotting". Quindi, e non da ultimo, il realismo con cui son proposte sia le vicende dei singoli personaggi sia gli ambienti che li accolgono: con asprezza ma anche con asciuttezza, evitando squilibri, insistenze ed eccessi; riuscendo a darci della stessa Glasgow una immagine in nero che l'assimila, con evidenti intenzioni, ai personaggi in lutto e ai loro esasperati furori. Gli interpreti che danno vita a questi personaggi, non sono noti, ma hanno facce da ricordarsi.

(Gian Luigi Rondi - Il Tempo -)

Si apre in sordina, con un gruppo di famiglia in un interno: tre fratelli e una sorella handicappata, intorno alla bara aperta della madre, e poi seduti a scegliere qualche oggetto ricordo da una vecchia scatola. La macchina da presa passa su di loro, prosegue lungo le pareti della stanza, mentre riecheggia la voce che li consolava durante i temporali quando erano piccoli, dissolve in nero, accenna un flashback della memoria e torna su di loro, oggi. "Orphans": orfani, di padre e madre, di identità e coesione culturale, di compagni, ideali, amici, cause, santi. Fin dalla prima scena, un cinema che si annuncia subito come "consapevole", memore del dolore straziato di Terence Davies e della pulizia graffiante di Mike Leigh. Poi, nella lunga notte che precede il funerale (e che comprende tutta la narrazione), quando i fratelli si dividono, tra un pub e interminabili giri in auto, tra incontri occasionali e la ricerca affannosa l'uno dell'altro, mentre una burrasca di proporzioni innaturali squassa Glasgow, irresistibili accenni comici si saldano con violenze improvvise. Curioso, questo esordio nel lungometraggio di Peter Mullan. Sarà forse perché dal protagonista di My Name is Joe pareva lecito aspettarsi un film che rispecchiasse il solido realismo di Ken Loach, ma si resta come spiazzati, e via via più incuriositi e infine conquistati, dalla piega surreale che prende il percorso dei quattro fratelli.

(Emanuela Martini - Film TV -)

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IL CASO WINSLOW
(The Winslow boy)
Remake e collegamenti: "The Winslow boy" (1948) - "Pojken Winslow" (1959) (TV) - "The Winslow boy" (1977) (TV) - "The Winslow boy" (1988) (TV)

Regia e Sceneggiatura - David Mamet - Con: Nigel Hawthorne, Rebecca Pidgeon, Jeremy Northam, Gemma Jones
Soggetto: tratto dal dramma Il cadetto Winslow di Terence Rattigan - Fotografia: Benoit Del Gomme - Musica: Alaric Jans - Origine: USA 1999 - Durata: 110'

Vale la pena guastarsi la vita per una questione di principio? Vale la pena mandare all'aria un matrimonio già combinato, la tranquillità della famiglia, lo stesso avvenire economico soltanto per non vedere infangato il buon nome della casata? L'anziana protagonista di Il caso Winslow di David Mamet, non ha dubbi: la risposta ai quesiti precedenti non può essere che affermativa. Il fatto è che il più giovane dei suoi figli, appena ammesso in una prestigiosa accademia militare (siamo in Gran Bretagna, poco prima dello scoppio della Grande Guerra) ne è stato espulso con un'accusa infamante: avrebbe falsificato firma di un altro cadetto, intascando così una somma di denaro non sua. Le autorità militari, per definizione infallibili, dopo una breve inchiesta hanno emesso un giudizio senza appello. Ma il padre (Nigel Hawthorne) non ci sta. Avuta assicurazione che il figlio non ha commesso il reato (gli basta guardalo negli occhi) si lancia nella classica battaglia persa. Lo sosterranno la figlia (Rebecca Pidgeon) e un giovane, brillantissimo avvocato (Jeremy Northam).

Lo schema lungo cui si sviluppa da qui in avanti il film è dei più classici: alternanza di speranze (poche) e delusioni (tante), defatiganti attese, interesse morboso della stampa, solidarietà dell'opinione pubblica che fa della vicenda quasi un novello "caso Dreyfus". Tuttavia Mamet, consumato conoscitore delle leggi dello spettacolo, non rimane vittima di gabbie "alla Perry Mason". Fa risaltare tutto il valore del testo teatrale di Terence Rattigan, da cui la pellicola è tratta; sfrutta al meglio la tradizionale, prodigiosa scuola britannica di recitazione; offre tocchi eleganti di regia concentrandosi sui particolari, sulle giunture, su quello che a prima vista potrebbe sembrare essenziale. Ne esce una pellicola solida, forse un po' fuori moda, civile e, alla fine, emozionante. La rivelazione della sentenza, fatta dalla fedele cameriera Violet, è un pezzo di bravura da mettere i brividi.

(Luigi Paini - Il Sole 24 ore -)

"Che i diritti prevalgano". Questo è principio giuridico-morale su cui si basano le vicende di Il caso Winslow di David Memt. Il sesto lungometraggio dell'autore di Homicide potrebbe sembrare, ad un'analisi superficiale, l'ennesimo film-processo che vede protagonista un innocente accusato di aver commesso un'azione illegale. Ma così non è. Al centro della sceneggiatura che Mamet ha tratto dalla commedia teatrale di Terence Rattigan infatti, c'è un tema fondamentale che concerne le società moderne e democratiche: il concetto che evidenzia la diversità tra legge e diritti civili e umani. Sì perché la giustizia non sempre è giusta. Spesso, infatti, è semplicemente espressione di un potere che costruisce un sistema giuridico congegnato per salvaguardare color i quali esercitano il potere stesso. I diritti invece sono fattori immutabili, indiscutibili e universali che riguardano tutti gli esseri viventi, senza discriminazione di alcun tipo.

