Regia: Marco
Bellocchio - Con: Fabrizio
Bentivoglio, Valeria
Bruni Tedeschi , Maya
Sansa, Jacqueline
Lustig, Michele
Placido, Pier
Giorgio Bellocchio
Soggetto e Sceneggiatura: Marco
Bellocchio, Daniela
Ceselli. - Liberamente tratto dalla novella omonima di Luigi Pirandello
Fotografia: Giuseppe
Lanci - Musica: Carlo
Crivelli - Durata: 100' - Origine: Italia 1998
Ancora Pirandello. Una novella, questa volta, della sua celebre
raccolta "Novelle per un anno". Marco Bellocchio, pur incorniciandola,
come era in origine, nella Roma inizi del secolo, ne ha mutato le prospettive,
i caratteri dei personaggi ed anche certi temi, indirizzati molto più
all'ottimismo che non al pessimismo dell'autore letterario. Lo schema però,
in un certo senso, rimane simile. Una coppia borghese (Valeria Bruni Tedeschi,
Fabrizio Bentivoglio) mette al mondo un figlio, poiché però la
madre non può allattare, si rende necessario far venire dalla campagna
una balia (Maya Sansa) come si usava all'epoca. (...)
Dimenticando Pirandello, però (anche se quel testo ha
una vitalità drammaturgica difficilmente accantonabile), non si può
dire che il film non abbia dei valori da accostare anche con simpatia. Intanto
quel curioso triangolo moglie, marito e balia, in cui la gelosia continua a
esplodere nei confronti della balia ma per l'affetto che nutre per il bambino;
quindi i modi di rappresentazione di cui Bellocchio si è servito per
animare la sua storia in una Roma principio di secolo illurninata dalle splendide
scenografie di Marco Dentici e sorretta ad ogni immagine dalla minuziosa e fine
scenografia di Giuseppe Lanci: in primo piano soprattutto le facce, sguardi,
i palpiti segreti, le emozioni mai gridate (anche nei momenti più scoperti).
Con la possibilità di far procedere l'azione, nonostante i molti fatti
che la percorrono, unicamente in virtù delle reazioni dei personaggi
e della rivelazione, spesso sommessa, dei loro sentimenti. Una trovata espressiva
che sa diventare stile.
(Gian Luigi Rondi - Il Tempo -)
Mia madre mi raccontava di come lei e le sue sorelle e fratelli,
in tutto 11, man mano che nascevano, venivano mandati a balia, come si diceva
allora: in campagna, in casa di donne che oltre al loro piccino ne allattavano
altri 2 o 3, in situazioni igieniche molto precarie. Ogni tanto uno moriva,
ma non era poi questa gran disperazione, di figli ce ne erano sempre troppi.
Le famiglie ricche invece si portavano in casa una balia tutta per il loro bambino,
e l'abbigliavano riccamente (tanto che i gioiellini delle balie sono ancora
molto richiesti), perché spesso le signore o non avevano latte (e non
esisteva pavimentazione artificiale) o non volevano allattare per non sformarsi
il seno. Il bel film di Marco Bellocchio che qui ha ritrovato profondità
e dolcezza, ci riporta a questa scomparsa figura femminile, misteriosa portatrice
di vita, simbolo carnale di attaccamento, di unione tra donna e bambino, e allo
stesso tempo "non persona" relegata a una mera funzione di sostentamento,
creatura invisibile, quasi animale.
(...)
La bella casa, ricca e ombrosa, percorsa da stuoli di cameriere
sfuggenti, si illumina quando arriva Annetta, giovane e splendente balia bruna
dal seno glorioso, che viene dalla campagna romana e con la violenza e il disprezzo
per i poveri di quell'epoca ha dovuto abbandonare il suo bambino per dedicarsi
al figlio dei ricchi. È commovente come Bellocchio racconta quelle vite
femminili soggiogate e inutili, la gelosia che può nascere tra la signora
elegante, e, come si diceva allora, la serva: non per l'attenzione di un uomo,
ma perché la ragazza analfabeta possiede un tesoro inestimabile della
femminilità che l'altra non ha, il seno turgido, la possibilità
di allattare, l'istintiva fisicità che le fa amare il piccino non suo,
la rende meravigliosa, calda per lui. Sullo sfondo le prime bandiere rosse,
le ribellioni degli sfruttati, i carabinieri a cavallo che disperdono i cortei
per difendere la quiete borghese, indifferente e crudele. Valeria Bruni Tedeschi,
signora dalla muta infelicità, ha una sua ansia abbandonata, l'esordiente
Maya Sansa, rustica e opulente balia, è molto bella e brava, anche doppiata.
(- La Repubblica -)
Regia: Lucian
Pintilie - Con: Costel
Cascaval (Mitu Cafanu), Dorina
Chiriac (Norica), Gheorghe
Visu (colonnello Vatasescu)
Soggetto e Sceneggiatura: Lucian
Pintilie Fotografia: Calin
Ghibu Origine: Romania 1998 - Durata: 100'
Richiede un piccolo sforzo di curiosità andare a vedere
Terminus Paradis di Lucian Pintilié, ma chi lo fa, accettando
l'invito dell'Istituto Luce, non resterà deluso. Perché il nuovo
film del cineasta rumeno (autore del discreto Un'estate
indimenticabile nonché regista teatrale per anni inviso al regime
di Ceausescu, al punto da dover emigrare in Francia nel 1972) non getta solo
uno sguardo inquietante sulla Romania postcomunista: dentro vi ribolle un umorismo
grottesco e acre che riverbera i dilemmi della condizione umana a ogni latitudine.
"Il nostro problema è che abbiamo dovuto trovare il modo di convivere
con l'Apocalisse", sostiene Pintilie, citando tra i motivi ispiratori del
film addirittura L'idiota di Dostoevskij. Ma in realtà non ha
molto del principe Myskin il "porcaro" sifilitico Mitu Catanu che
sperimenta sulla propria pelle lo sfacelo di un paese corrotto e immiserito.