(Maurizio G. De Bonis - www.cinema.it -)

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LA POLVERIERA
(Bure Baruta)

Regia: Goran Paskaljevic - Con: Nicola Ristanovski, Nebojsa Glogovac, Miki Manojlovic, Marko Urosevic
Soggetto: tratto dall'opera teatrale Bure Baruta di Dejan Dukovski
Sceneggiatura: Dejan Dukovski, Goran Paskatjevic con la collaborazione di Filip David e Zoran Andric
Fotografia: Milan Spasic - Musica: Zoran Simjanovic - Durata: 100'

"Non è colpa mia", dicono i molti personaggi di La polveriera (Bure baruta, Jugoslavia, 1998). Non importa che cosa stiano facendo. Non importa se siano vittime che tentano di sottrarsi a carnefici che infieriscono su vittime. Solo importa questa negazione: non è mia, la colpa. È necessario notare che, così, non solo qualcosa è negato, ma anche qualcosa è affermato? Si dà per scontato che una colpa esista, e che a essa si debbano ricondurre il disordine, l'insicurezza, il rancore diffuso. Quello che descrivo - dice Goran Paskaljevic, nato a Belgrado nel `47 - è la tensione che pervade il mio Paese, la violenza che lo abita, la notte nella quale da tempo è caduto. E certo è lecito aggiungere: l'abitudine di dar senso al buio, di interpretarne l'insensatezza spaesante ricorrendo al paradigma e al filtro paranoico della colpa, all'espulsione del suo fantasma su altri. Paure e sofferenze, angosce e deliri, tutto è interpretato alla "luce" di quel filtro: qualcuno, un altro, ne è responsabile; qualcuno, un altro, ne porta necessariamente il peso. Ne viene una specie di cerchio magico dell'autodistruzione, un meccanismo circolare di conflitto e odio che si autoalimenta: la tensione produce violenza che produce fantasmi di colpa che producono tensione che produce violenza... Circolare, appunto, è il film di Paskaljevic. Tenuto tutto dentro il "luogo chiuso" di una notte per le strade di Belgrado, passa di personaggio in personaggio, di crudeltà in crudeltà, di miseria umana in miseria umana. E però questo suo passare non è affatto un procedere, un andare in avanti. Ogni volta, il personaggio, la crudeltà e la miseria ripetono quelli che li hanno preceduti. Cambiano, e solo in parte, gli elementi narrativi - i volti, le condizioni di vita, le collocazioni sociali, le età -, ma resta pressoché immutato il meccanismo psicologico che domina, i comportamenti. Immutati restano anche il silenzio desolato delle paure, l'opacità dei sentimenti, il buio delle anime.

L'ultima cosa che, in platea, ci sentiamo di fare è considerarla una faccenda che non ci riguarda, una questione di "ferocia balcanica". Sarebbe tragico che ci sfuggisse un "non è mia, la colpa". Sarebbe il segno che, anche noi, siamo presi nella circolarità paranoica che vive di fantasmi.

(Roberto Escobar - Il Sole 24Ore -)

Titolo metaforico per indicare Belgrado, La polveriera arriva sui nostri schermi quando è già scoppiata: non per autocombustione, come sembra vaticinare il film di Goran Paskaljevic, ma sotto le bombe americane. In questo caso il cinema si propone come una sorta di flashback della tv: guardiamo sul video di roghi notturni delle incursioni e sullo schermo vediamo il "prima". Da oppositore del regime, Paskaljevic, vive a Parigi: il che gli permette di essere l'unico importante regista ex-jugoslavo in attività. Qui ha adattato un dramma del macedone Dejar Dubrovski riportandolo alle tre unità aristoteliche: tempo (una notte), luogo (Belgrado) e azione.

Di scena alcuni fra i maggiori attori serbi, tutti bravissimi, come succede nei film corali di Scola. Si parte dal cabaret dove un "artista esoterico" profetizza sventure e approda l'emigrato Miki Manojlovic che vorrebbe rivedere la morosa Miriana Karanovic, disposto per commuoverla a mobilitare su un barcone del Danubio un'intera orchestra sinfonica. (...)

Emerge l'affresco di una società senza freno né legge. "Nel nostro paese non c'è più luce" constata un personaggio; e in effetti questo catalogo di antropologia belluina, affascinante e sconvolgente, apre uno spiraglio per capire la tragedia dei belgradesi. A loro va un pensiero solidale perché colpevoli o innocenti che siano, la stanno pagando troppo cara.