"L'uomo non viene dalla scimmia, viene dal porco", teorizza infatti
il poveretto, innamorato della sgualdrinella Norica e costretto ogni volta a
gesti sempre più eclatanti - ruba perfino un carro armato per distruggere
il chiosco di un truce rivale - pur di difendere il suo amore.
Interpretato dall'imperscrutabile Costel Cascaval e dalla beffarda
Dorina Chiriac, il film rovista stoico tra le macerie della dittatura comunista,
svelandone gli aspetti più odiosi e imbecilli, come nel paradossale incipit.
E uno spiritaccio anarchico promana qua e là dallo sbattersi. dei personaggi
in quell'agone brutale, appena riscaldato da un palpito, di umana pietà.
(Michele Anselmi - L'Unità -)
"Quando tutta la nomenklatura comunista si è trasformata
in una classe di nuovi ricchi, quando la mafia ha preso il posto del partito
onnipotente, quando ogni tipo di resistenza diventa impossibile, quando non
resta che l'esilio (quale?), quando insomma tutto accade troppo tardi",
spiegava il regista rumeno Lucian Pintilie nel catalogo della Mostra del cinema
di Venezia, allora si fa un film disperato, anarchico, estremo, poetico e -
a tratti - di difficile comprensione come il suo Terminus Paradis (che
alla Mostra si è conquistato il Premio speciale della giuria).
Il film di Pintilie - un regista che dopo il lusinghiero inizio
di carriera, per un quarto di secolo, negli anni del potere di Ceausescu, non
ha potuto fare film nel suo paese - è affascinante e balzano come il
suo protagonista, Mitu, guardiano di porci, ribelle a ogni regola e gerarchia,
figlio della nomenklatura che rifiuta i privilegi e la protezione della medesima,
sorta di idiota dostoevskijano, ma a tratti violento, nella Romania postcomunista,
da cui sogna di evadere per andare negli Stati Uniti - anche se, come si apprende
durante una visita di suo fratello, matto come lui, gli Stati Uniti non sono
poi quel regno di Bengodi che dal fondo della disperazione rumena si può
sognare.
Il quadro che disegna Pintilie - e di cui spesso non si riescono
a cogliere in pieno tutte le allusioni - trasmette un profondo senso di disagio:
ed è un paradossale e a tratti poetico elogio della purezza di spirito
e della follia, unica forma possibile di resistenza umana in una società
devastata e corrotta.
(Irene Bignardi - la Repubblica -)
Regia: Peter
Mullan - Con - Gary
Lewis, Douglas
Henshall, Rosemarie
Stevenson, Stephen
McCol
Soggetto e Sceneggiatura - Peter
Mullan - Fotografia: Grant
Scott Cameron - Musica: Craig
Armstrong - Durata: 95'
Mullan ha ceduto alla tentazione di dichiarare che nel film
ci sarebbero degli elementi simbolici relativi alla Scozia, oggi orfana, e agli
scozzesi che, contemporaneamente, assimilandola alla figura materna, piangono
i valori che una volta aveva rappresentato e che oggi non ci sono più,
dalla famiglia alla solidarietà civile. Si può anche seguirlo,
quello però che interessa di più sono i modi con cui ha affrontato
il lutto di quei fratelli e la notte di pioggia che fa loro da cornice. Intanto
la commedia nera, con rabbie, appunto, unghiate, lacerazioni. Poi un grottesco
che sa mescolare al dramma l'ironia, con la sola riserva nei confronti di alcuni
compiacimenti trasgressivi che vanno oltre l'irriverenza: probabilmente per
ricordarci che Mullan ha recitato nelle malebolge di "Trainspotting".
Quindi, e non da ultimo, il realismo con cui son proposte sia le vicende dei
singoli personaggi sia gli ambienti che li accolgono: con asprezza ma anche
con asciuttezza, evitando squilibri, insistenze ed eccessi; riuscendo a darci
della stessa Glasgow una immagine in nero che l'assimila, con evidenti intenzioni,
ai personaggi in lutto e ai loro esasperati furori. Gli interpreti che danno
vita a questi personaggi, non sono noti, ma hanno facce da ricordarsi.
(Gian Luigi Rondi - Il Tempo -)
Si apre in sordina, con un gruppo di famiglia in un interno:
tre fratelli e una sorella handicappata, intorno alla bara aperta della madre,
e poi seduti a scegliere qualche oggetto ricordo da una vecchia scatola. La
macchina da presa passa su di loro, prosegue lungo le pareti della stanza, mentre
riecheggia la voce che li consolava durante i temporali quando erano piccoli,
dissolve in nero, accenna un flashback della memoria e torna su di loro, oggi.
"Orphans": orfani, di padre e madre, di identità e coesione
culturale, di compagni, ideali, amici, cause, santi. Fin dalla prima scena,
un cinema che si annuncia subito come "consapevole", memore del dolore
straziato di Terence Davies e della pulizia graffiante di Mike Leigh. Poi, nella
lunga notte che precede il funerale (e che comprende tutta la narrazione), quando
i fratelli si dividono, tra un pub e interminabili giri in auto, tra incontri
occasionali e la ricerca affannosa l'uno dell'altro, mentre una burrasca di
proporzioni innaturali squassa Glasgow, irresistibili accenni comici si saldano
con violenze improvvise. Curioso, questo esordio nel lungometraggio di Peter
Mullan. Sarà forse perché dal protagonista di My
Name is Joe pareva lecito aspettarsi un film che rispecchiasse il solido
realismo di Ken Loach, ma si resta come spiazzati, e via via più incuriositi
e infine conquistati, dalla piega surreale che prende il percorso dei quattro
fratelli.
(Emanuela Martini - Film TV -)
Regia e Sceneggiatura - David
Mamet - Con: Nigel
Hawthorne, Rebecca
Pidgeon, Jeremy Northam,
Gemma Jones
Soggetto: tratto dal dramma Il cadetto Winslow di Terence Rattigan
- Fotografia: Benoit
Del Gomme - Musica: Alaric
Jans - Origine: USA 1999 - Durata: 110'
Vale la pena guastarsi la vita per una questione di principio?