(Tullio Kezich - Il Corriere della Sera -)

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FINO A PROVA CONTRARIA
(True crime)

Regia: Clint Eastwood - Con: Clint Eastwood, Isaiah Washington, Lisa Gay Hamilton, James Woods, Denis Leary
Soggetto: tratto dal romanzo Prima di mezzanotte. di Andrew Klavan - Sceneggiatura: Larry Gross - Fotografia: Jack N. Green - Musica: Lennie Niehaus -Origine: USA 1999 - Durata: 127'

Che sia una questione di aspettative? Chi va a vedere un film firmato da Clint Eastwood regista con Clint Eastwood interprete, tratto da un bel thriller di Andrew Klavan, confezionato con un certo dispendio di soldi, centrato su un tema sempre scottante come quello della pena di morte, può scegliere tra due stati d'animo: quello dello spettatore che vuol solo passare due ore in compagnia di una bella vecchia faccia amica e di un po' di adrenalina - e allora Clint Eastwood è sempre un simpatico vedere, e il giallo, più o meno funziona -, e quello di chi vorrebbe e ha diritto di aspettarsi qualcosa di più di una routine un po' stanca. Che è invece quanto offre Clint Eastwood in Fino a prova contraria (True Crime), dove si cala nei panni per lui un po' troppo giovanili di un cronista del "Tribune" di Oakland, marito fedifrago, padre disordinato ed egoista, donnaiolo incallito, il quale, alla morte per incidente di una collega, viene spedito dal suo direttore James Woods (eccessivo ma divertente) a San Quintino, a raccogliere l'ultima intervista di un giovane padre di famiglia nero condannato a morte per avere ucciso la commessa di un drugstore. Solo che il presunto assassino (Isaiah Washington) è troppo pacato, affettuoso con la famiglia e religiosamente sereno perché non venga subito il sospetto che sia, come d'altra parte lui stesso ha sempre sostenuto, innocente. E grazie al fiuto che ha fatto di lui un leggendario "Investigative reporter" Clint Eastwood se ne convince al primo sguardo. Con un piccolo problema. La condanna deve essere eseguita la notte stessa, il tempo per rivedere la sentenza è pochissimo.
(Irene Bignardi - La Repubblica -).

A un certo punto di Fino a prova contraria il regista-protagonista Clint Eastwood è nel bagno, sta a torso nudo davanti allo specchio, e si vede che nel Duemila avrà settant'anni: le spalle sono un poco arrotondate, la pelle sciupata ricade in pieghe sull'addome, la testa piccola e sguernita pare quella d'un uccello spiumato sopra il collo rugoso. È un tocco in più dell'ironia e autoironia con cui è costruito il personaggio, giornalista invecchiato e fallimentare, bevitore, donnaiolo, superfumatore, adultero, cattivo padre, eppure grandioso, seducente. L'unico ancora abbastanza intelligente, intuitivo e umano da accorgersi, quando gli viene affidato il reportage sull'esecuzione d'un giovane nero accusato d'aver ucciso una cassiera bianca durante una rapina, che il condannato è innocente; l'unico che senta il dovere di salvargli in poche ore la vita, di opporsi alla giustizia ufficiale e di ripristinare la verità.
I due caratteri sono contrastanti, nella penombra che domina il film: il condannato nero è legatissimo alla moglie e alla figlia piccola che lo amano, il giornalista bianco è considerato dalla moglie con amara considerazione e delude costantemente la figlia piccola; l'uno è nobilmente patetico, l'altro ha continui comici scontri al giornale col suo direttore e col redattore capo; il morituro ostenta la propria innocenza, il reporter ha un perenne senso di colpa. Tra gli interpreti figurano la moglie, una ex moglie e la figlia bambina di Eastwood. (...)
Gran film, bello. Tra classicismo e sperimentazione, energia e romanticismo, il cinema di Clint Easwood ha assunto una singolarità subito riconoscibile all'interno del sistema hollywoodiano. Fino a prova contraria, pur andando oltre ne condensa benissimo le caratteristiche: suspense, problema sociale, ironia, e una regia forte, controllata, che vuol negare il caos della realtà.
(Lietta Tornabuoni - La Stampa -)

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GIORNO PER GIORNO
(Yom Yom)

Regia: Amos Gitai - Con: Moshe Ivgi, Hanna Maron, Yussef Abu Warda
Sceneggiatura: Amos Gitai, Jacky Cukier - Origine: Israele 1998 - Durata: 97'

Dopo aver elaborato i temi del sionismo (Berlin/Jerusalem) e dell'esilio (Golem - Lo spirito dell'esilio) il regista israeliano Amos Gitai ha iniziato a scrivere una storia delle generazioni che dal 1948 a oggi hanno costruito il suo paese: una storia iniziata nel 1995 con Devarim - L'inventario e che ora continua con Yom Yom.

Protagonista del film è infatti una famiglia arabo-israeliana di Haifa: il padre, Yussef (Yussef Abu Warda) è indeciso se vendere l'ultimo pezzo di terreno della famiglia, dove c'è la casa dei genitori, a degli speculatori che vogliono costruire un centro commerciale, mentre il figlio, Moshe (Moshe Ivgi) si dibatte fra la moglie (Dalit Kahan), l'amante (Nataly Atlya) e la desideratissima dottoressa (Anne Petit-Lagrange). Un ritratto impietoso della società israeliana che arriva a mettere in dubbio il sistema di vita del moderno stato ebraico.

(- Ciak -)

(f.t.) L'israeliano Gitai non è certo un regista molto frequentato dalle nostre parti: E questa uscita suicida del suo penultimo film a luglio inoltrato di sicuro non migliorerà la situazione. Chi ha avuto comunque la sorte di sbatterci il muso, magari per caso, o chi è andato a cercarselo, magari ricordandosi Golem ('91), avrà scoperto un autore che ha abbandonato definitivamente i vezzi intellettualistici e pretenziosi di un certo suo "cinema dell'esilio" e riconquistando la propria patria ha riacquistato anche uno sguardo più asciutto e "concentrato" (quasi etico), più vero e sincero (al di là dei difetti che comunque ha un film come questo).

Yom Yom (Giorno per giorno) è il titolo di questo film e insieme il senso e il modo del suo svolgersi in tondo, in una ossessione senza uscita. E' una formula da ripetersi all'infinito, come accade negli arabescati titoli di testa e come ribadisce la prima sequenza con la camera fissa sulla schizofrenia di Mimi, spinta dal demone dell'apatia a moltiplicare gli stessi gesti senza senso (e poi a tempestare chiunque gli stia davanti domande insensate in un insensato dialogo sul nulla). Ma anche come ribadiranno le nevrosi dei protagonisti, dalla bulimia alimentare e sessuale di Moshe, alla cronica necessità di trasgressione di Jules. Sono tutti impigliati nella stessa ragnatela, tutti presi nel circolo vizioso mentale di una società (quella israeliana) che non riesce a liberarsi dai suoi fantasmi, forse persino legittimati da ciò nella loro inettitudine a vivere "normalmente" (quante volte Moshe e Julien ripetono: "Sono tutti pazzi" o "Viviamo circondati dai pazzi" ?). Anche se lo sguardo di Gitai è soprattutto concentrato sullo sbandamento esistenziale perenne di Moshe, alle prese con un pesante senso di non apparenza (non per niente il padre arabo lo chiama Moussa e la madre ebrea Moshe; il padre stesso dovrà arrabbiarsi più di una volta con chi "ebraizza" il suo nome) e condannato a non avere figli (è un ibrido alla ricerca di un'identità...).

Le occasioni di divertimento (spesso amaro) non mancano. Vedi ad esempio lo "stage" militare dei poveri Moshe e Julien, insieme a una combriccola di altri sfigati di mezza età, costretti ad esercitazioni idiote in un'atmosfera demenziale tipo colonia estiva: "Sembriamo dei bambini che si mettono a giocare ai cowboy a quarant'anni". O il momento in scopriamo che Moshe non potrà neppure fare i funerali alla madre perché lei ha "voluto donare il suo corpo alla scienza" e lui non trova miglior modo di sfogare il suo dolore che saltando addosso alla dottoressa e cimentandosi in un goffo corpo a corpo sul pavimento di una sala medica.

E non mancano neppure le trovate intelligenti. Come la versione catatonica di un Grande Fratello (le mille telecamere collegate allo schermo davanti a Mimi) ridotto a "guardone" senza più stimoli, controllore di uno stato di nulla apparente, incapace perfino di dare l'allarme per una rapina che si consuma sotto lo sguardo annoiato di chi vorrebbe essere da tutt'altra parte. O come la scelta di una regia che o si fissa sui primissimi piani dei suoi protagonisti (lasciando anche che una voce fuori campo rimanga senza volto per diversi lunghi istanti), sui volti di individui concentrati solo su se stessi (la politica ? Meglio non pensarci...), o si lascia trasportare da movimenti circolari e pendolari che amplificano il senso dello Yom Yom.
(- Cineforum -)

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ORMAI È FATTA

Regia: Enzo Monteleone - Con: Stefano Accorsi, Fabrizio Sacchi, Giovanni Esposito, Emilio Solfrizzi, Antonio Catania
Sceneggiatura: Enzo Monteleone, Angelo Orlando - Fotografia: Arnaldo Catinari - Origine: Italia 1999 - Durata: 100'

"Piccolo eroe" o "caso giudiziario" che sia, Horst Fantazzini (30 anni di galera scontati fino ad ora senza aver ucciso nessuno, forse uscirà nel 2024), avrà tutto da guadagnare da questo film affettuoso e avvincente che Enzo Monteleone gli ha dedicato.

Ormai è fatta!, racconta di un'Italia dei primi anni Settanta, poco frequentata dal cinema, e lo fa senza "punire" il pubblico al quale si rivolge: in una chiave di commedia d'azione dalle sottolineature perfino divertenti, ma pronto, con l'avvicinarsi dello "showdown" sanguinoso, a mutarsi in tragedia italiana. (…)

Vivacemente impersonato da Stefano Accorsi, bolognese come il vero Fantazzini, il personaggio assume nel film di Monteleone un tratto ancor più amabile: appare come un "irregolare" sfortunato, un criminale sui generis incapace di sottrarsi al proprio destino, un ribelle ripudiato anche dal padre fedele all'ideale anarchico, sostanzialmente un uomo poco incline alla violenza (quell'ultimo proiettile pare volesse riservarlo per sé). Nel trasportare sullo schermo la cronaca di quelle dodici ore, sulla scorta di un libretto scritto dallo stesso Fantazzini, Monteleone ricostruisce un'estate italiana - non ancora toccata dal gelo degli anni di piombo - che sembra lontanissima e fa persino tenerezza: alla radio furoreggiava Pazza idea di Patty Pravo, la televisione aveva solo due canali (il secondo cominciava alle 21), di supercarceri e teste di cuoio non si parlava e i due agenti intrecciarono una curiosa amicizia con il sequestratore, scambiandosi panini e confidenze.

Dentro l'impeccabile confezione, gli interpreti (dagli ostaggi Emilio Solfrizzi e Giovanni Esposito alla moglie Fabrizia Sacchi, dal magistrato Antonio Catania al direttore del carcere Antonio Petrocelli) si muovono senza una stonatura. Bella la fotografia di Arnaldo Catinari, che restituisce l'atmosfera del tempo e condivide con l'autore la famosa domanda brechtiana che incombe sul film: "È più criminale fondare una banca o rapinarla?".