Vale la pena mandare all'aria un matrimonio già combinato, la tranquillità
della famiglia, lo stesso avvenire economico soltanto per non vedere infangato
il buon nome della casata? L'anziana protagonista di Il caso Winslow
di David Mamet, non ha dubbi: la risposta ai quesiti precedenti non può
essere che affermativa. Il fatto è che il più giovane dei suoi
figli, appena ammesso in una prestigiosa accademia militare (siamo in Gran Bretagna,
poco prima dello scoppio della Grande Guerra) ne è stato espulso con
un'accusa infamante: avrebbe falsificato firma di un altro cadetto, intascando
così una somma di denaro non sua. Le autorità militari, per definizione
infallibili, dopo una breve inchiesta hanno emesso un giudizio senza appello.
Ma il padre (Nigel Hawthorne) non ci sta. Avuta assicurazione che il figlio
non ha commesso il reato (gli basta guardalo negli occhi) si lancia nella classica
battaglia persa. Lo sosterranno la figlia (Rebecca Pidgeon) e un giovane, brillantissimo
avvocato (Jeremy Northam).
Lo schema lungo cui si sviluppa da qui in avanti il film è
dei più classici: alternanza di speranze (poche) e delusioni (tante),
defatiganti attese, interesse morboso della stampa, solidarietà dell'opinione
pubblica che fa della vicenda quasi un novello "caso Dreyfus". Tuttavia
Mamet, consumato conoscitore delle leggi dello spettacolo, non rimane vittima
di gabbie "alla Perry Mason". Fa risaltare tutto il valore del testo
teatrale di Terence Rattigan, da cui la pellicola è tratta; sfrutta al
meglio la tradizionale, prodigiosa scuola britannica di recitazione; offre tocchi
eleganti di regia concentrandosi sui particolari, sulle giunture, su quello
che a prima vista potrebbe sembrare essenziale. Ne esce una pellicola solida,
forse un po' fuori moda, civile e, alla fine, emozionante. La rivelazione della
sentenza, fatta dalla fedele cameriera Violet, è un pezzo di bravura
da mettere i brividi.
(Luigi Paini - Il Sole 24 ore -)
"Che i diritti prevalgano". Questo è principio
giuridico-morale su cui si basano le vicende di Il caso Winslow di David
Memt. Il sesto lungometraggio dell'autore di Homicide potrebbe sembrare,
ad un'analisi superficiale, l'ennesimo film-processo che vede protagonista un
innocente accusato di aver commesso un'azione illegale. Ma così non è.
Al centro della sceneggiatura che Mamet ha tratto dalla commedia teatrale di
Terence Rattigan infatti, c'è un tema fondamentale che concerne le società
moderne e democratiche: il concetto che evidenzia la diversità tra legge
e diritti civili e umani. Sì perché la giustizia non sempre è
giusta. Spesso, infatti, è semplicemente espressione di un potere che
costruisce un sistema giuridico congegnato per salvaguardare color i quali esercitano
il potere stesso. I diritti invece sono fattori immutabili, indiscutibili e
universali che riguardano tutti gli esseri viventi, senza discriminazione di
alcun tipo.
(Maurizio G. De Bonis - www.cinema.it -)
Regia: Goran
Paskaljevic - Con: Nicola
Ristanovski, Nebojsa
Glogovac, Miki Manojlovic,
Marko Urosevic
Soggetto: tratto dall'opera teatrale Bure Baruta di Dejan Dukovski
Sceneggiatura: Dejan
Dukovski, Goran
Paskatjevic con la collaborazione di Filip
David e Zoran Andric
Fotografia: Milan
Spasic - Musica: Zoran
Simjanovic - Durata: 100'
"Non è colpa mia", dicono i molti personaggi
di La polveriera (Bure baruta, Jugoslavia, 1998). Non importa che cosa
stiano facendo. Non importa se siano vittime che tentano di sottrarsi a carnefici
che infieriscono su vittime. Solo importa questa negazione: non è mia,
la colpa. È necessario notare che, così, non solo qualcosa è
negato, ma anche qualcosa è affermato? Si dà per scontato che
una colpa esista, e che a essa si debbano ricondurre il disordine, l'insicurezza,
il rancore diffuso. Quello che descrivo - dice Goran Paskaljevic, nato a Belgrado
nel `47 - è la tensione che pervade il mio Paese, la violenza che lo
abita, la notte nella quale da tempo è caduto. E certo è lecito
aggiungere: l'abitudine di dar senso al buio, di interpretarne l'insensatezza
spaesante ricorrendo al paradigma e al filtro paranoico della colpa, all'espulsione
del suo fantasma su altri. Paure e sofferenze, angosce e deliri, tutto è
interpretato alla "luce" di quel filtro: qualcuno, un altro, ne è
responsabile; qualcuno, un altro, ne porta necessariamente il peso. Ne viene
una specie di cerchio magico dell'autodistruzione, un meccanismo circolare di
conflitto e odio che si autoalimenta: la tensione produce violenza che produce
fantasmi di colpa che producono tensione che produce violenza... Circolare,
appunto, è il film di Paskaljevic. Tenuto tutto dentro il "luogo
chiuso" di una notte per le strade di Belgrado, passa di personaggio in
personaggio, di crudeltà in crudeltà, di miseria umana in miseria
umana. E però questo suo passare non è affatto un procedere, un
andare in avanti. Ogni volta, il personaggio, la crudeltà e la miseria
ripetono quelli che li hanno preceduti. Cambiano, e solo in parte, gli elementi
narrativi - i volti, le condizioni di vita, le collocazioni sociali, le età
-, ma resta pressoché immutato il meccanismo psicologico che domina,
i comportamenti. Immutati restano anche il silenzio desolato delle paure, l'opacità
dei sentimenti, il buio delle anime.
L'ultima cosa che, in platea, ci sentiamo di fare è
considerarla una faccenda che non ci riguarda, una questione di "ferocia
balcanica". Sarebbe tragico che ci sfuggisse un "non è mia,
la colpa". Sarebbe il segno che, anche noi, siamo presi nella circolarità
paranoica che vive di fantasmi.
(Roberto Escobar - Il Sole 24Ore -)
Titolo metaforico per indicare Belgrado, La polveriera
arriva sui nostri schermi quando è già scoppiata: non per autocombustione,
come sembra vaticinare il film di Goran Paskaljevic, ma sotto le bombe americane.
In questo caso il cinema si propone come una sorta di flashback della tv: guardiamo
sul video di roghi notturni delle incursioni e sullo schermo vediamo il "prima".
Da oppositore del regime, Paskaljevic, vive a Parigi: il che gli permette di
essere l'unico importante regista ex-jugoslavo in attività. Qui ha adattato
un dramma del macedone Dejar Dubrovski riportandolo alle tre unità aristoteliche:
tempo (una notte), luogo (Belgrado) e azione.
Di scena alcuni fra i maggiori attori serbi, tutti bravissimi,
come succede nei film corali di Scola. Si parte dal cabaret dove un "artista
esoterico" profetizza sventure e approda l'emigrato Miki Manojlovic che
vorrebbe rivedere la morosa Miriana Karanovic, disposto per commuoverla a mobilitare
su un barcone del Danubio un'intera orchestra sinfonica. (...)
Emerge l'affresco di una società senza freno né
legge. "Nel nostro paese non c'è più luce" constata
un personaggio; e in effetti questo catalogo di antropologia belluina, affascinante
e sconvolgente, apre uno spiraglio per capire la tragedia dei belgradesi. A
loro va un pensiero solidale perché colpevoli o innocenti che siano,
la stanno pagando troppo cara.
(Tullio Kezich - Il Corriere della Sera -)
Regia: Clint
Eastwood - Con: Clint
Eastwood, Isaiah
Washington, Lisa
Gay Hamilton, James
Woods, Denis Leary
Soggetto: tratto dal romanzo Prima di mezzanotte. di Andrew Klavan
- Sceneggiatura: Larry
Gross - Fotografia: Jack
N. Green - Musica: Lennie
Niehaus -Origine: USA 1999 - Durata: 127'
Che sia una questione di aspettative? Chi va a vedere un film
firmato da Clint Eastwood regista con Clint Eastwood interprete, tratto da un
bel thriller di Andrew Klavan, confezionato con un certo dispendio di soldi,
centrato su un tema sempre scottante come quello della pena di morte, può
scegliere tra due stati d'animo: quello dello spettatore che vuol solo passare
due ore in compagnia di una bella vecchia faccia amica e di un po' di adrenalina
- e allora Clint Eastwood è sempre un simpatico vedere, e il giallo,
più o meno funziona -, e quello di chi vorrebbe e ha diritto di aspettarsi
qualcosa di più di una routine un po' stanca. Che è invece quanto
offre Clint Eastwood in Fino a prova contraria (True Crime), dove si
cala nei panni per lui un po' troppo giovanili di un cronista del "Tribune"
di Oakland, marito fedifrago, padre disordinato ed egoista, donnaiolo incallito,
il quale, alla morte per incidente di una collega, viene spedito dal suo direttore
James Woods (eccessivo ma divertente) a San Quintino, a raccogliere l'ultima
intervista di un giovane padre di famiglia nero condannato a morte per avere
ucciso la commessa di un drugstore. Solo che il presunto assassino (Isaiah Washington)
è troppo pacato, affettuoso con la famiglia e religiosamente sereno perché
non venga subito il sospetto che sia, come d'altra parte lui stesso ha sempre
sostenuto, innocente. E grazie al fiuto che ha fatto di lui un leggendario "Investigative
reporter" Clint Eastwood se ne convince al primo sguardo. Con un piccolo
problema. La condanna deve essere eseguita la notte stessa, il tempo per rivedere
la sentenza è pochissimo.
(Irene Bignardi - La Repubblica -).
A un certo punto di Fino a prova contraria il regista-protagonista Clint
Eastwood è nel bagno, sta a torso nudo davanti allo specchio, e si vede
che nel Duemila avrà settant'anni: le spalle sono un poco arrotondate,
la pelle sciupata ricade in pieghe sull'addome, la testa piccola e sguernita
pare quella d'un uccello spiumato sopra il collo rugoso. È un tocco in
più dell'ironia e autoironia con cui è costruito il personaggio,
giornalista invecchiato e fallimentare, bevitore, donnaiolo, superfumatore,
adultero, cattivo padre, eppure grandioso, seducente. L'unico ancora abbastanza
intelligente, intuitivo e umano da accorgersi, quando gli viene affidato il
reportage sull'esecuzione d'un giovane nero accusato d'aver ucciso una cassiera
bianca durante una rapina, che il condannato è innocente; l'unico che
senta il dovere di salvargli in poche ore la vita, di opporsi alla giustizia
ufficiale e di ripristinare la verità.
I due caratteri sono contrastanti, nella penombra che domina il film: il condannato
nero è legatissimo alla moglie e alla figlia piccola che lo amano, il
giornalista bianco è considerato dalla moglie con amara considerazione
e delude costantemente la figlia piccola; l'uno è nobilmente patetico,
l'altro ha continui comici scontri al giornale col suo direttore e col redattore
capo; il morituro ostenta la propria innocenza, il reporter ha un perenne senso
di colpa. Tra gli interpreti figurano la moglie, una ex moglie e la figlia bambina
di Eastwood. (...)
Gran film, bello. Tra classicismo e sperimentazione, energia e romanticismo,
il cinema di Clint Easwood ha assunto una singolarità subito riconoscibile
all'interno del sistema hollywoodiano. Fino a prova contraria, pur andando
oltre ne condensa benissimo le caratteristiche: suspense, problema sociale,
ironia, e una regia forte, controllata, che vuol negare il caos della realtà.