(Memmo Giovannini - Tempi Moderni)

La ricostruzione delle resistibili imprese del "rapinatore gentiluomo" Horst Fantazzini, basata sull'autobiografia del protagonista. Figlio di anarchico, Horst (Stefano Accorsi) è convinto che fondare una banca sia più criminale che rapinarla. La rapina del prologo dà in sintesi il tono della rappresentazione: un po' commedia un po' dramma, un po' grottesco (il modello è l'indimenticato Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet, basato anch'esso su un episodio autentico dello stesso decennio) con molta attenzione al clima dell'Italia anni `70. (...)
È riuscito bene nell'intento Enzo Monteleone, esperto sceneggiatore (quattro film di Salvatores) alla seconda regia per il grande schermo. La struttura narrativa di Ormai è fatta! è solida: unità di tempo, punteggiata da pochi "esterni" e da sobri flashback in cui la moglie racconta a un giornalista la sua vita con Horst.

(Roberto Nepoti - la Repubblica -)

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SOLDI SPORCHI
(A simple plan)

Regia: Sam Raimi - Con: Bill Paxton, Bill Bob Thornton, Bridget Fonda, Brent Briscole, Jack Walsh
Soggetto e sceneggiatura: Scott B. Smith dal romanzo Un piano semplice - Fotografia: Alan Vivilo - Musica: Danny Elfman - Durata. 121' - Origine: USA 1998

Scende la neve su Delano, piccola città del Minnesota. Piccola città, bastardo posto: i versi della canzone di Guccini definiscono al meglio questo luogo all'apparenza così lindo, ovattato, quieto, eppure, allo stesso tempo, teatro di una vicenda di una crudeltà inaudita. Qui, infatti, Sam Raimi ha scelto di ambientare Soldi sporchi, ovvero una discesa nell'inferno della quotidianità che ha pochi eguali nel cinema recente. Perché, a differenza di tanti prodotti simili, i protagonisti sono "davvero" delle brave persone, dei tizi come noi, non particolarmente cattivi né particolarmente buoni.

Gente comune, padri, madri, fratelli e amici, la cui vita proseguirebbe nella più assoluta tranquillità se Satana - sempre lui! - non decidesse che è arrivata l'ora della tentazione. Il momento scelto per agire è quello della visita che, come da tradizione, Hank (Bill Paxton) e suo fratello Jacob (Billy Bob Thornton), accompagnati dall'amico Lou (Brent Briscoe), compiono alla tomba di papà. Sulla strada del ritorno una volpe, che ha appena ghermito una gallina, attraversa di colpo la strada e li fa sbattere contro un palo della luce. Ed ecco aprirsi, del tutto per caso, la dimensione del Male: nascosto fra gli alberi appare un piccolo aereo precipitato di recente. A bordo, accanto al cadavere del pilota scarnificato dai corvi, c'è una sacca con un'incredibile montagna di dollari. Soldi sporchi, appunto, ma che possono rivoluzionare, la vita di Lou, Jacob e Hank, la cui mogle (Bridget Fonda) sta per avere un bambino.

Esattamente come nel peggiore degli incubi, sentiamo che i protagonisti si stanno incamminando, su un piano inclinato, su una viscida discesa verso l'abisso. Vorremmo salvarli, "entrare" nello schermo, dare loro un'àncora di salvataggio. Ma Raimi, che è un grande autore, non ha suna intenzione di tirare il freno. La "bellezza del diavolo" già tante volte vista in azione, ha un conto in sospeso anche nella sorniona, silenziosa amabilissima Delano.

(Luigi Paini - Il sole 24 ore -)

(…) saggiamente, inoltre, Raimi si tiene lontano dall'ironia nel raccontare una storia che di umoristico ha ben poco, e nella quale l';assurdità delle situazioni che si verificano, e che illustrano esemplarmente il teorema della banalità del male, fanno da corollario, senza moralismi, ad un semplice teorema: l'essere umano è incapace di gestire le conseguenze di un'azione amorale e sbagliata. Qui non ci sono balordi di provincia, donne sceriffo dal fiuto acutissimo, psicopatici imbambolati e rapitori pasticcioni. Questo non è il mondo, straordinario, dei Coen. Qui ci sono persone ordinarie, "normali": il fatto che per una volta cedano alla tentazione è sufficiente ad imprigionarle in una spirale di atti inconsulti che, come un gorgo limaccioso, le trascina sempre più a fondo. ( ). Perfetto per il ruolo è infine Bill Paxton, volto comune, bel ragazzo cresciuto a torta di mele, uomo integerrimo e colonna della comunità che, com'è ovvio, avrà tutto il tempo del mondo, un tempo intessuto di segreti e rimorsi, per riflettere sulla sua vera natura e sul male che ha fatto. A Simple Plan è tutto questo: un film importante, un romanzo da recuperare, un'opera al nero sul biancore accecante di una neve attesa e desiderata per coprire tracce e camuffare delitti, un conte moral sullo sfondo di una natura indifferente alle nostre sorti, che l'uomo, questo essere fragile e pieno di zone d'ombra, riesce perfino a contaminare, a rendere sua muta complice.