(Lietta Tornabuoni - La Stampa -)
Regia: Amos
Gitai - Con: Moshe
Ivgi, Hanna Maron,
Yussef Abu Warda
Sceneggiatura: Amos
Gitai, Jacky Cukier
- Origine: Israele 1998 - Durata: 97'
Dopo aver elaborato i temi del sionismo (Berlin/Jerusalem)
e dell'esilio (Golem - Lo spirito dell'esilio) il regista israeliano Amos Gitai
ha iniziato a scrivere una storia delle generazioni che dal 1948 a oggi hanno
costruito il suo paese: una storia iniziata nel 1995 con Devarim - L'inventario
e che ora continua con Yom Yom.
Protagonista del film è infatti una famiglia arabo-israeliana
di Haifa: il padre, Yussef (Yussef Abu Warda) è indeciso se vendere l'ultimo
pezzo di terreno della famiglia, dove c'è la casa dei genitori, a degli
speculatori che vogliono costruire un centro commerciale, mentre il figlio,
Moshe (Moshe Ivgi) si dibatte fra la moglie (Dalit Kahan), l'amante (Nataly
Atlya) e la desideratissima dottoressa (Anne Petit-Lagrange). Un ritratto impietoso
della società israeliana che arriva a mettere in dubbio il sistema di
vita del moderno stato ebraico.
(- Ciak -)
(f.t.) L'israeliano Gitai non è certo un regista molto
frequentato dalle nostre parti: E questa uscita suicida del suo penultimo film
a luglio inoltrato di sicuro non migliorerà la situazione. Chi ha avuto
comunque la sorte di sbatterci il muso, magari per caso, o chi è andato
a cercarselo, magari ricordandosi Golem ('91), avrà scoperto un autore
che ha abbandonato definitivamente i vezzi intellettualistici e pretenziosi
di un certo suo "cinema dell'esilio" e riconquistando la propria patria
ha riacquistato anche uno sguardo più asciutto e "concentrato"
(quasi etico), più vero e sincero (al di là dei difetti che comunque
ha un film come questo).
Yom Yom (Giorno per giorno) è il titolo di questo film
e insieme il senso e il modo del suo svolgersi in tondo, in una ossessione senza
uscita. E' una formula da ripetersi all'infinito, come accade negli arabescati
titoli di testa e come ribadisce la prima sequenza con la camera fissa sulla
schizofrenia di Mimi, spinta dal demone dell'apatia a moltiplicare gli stessi
gesti senza senso (e poi a tempestare chiunque gli stia davanti domande insensate
in un insensato dialogo sul nulla). Ma anche come ribadiranno le nevrosi dei
protagonisti, dalla bulimia alimentare e sessuale di Moshe, alla cronica necessità
di trasgressione di Jules. Sono tutti impigliati nella stessa ragnatela, tutti
presi nel circolo vizioso mentale di una società (quella israeliana)
che non riesce a liberarsi dai suoi fantasmi, forse persino legittimati da ciò
nella loro inettitudine a vivere "normalmente" (quante volte Moshe
e Julien ripetono: "Sono tutti pazzi" o "Viviamo circondati dai
pazzi" ?). Anche se lo sguardo di Gitai è soprattutto concentrato
sullo sbandamento esistenziale perenne di Moshe, alle prese con un pesante senso
di non apparenza (non per niente il padre arabo lo chiama Moussa e la madre
ebrea Moshe; il padre stesso dovrà arrabbiarsi più di una volta
con chi "ebraizza" il suo nome) e condannato a non avere figli (è
un ibrido alla ricerca di un'identità...).
Le occasioni di divertimento (spesso amaro) non mancano. Vedi
ad esempio lo "stage" militare dei poveri Moshe e Julien, insieme
a una combriccola di altri sfigati di mezza età, costretti ad esercitazioni
idiote in un'atmosfera demenziale tipo colonia estiva: "Sembriamo dei bambini
che si mettono a giocare ai cowboy a quarant'anni". O il momento in scopriamo
che Moshe non potrà neppure fare i funerali alla madre perché
lei ha "voluto donare il suo corpo alla scienza" e lui non trova miglior
modo di sfogare il suo dolore che saltando addosso alla dottoressa e cimentandosi
in un goffo corpo a corpo sul pavimento di una sala medica.
E non mancano neppure le trovate intelligenti. Come la versione
catatonica di un Grande Fratello (le mille telecamere collegate allo schermo
davanti a Mimi) ridotto a "guardone" senza più stimoli, controllore
di uno stato di nulla apparente, incapace perfino di dare l'allarme per una
rapina che si consuma sotto lo sguardo annoiato di chi vorrebbe essere da tutt'altra
parte. O come la scelta di una regia che o si fissa sui primissimi piani dei
suoi protagonisti (lasciando anche che una voce fuori campo rimanga senza volto
per diversi lunghi istanti), sui volti di individui concentrati solo su se stessi
(la politica ? Meglio non pensarci...), o si lascia trasportare da movimenti
circolari e pendolari che amplificano il senso dello Yom Yom.
(- Cineforum -)
Regia: Enzo
Monteleone - Con: Stefano
Accorsi, Fabrizio
Sacchi, Giovanni
Esposito, Emilio
Solfrizzi, Antonio
Catania
Sceneggiatura: Enzo
Monteleone, Angelo
Orlando - Fotografia: Arnaldo
Catinari - Origine: Italia 1999 - Durata: 100'
"Piccolo eroe" o "caso giudiziario" che
sia, Horst Fantazzini (30 anni di galera scontati fino ad ora senza aver ucciso
nessuno, forse uscirà nel 2024), avrà tutto da guadagnare da questo
film affettuoso e avvincente che Enzo Monteleone gli ha dedicato.
Ormai è fatta!, racconta di un'Italia dei primi
anni Settanta, poco frequentata dal cinema, e lo fa senza "punire"
il pubblico al quale si rivolge: in una chiave di commedia d'azione dalle sottolineature
perfino divertenti, ma pronto, con l'avvicinarsi dello "showdown"
sanguinoso, a mutarsi in tragedia italiana. (
)
Vivacemente impersonato da Stefano Accorsi, bolognese come
il vero Fantazzini, il personaggio assume nel film di Monteleone un tratto ancor
più amabile: appare come un "irregolare" sfortunato, un criminale
sui generis incapace di sottrarsi al proprio destino, un ribelle ripudiato anche
dal padre fedele all'ideale anarchico, sostanzialmente un uomo poco incline
alla violenza (quell'ultimo proiettile pare volesse riservarlo per sé).
Nel trasportare sullo schermo la cronaca di quelle dodici ore, sulla scorta
di un libretto scritto dallo stesso Fantazzini, Monteleone ricostruisce un'estate
italiana - non ancora toccata dal gelo degli anni di piombo - che sembra lontanissima
e fa persino tenerezza: alla radio furoreggiava Pazza idea di Patty Pravo,
la televisione aveva solo due canali (il secondo cominciava alle 21), di supercarceri
e teste di cuoio non si parlava e i due agenti intrecciarono una curiosa amicizia
con il sequestratore, scambiandosi panini e confidenze.
Dentro l'impeccabile confezione, gli interpreti (dagli ostaggi
Emilio Solfrizzi e Giovanni Esposito alla moglie Fabrizia Sacchi, dal magistrato
Antonio Catania al direttore del carcere Antonio Petrocelli) si muovono senza
una stonatura. Bella la fotografia di Arnaldo Catinari, che restituisce l'atmosfera
del tempo e condivide con l'autore la famosa domanda brechtiana che incombe
sul film: "È più criminale fondare una banca o rapinarla?".
(Memmo Giovannini - Tempi Moderni)
La ricostruzione delle resistibili imprese del "rapinatore
gentiluomo" Horst Fantazzini, basata sull'autobiografia del protagonista.
Figlio di anarchico, Horst (Stefano Accorsi) è convinto che fondare una
banca sia più criminale che rapinarla. La rapina del prologo dà
in sintesi il tono della rappresentazione: un po' commedia un po' dramma, un
po' grottesco (il modello è l'indimenticato Quel pomeriggio di un
giorno da cani di Sidney Lumet, basato anch'esso su un episodio autentico
dello stesso decennio) con molta attenzione al clima dell'Italia anni `70. (...)
È riuscito bene nell'intento Enzo Monteleone, esperto sceneggiatore (quattro
film di Salvatores) alla seconda regia per il grande schermo. La struttura narrativa
di Ormai è fatta! è solida: unità di tempo, punteggiata
da pochi "esterni" e da sobri flashback in cui la moglie racconta
a un giornalista la sua vita con Horst.
(Roberto Nepoti - la Repubblica -)
Regia: Sam
Raimi - Con: Bill
Paxton, Bill Bob
Thornton, Bridget
Fonda, Brent Briscole,
Jack Walsh
Soggetto e sceneggiatura: Scott
B. Smith dal romanzo Un piano semplice - Fotografia: Alan
Vivilo - Musica: Danny
Elfman - Durata. 121' - Origine: USA 1998
Scende la neve su Delano, piccola città del Minnesota.
Piccola città, bastardo posto: i versi della canzone di Guccini definiscono
al meglio questo luogo all'apparenza così lindo, ovattato, quieto, eppure,
allo stesso tempo, teatro di una vicenda di una crudeltà inaudita. Qui,
infatti, Sam Raimi ha scelto di ambientare Soldi sporchi, ovvero una
discesa nell'inferno della quotidianità che ha pochi eguali nel cinema
recente. Perché, a differenza di tanti prodotti simili, i protagonisti
sono "davvero" delle brave persone, dei tizi come noi, non particolarmente
cattivi né particolarmente buoni.
Gente comune, padri, madri, fratelli e amici, la cui vita proseguirebbe
nella più assoluta tranquillità se Satana - sempre lui! - non
decidesse che è arrivata l'ora della tentazione. Il momento scelto per
agire è quello della visita che, come da tradizione, Hank (Bill Paxton)
e suo fratello Jacob (Billy Bob Thornton), accompagnati dall'amico Lou (Brent
Briscoe), compiono alla tomba di papà. Sulla strada del ritorno una volpe,
che ha appena ghermito una gallina, attraversa di colpo la strada e li fa sbattere
contro un palo della luce. Ed ecco aprirsi, del tutto per caso, la dimensione
del Male: nascosto fra gli alberi appare un piccolo aereo precipitato di recente.
A bordo, accanto al cadavere del pilota scarnificato dai corvi, c'è una
sacca con un'incredibile montagna di dollari. Soldi sporchi, appunto, ma che
possono rivoluzionare, la vita di Lou, Jacob e Hank, la cui mogle (Bridget Fonda)
sta per avere un bambino.
Esattamente come nel peggiore degli incubi, sentiamo che i
protagonisti si stanno incamminando, su un piano inclinato, su una viscida discesa
verso l'abisso. Vorremmo salvarli, "entrare" nello schermo, dare loro
un'àncora di salvataggio. Ma Raimi, che è un grande autore, non
ha suna intenzione di tirare il freno. La "bellezza del diavolo" già
tante volte vista in azione, ha un conto in sospeso anche nella sorniona, silenziosa
amabilissima Delano.
(Luigi Paini - Il sole 24 ore -)
(
) saggiamente, inoltre, Raimi si tiene lontano dall'ironia
nel raccontare una storia che di umoristico ha ben poco, e nella quale l';assurdità
delle situazioni che si verificano, e che illustrano esemplarmente il teorema
della banalità del male, fanno da corollario, senza moralismi, ad un
semplice teorema: l'essere umano è incapace di gestire le conseguenze
di un'azione amorale e sbagliata. Qui non ci sono balordi di provincia, donne
sceriffo dal fiuto acutissimo, psicopatici imbambolati e rapitori pasticcioni.