(Daniela Catelli - www.cinema.it -)

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Dr. AKAGI
(Kanzo Sensei)

Regia: Shohei Imamura - Con: Akira Emoto, Kumiko Aso, Jyuro Kara, Masanori Sera, Jacques Gamblin, Keiko Matsuzaka, Misa Shimizu, Yukiya Kitamura
Soggetto: Hideko Nakada - Sceneggiatura: Shohei Imamura, Daisuke Tengan - Fotografia: Shigeru Komatsubara - Musica: Yosuke Yamashita - Durata: 128' - Origine: Giappone 1998

Ispirandosi a un personaggio realmente esistito e un poco anche al proprio padre, il gran regista giapponese settantatreenne Shoei Imamura traccia il ritratto di un medico di quartiere generoso, povero, altruista. Nel giugno 1945, alla fine della seconda guerra mondiale dopo la resa della Germania, alla vigilia della parziale devastazione del Giappone con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il dottor Akagi, modello d'umanitarismo e di coraggio, séguita a curare i suoi pazienti, continua a studiare l'epatite che gli appare il flagello più pericoloso, salva la vita d'un militare senza badare se sia oppure no un nemico, resta legato agli amici (un medico militare morfinomane, un bonzo sessuomane, una ragazza che mantiene la famiglia prostituendosi). La lontananza del dottor Akagi dagli avvenimenti bellico-politici non nasce dall'indifferenza, ma dalla convinzione che, se ciascuno assolve al proprio compito senza lasciarsi trascinare dal nichilismo della guerra, forse qualcosa (anche il decoro-dovere della professione medica) potrà sopravvivere: ma poi si disegna all'orizzonte la letale nuvola bianca a forma di fungo. Lo stile di Imamura, piano, vitale, a volte comico nel ritrarre i singolari personaggi che ha scelto, trasforma la vicenda in un apologo morale e in una convincente metafora dell'Impero giapponese in disfacimento.

(Lietta Tornabuoni - La Stampa -)

(…) Imamura, nella sua personalissima estetica al di sopra di ogni moda, fa convivere i momenti di violenza con altri al limite della farsa, sposando la messa in scena classica con stili di rappresentazione più trasgressivi di quelli che si potrebbero trovare in qualsiasi regista giovane. Da tutto ciò esce il ritratto di un eroe, campione dell'umanitarismo in mezzo alla demenza della guerra, mentre il film ci appassiona alla narrazione della ricerca su un virus come a una avventura epica. Alla fine gli sforzi del dottor Akagi verranno frustrati dalla pazzia dei militari e sarà, ancora una volta, il fungo atomico a fiorire sullo schermo. Ma riservando allo spettatore un'ultima sorpresa, che vale la pena di andare a scoprire da soli.

(Roberto Nepoti - La Repubblica -)

…..Un grande regista, che però in Occidente - a differenza dei citati Kurosawa e Kitano - non ha mai sfondato. Colpa dell'Occidente? Diremmo proprio di sì. Imamura è meno accessibile di Kurosawa, però gira film vitali e impudenti, assai più "popolari" di quelli di Kitano (che non a caso, in Giappone, va fortissimo in tv, ma non al cinema). Dr. Akagi, che era fuori concorso a Cannes un anno fa, ne è la dimostrazione……

Raccontando la storia di un eroe e dei suoi sordidi, umanissimi amici, Imamura compone il ritratto grottesco di un impero moribondo. Vedendo i film di Kitano si può imparare qualcosa sul cinema, ma vedendo i film di Imamura si impara molto sul Giappone e sull'umanità. Perché non provare?

(Alberto Crespi - L'Unità -)

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TERAPIA E PALLOTTOLE
(Analyze This)

Regia: Harold Ramis - Con: Robert De Niro, Billy Crystal, Lisa Kudrow, Joe Viterelli
Sceneggiatura: H. Ramis, P. Tolan - Fotografia: Syoart Dryburgh - Origine: USA 1999 - Durata: 104'

L'ultima versione di La strana coppia ci viene, assieme a una moderata quantità di divertimento, da Terapia e pallottole ("Analyze This") e dal duo Robert De Niro-Billy Crystal. Il film di Harold Ramis (che ha molto maggiori meriti nella sua filmografia, almeno per quanto riguarda una commedia intelligente e divertente come "Ricomincio da capo") ha quanto meno uno spunto molto brillante: l'idea di un boss mafioso che entra in crisi, scopre che cos'è il panico, sente il bisogno, per tornare a essere un bravo boss, di farsi curare - e, miracoli delle terapie cinematografiche, ci riesce. Siccome poi il boss è De Niro, che sta scoprendo in questi anni il gusto e il talento della commedia, il gioco sembrerebbe fatto. Dall'altra parte dell'analisi sta invece Billy Crystal, psicoanalista con ragazzino ciccione (ahi, questo non è un buon segno per un padre terapeuta) che, come in Un'altra donna di Woody Allen, spia le sedute, le registra e si diverte un mondo. Il boss irrompe nella vita del povero psichiatra, lo costringe a prenderlo come paziente (anche se non si fida per niente di questo signor Freud che il suo dottore cita di continuo), lo insegue a Miami dove il poveretto, dopo anni di solitudine, dovrebbe risposarsi, lo mette nei guai con l'Fbi immediatamente sospettoso, gli regala come dono di nozze una fontana barocca - insomma fa tutto quello che un boss mafioso in crisi può immaginare per sentirsi meglio. E intanto noi ci facciamo qualche risata, per merito di De Niro più che di Billy Crystal, sempre bravo e un po' rigido dietro la sua barba professionale.

Alla fine Terapia e pallottole è un assortimento di centoni di commedia mafiosa già vista più che un gioco originale, e Harold Ramis, senza poter ricorrere al gusto dell'assurdo di altri suoi film, è spiazzato, con qualche tempo morto di troppo. Ma con almeno una sequenza (fulminea) di grande humour: il corteo di stretched limos - le lunghe limousine dei mafiosi - che attraversano tutte insieme il Triboro Bridge per recarsi al summit.

(Irene Bignardi)

L'ottimo Harold Ramis, già interprete di Ghostbusters ed autore di una delle commedie più intelligenti degli ultimi anni, Ricomincio da capo, firma la regia e la brillante sceneggiatura di questo esplosivo mix tra acuta ironia yiddish, affidata allo psicoterapeuta ebreo Billy Crystal, e divertita parodia del mafia-movie, impersonata con eccellente misura dall'icona del genere, uno strepitoso Bob De Niro. Scorsese più Allen, quindi, per una commedia "ibrida" che facilmente avrebbe potuto scivolare nella farsa e che, al contrario, la calibrata sceneggiatura di Tolan e Ramis, la solida regia di quest'ultimo e le performances perfette dei protagonisti, rendono un efficace connubio tra generi diversissimi, tanto sorprendente, quanto divertente. (...) L'analisi come redenzione e rimozione di una vita di violenze e sopraffazioni e la malavita come antidoto ad un'esistenza prevedibile e frustrante: è su questo scambio sottile che gioca la commedia di Ramis, con battute fulminanti e situazioni paradossali nelle quali De Niro e Crystal sfoggiano l'uno una minacciosa, fragile ferocia, e l'altro una controllata, lucida nevrosi. E se il capomafia e lo psicanalista corrono lungo il pericoloso crinale che separa personaggio da caricatura, le eccellenti interpretazioni dei due protagonisti riescono a mantenerle entro i limiti della verosimiglianza. Al di là di una certa superfluità della parentesi "matrimoniale" di Crystal, avvertibile in uno scarso sviluppo drammaturgico, Terapia e pallottole si conferma come una delle pochissime belle sorprese di questa deprimente, come sempre, estate cinematografica.

(Giovanni Romani - www.cinema.it -)

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IL DOLCE RUMORE DELLA VITA

Regia: Giuseppe Bertolucci - Con: Francesca Neri (Sofia), Rade Serbedzija (Bruno a 5 anni), Niccolò Senni (Bruno a 15 anni), Rosalinda Celentano (Lolita), Olimpia Carlisi (Prostituta) e Alida Valli (la nonna)
Soggetto e sceneggiatura: Lidia Ravera, Mimmo Rafele, Giuseppe Bertolucci - Fotografia: Fabio Cianchetti - Scenografia: Gianni Silvestri - Musica: Bevano Est - Suono in presa diretta: Tullio Morganti - Origine: Italia 1999 - Durata: 92'

Tre accordi musicali alla ricerca di un tema. Il tema di Sofia, ma anche il tema di Bruno, il tema della maternità, il tema della menzogna; ma soprattutto il tema del "Caso", l'impareggiabile compositore che, un atto dopo l'altro, inventa il melodramma della nostra vita. Questo film nasce infatti prima di tutto dal desiderio di accostarmi a un genere, quello appunto del melodramma, che accompagna la storia del cinema fin dalle origini.
(Giuseppe Bertolucci - sito ufficiale festival di Venezia 1999 -)

Sofia è una giovane attrice. Bruno il suo carismatico maestro. Hanno una relazione, ma quando lei scopre che l'amante ha una storia con il primo attore, disperata e furiosa decide di tornarsene a casa. Sul treno che la porta al Nord, Sofia si imbatte in una giovane che partorisce e lascia nella toilette, il neonato infreddolito. La madre scompare e Sofia sceglie di tenere il bambino per sé, facendolo passare per suo figlio. La maternità secondo Giuseppe Bertolucci, ovvero un percorso tra sogno e realtà, tra messa in scena e vita reale, che si snoda come uno spettacolo itinerante nel corso delle tre età della donna. Francesca Neri attraversa la sua esistenza tenendo per mano un bambino non suo, sapendo che dopo il tempo dei balocchi ci sarà quello delle domande e dei molti dubbi irrisolti. Le inquadrature oblique e l'atmosfera spesso rarefatta rendono questo film un poetico omaggio, non solo alle madri per "vocazione", ma alla vita stessa. Sofia, orfana "per scelta" e abbandonata dall'amante e dall'amore, ricostruisce un'infanzia (la sua e del piccolo Bruno) come uno spettacolo sul quale non vorrebbe mai calare il sipario, con un ruolo che le aderisce all'anima e alla pelle. Ma ancora una volta il Caso la riporta all'inizio del suo viaggio, la costringe a rileggere una parte che non può più continuare a cambiare. Il dolce rumore della vita è un melodramma onirico e a tratti clownesco, sospeso tra il sogno e il sonno, tra il vissuto e l'immaginato dove la storia sembra quasi un pretesto per una struggente suggestione registica.
(Eleonora Saracino - www.cinema.it -)

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IL VENTO CI PORTERA' VIA
(Le vent nous emportera)