Questo non è il mondo, straordinario, dei Coen. Qui ci sono persone ordinarie,
"normali": il fatto che per una volta cedano alla tentazione è
sufficiente ad imprigionarle in una spirale di atti inconsulti che, come un
gorgo limaccioso, le trascina sempre più a fondo. ( ). Perfetto per il
ruolo è infine Bill Paxton, volto comune, bel ragazzo cresciuto a torta
di mele, uomo integerrimo e colonna della comunità che, com'è
ovvio, avrà tutto il tempo del mondo, un tempo intessuto di segreti e
rimorsi, per riflettere sulla sua vera natura e sul male che ha fatto. A Simple
Plan è tutto questo: un film importante, un romanzo da recuperare, un'opera
al nero sul biancore accecante di una neve attesa e desiderata per coprire tracce
e camuffare delitti, un conte moral sullo sfondo di una natura indifferente
alle nostre sorti, che l'uomo, questo essere fragile e pieno di zone d'ombra,
riesce perfino a contaminare, a rendere sua muta complice.
(Daniela Catelli - www.cinema.it -)
Regia: Shohei
Imamura - Con: Akira
Emoto, Kumiko Aso,
Jyuro Kara, Masanori
Sera, Jacques Gamblin,
Keiko Matsuzaka,
Misa Shimizu, Yukiya
Kitamura
Soggetto: Hideko
Nakada - Sceneggiatura: Shohei
Imamura, Daisuke
Tengan - Fotografia: Shigeru
Komatsubara - Musica: Yosuke
Yamashita - Durata: 128' - Origine: Giappone 1998
Ispirandosi a un personaggio realmente esistito e un poco anche
al proprio padre, il gran regista giapponese settantatreenne Shoei Imamura traccia
il ritratto di un medico di quartiere generoso, povero, altruista. Nel giugno
1945, alla fine della seconda guerra mondiale dopo la resa della Germania, alla
vigilia della parziale devastazione del Giappone con le bombe atomiche su Hiroshima
e Nagasaki, il dottor Akagi, modello d'umanitarismo e di coraggio, séguita
a curare i suoi pazienti, continua a studiare l'epatite che gli appare il flagello
più pericoloso, salva la vita d'un militare senza badare se sia oppure
no un nemico, resta legato agli amici (un medico militare morfinomane, un bonzo
sessuomane, una ragazza che mantiene la famiglia prostituendosi). La lontananza
del dottor Akagi dagli avvenimenti bellico-politici non nasce dall'indifferenza,
ma dalla convinzione che, se ciascuno assolve al proprio compito senza lasciarsi
trascinare dal nichilismo della guerra, forse qualcosa (anche il decoro-dovere
della professione medica) potrà sopravvivere: ma poi si disegna all'orizzonte
la letale nuvola bianca a forma di fungo. Lo stile di Imamura, piano, vitale,
a volte comico nel ritrarre i singolari personaggi che ha scelto, trasforma
la vicenda in un apologo morale e in una convincente metafora dell'Impero giapponese
in disfacimento.
(Lietta Tornabuoni - La Stampa -)
(
) Imamura, nella sua personalissima estetica al di sopra
di ogni moda, fa convivere i momenti di violenza con altri al limite della farsa,
sposando la messa in scena classica con stili di rappresentazione più
trasgressivi di quelli che si potrebbero trovare in qualsiasi regista giovane.
Da tutto ciò esce il ritratto di un eroe, campione dell'umanitarismo
in mezzo alla demenza della guerra, mentre il film ci appassiona alla narrazione
della ricerca su un virus come a una avventura epica. Alla fine gli sforzi del
dottor Akagi verranno frustrati dalla pazzia dei militari e sarà, ancora
una volta, il fungo atomico a fiorire sullo schermo. Ma riservando allo spettatore
un'ultima sorpresa, che vale la pena di andare a scoprire da soli.
(Roberto Nepoti - La Repubblica -)
..Un grande regista, che però in Occidente - a
differenza dei citati Kurosawa e Kitano - non ha mai sfondato. Colpa dell'Occidente?
Diremmo proprio di sì. Imamura è meno accessibile di Kurosawa,
però gira film vitali e impudenti, assai più "popolari"
di quelli di Kitano (che non a caso, in Giappone, va fortissimo in tv, ma non
al cinema). Dr. Akagi, che era fuori concorso a Cannes un anno fa, ne è
la dimostrazione
Raccontando la storia di un eroe e dei suoi sordidi, umanissimi
amici, Imamura compone il ritratto grottesco di un impero moribondo. Vedendo
i film di Kitano si può imparare qualcosa sul cinema, ma vedendo i film
di Imamura si impara molto sul Giappone e sull'umanità. Perché
non provare?
(Alberto Crespi - L'Unità -)
Regia: Harold
Ramis - Con: Robert
De Niro, Billy Crystal,
Lisa Kudrow, Joe
Viterelli
Sceneggiatura: H.