Regia: Abbas Kiarostami - Con: Behzad Dourani, gli abitanti del villaggio di Siah Dareh
Genere: Metafora - Soggetto: Mahmoud Ayedin - Sceneggiatura: Abbas Kiarostami - Fotografia: Mahmoud Kalari - Musica: Peyman Yazdanian - Montaggio: Abbas Kiarostami - Produzione: Marin Karmitz, Abbas Kiarostami - Distribuzione: BIM distribuzione - Origine: Francia - Iran 1999 - Durata: 110'

Di primo acchito Il vento ci porterà via, il film di Abbas Kiarostami presentato a Venezia (e premiato con il Premio Speciale della Giuria che ha irritato il regista, giustamente convinto di meritare il Leone d'Oro), potrebbe sembrare un film di maniera. Nel senso che è un distillato degli elementi tipicamente kiarostamici che abbiamo già incontrato più volte nel suo cinema: il viaggio, lo scontro-incontro tra due culture, lo sguardo esterno, dell'intellettuale, sul mondo contadino, l'uso del silenzio come elemento narrativo, l'insistenza sul paesaggio, la presenza di uno sguardo infantile che fa da controcanto alla vicenda. Ma Il vento ci porterà via non è di maniera per la forza e lo splendore di una visione poetica che si nutre di autoironia e di uno stile sempre più sofisticato nella sua semplicissima eleganza.
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Il vento di porterà via ci racconta, con molti omissis, una storia semplice nutrita di suggestioni complesse: in un remoto e bellissimo villaggio del Kurdistan iraniano a 700 chilometri da Teheran piomba su una Land Rover un tale che si fa chiamare "ingegnere" (ma noi ipotizziamo che si tratti di qualcos'altro, probabilmente un documentarista che dovrebbe registrare i riti funebri di questo paese lontano da tutto). Gli abitanti del villaggio pensano che sia alla ricerca di un tesoro, ma lui intanto si informa ostinatamente sullo stato di salute di una vecchietta (anch'essa a noi invisibile) che non si decide a morire.
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L'aneddoto, come si vede, è piccolo. E la grandezza del film sta da un lato nella limpidezza dello stile, negli "a parte" di filosofia non tanto spicciola che l'ingegnere intreccia con i suoi interlocutori (tra cui il saggio maestro del paese), nell'uso sapiente delle ellissi, dall'altro lato nell'iniezione di humor con cui Kiarostami - come ai tempi di Sotto gli ulivi - rivitalizza la sua favola.
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Siamo in un cinema fatto di poesia visuale e di poesia verbale (sono continue le citazioni dei bei versi di Forough Farrokhzad, la poetessa iraniana morta in un incidente a soli 33 anni nel '67). E se c'è una figura retorica che incarna lo spirito di questo cinema è (non a caso siamo in Iran) l'ellissi, il silenzio, la capacità di usare l'assenza delle cose per parlare: come invisibile personaggio che in cima alla collina, a mo' di becchino scespiriano, scava ossa umane mentre l'ingegnere strilla nel telefonino. Kiarostami ha teorizzato che non gli importa se in questo cruciverba per molti versi misterioso restano delle caselle vuote. Preferisce che sia lo spettatore a comporre e completare da solo il delicato tessuto di metafore del film a rischio che non si riesca a leggerle fino in fondo. E, in questa "incompletezza", ci dà un film inusuale, misterioso e molto bello.

(La Repubblica - Irene Bignardi - 23/09/99)

Abbas Kiarostami, il numero uno del cinema iraniano, è arrivato, con "Il vento ci porterà con sè" al cinema interattivo. Chiedendo allo spettatore - con silenzi, omissioni, allusioni - di completare come meglio sente e crede il racconto che gli propone. Un racconto, in sè, semplicissimo. Si comincia con una station-wagon su cui viaggiano un uomo chiamato "ingegnere" e dei suoi assistenti che però non ci vengono mostrati.
Sono 700 chilometri da Teheran, nel Kurdistan iraniano. Arrivati a destinazione, si preoccupano della salute di una vecchia che sta morendo (anche lei non la vediamo) e l'ingegnere, recandosi spesso nei pressi del cimitero del villaggetto che fa da sfondo all'azione - tutte case bianche in mezzo al verde - parla su un cellulare con una donna che, da lontano, chiede della morente, mette fretta, impartisce ordini a nome di qualcuno al di sopra di lei.
(....)
Non è un cruciverba, è una poesia del "non detto" in cui Kiarostami è sempre stato maestro (si ricordi anche "Il sapore della ciliegia", Palma d'oro a Cannes due anni fa). Un "non detto" che fascia di lirico mistero i rapporti tra i personaggi, quelli mostrati e quelli lasciati fuori dalle inquadrature; che consente all'autore delle metafore sottili, insieme a scoperte citazioni di un noto poeta iraniano contemporaneo, Forough Farrokhzad che riesce a dar rilievo, con modi però solo impliciti. alle differenze, e alle divergenze, fra il mondo della città da cui il protagonista proviene e quello assorto, disteso e rarefatto delle campagne dov'è approdato. Con immagini solari ma, nello stesso tempo, dato il clima del film, anche arcane, con il dubbio costante che che non ci mostrino solo quello che vediamo ma che, invece, vi sottintendano dell'altro. Fino a lasciare, pur astenendosi da molte indicazioni, un segno profondo, in chi vede e in chi ascolta. Un grande cinema di un grandissimo Poeta.

(Il Tempo - Gianluigi Rondi -)

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