Ramis, P. Tolan - Fotografia: Syoart
Dryburgh - Origine: USA 1999 - Durata: 104'
L'ultima versione di La strana coppia ci viene, assieme
a una moderata quantità di divertimento, da Terapia e pallottole ("Analyze
This") e dal duo Robert De Niro-Billy Crystal. Il film di Harold Ramis
(che ha molto maggiori meriti nella sua filmografia, almeno per quanto riguarda
una commedia intelligente e divertente come "Ricomincio da capo")
ha quanto meno uno spunto molto brillante: l'idea di un boss mafioso che entra
in crisi, scopre che cos'è il panico, sente il bisogno, per tornare a
essere un bravo boss, di farsi curare - e, miracoli delle terapie cinematografiche,
ci riesce. Siccome poi il boss è De Niro, che sta scoprendo in questi
anni il gusto e il talento della commedia, il gioco sembrerebbe fatto. Dall'altra
parte dell'analisi sta invece Billy Crystal, psicoanalista con ragazzino ciccione
(ahi, questo non è un buon segno per un padre terapeuta) che, come in
Un'altra donna di Woody Allen, spia le sedute, le registra e si diverte
un mondo. Il boss irrompe nella vita del povero psichiatra, lo costringe a prenderlo
come paziente (anche se non si fida per niente di questo signor Freud che il
suo dottore cita di continuo), lo insegue a Miami dove il poveretto, dopo anni
di solitudine, dovrebbe risposarsi, lo mette nei guai con l'Fbi immediatamente
sospettoso, gli regala come dono di nozze una fontana barocca - insomma fa tutto
quello che un boss mafioso in crisi può immaginare per sentirsi meglio.
E intanto noi ci facciamo qualche risata, per merito di De Niro più che
di Billy Crystal, sempre bravo e un po' rigido dietro la sua barba professionale.
Alla fine Terapia e pallottole è un assortimento
di centoni di commedia mafiosa già vista più che un gioco originale,
e Harold Ramis, senza poter ricorrere al gusto dell'assurdo di altri suoi film,
è spiazzato, con qualche tempo morto di troppo. Ma con almeno una sequenza
(fulminea) di grande humour: il corteo di stretched limos - le lunghe limousine
dei mafiosi - che attraversano tutte insieme il Triboro Bridge per recarsi al
summit.
(Irene Bignardi)
L'ottimo Harold Ramis, già interprete di Ghostbusters
ed autore di una delle commedie più intelligenti degli ultimi anni, Ricomincio
da capo, firma la regia e la brillante sceneggiatura di questo esplosivo
mix tra acuta ironia yiddish, affidata allo psicoterapeuta ebreo Billy Crystal,
e divertita parodia del mafia-movie, impersonata con eccellente misura dall'icona
del genere, uno strepitoso Bob De Niro. Scorsese più Allen, quindi, per
una commedia "ibrida" che facilmente avrebbe potuto scivolare nella
farsa e che, al contrario, la calibrata sceneggiatura di Tolan e Ramis, la solida
regia di quest'ultimo e le performances perfette dei protagonisti, rendono un
efficace connubio tra generi diversissimi, tanto sorprendente, quanto divertente.
(...) L'analisi come redenzione e rimozione di una vita di violenze e sopraffazioni
e la malavita come antidoto ad un'esistenza prevedibile e frustrante: è
su questo scambio sottile che gioca la commedia di Ramis, con battute fulminanti
e situazioni paradossali nelle quali De Niro e Crystal sfoggiano l'uno una minacciosa,
fragile ferocia, e l'altro una controllata, lucida nevrosi. E se il capomafia
e lo psicanalista corrono lungo il pericoloso crinale che separa personaggio
da caricatura, le eccellenti interpretazioni dei due protagonisti riescono a
mantenerle entro i limiti della verosimiglianza. Al di là di una certa
superfluità della parentesi "matrimoniale" di Crystal, avvertibile
in uno scarso sviluppo drammaturgico, Terapia e pallottole si conferma
come una delle pochissime belle sorprese di questa deprimente, come sempre,
estate cinematografica.
(Giovanni Romani - www.cinema.it -)
Regia: Giuseppe
Bertolucci - Con: Francesca
Neri (Sofia), Rade
Serbedzija (Bruno a 5 anni), Niccolò
Senni (Bruno a 15 anni), Rosalinda
Celentano (Lolita), Olimpia
Carlisi (Prostituta) e Alida
Valli (la nonna)
Soggetto e sceneggiatura: Lidia
Ravera, Mimmo Rafele,
Giuseppe Bertolucci
- Fotografia: Fabio
Cianchetti - Scenografia: Gianni
Silvestri - Musica: Bevano
Est - Suono in presa diretta: Tullio
Morganti - Origine: Italia 1999 - Durata: 92'
Tre accordi musicali alla ricerca di un tema. Il tema di Sofia,
ma anche il tema di Bruno, il tema della maternità, il tema della menzogna;
ma soprattutto il tema del "Caso", l'impareggiabile compositore che,
un atto dopo l'altro, inventa il melodramma della nostra vita. Questo film nasce
infatti prima di tutto dal desiderio di accostarmi a un genere, quello appunto
del melodramma, che accompagna la storia del cinema fin dalle origini.
(Giuseppe Bertolucci - sito ufficiale festival di Venezia 1999 -)
Sofia è una giovane attrice. Bruno il suo carismatico
maestro. Hanno una relazione, ma quando lei scopre che l'amante ha una storia
con il primo attore, disperata e furiosa decide di tornarsene a casa. Sul treno
che la porta al Nord, Sofia si imbatte in una giovane che partorisce e lascia
nella toilette, il neonato infreddolito. La madre scompare e Sofia sceglie di
tenere il bambino per sé, facendolo passare per suo figlio. La maternità
secondo Giuseppe Bertolucci, ovvero un percorso tra sogno e realtà, tra
messa in scena e vita reale, che si snoda come uno spettacolo itinerante nel
corso delle tre età della donna. Francesca Neri attraversa la sua esistenza
tenendo per mano un bambino non suo, sapendo che dopo il tempo dei balocchi
ci sarà quello delle domande e dei molti dubbi irrisolti. Le inquadrature
oblique e l'atmosfera spesso rarefatta rendono questo film un poetico omaggio,
non solo alle madri per "vocazione", ma alla vita stessa. Sofia, orfana
"per scelta" e abbandonata dall'amante e dall'amore, ricostruisce
un'infanzia (la sua e del piccolo Bruno) come uno spettacolo sul quale non vorrebbe
mai calare il sipario, con un ruolo che le aderisce all'anima e alla pelle.
Ma ancora una volta il Caso la riporta all'inizio del suo viaggio, la costringe
a rileggere una parte che non può più continuare a cambiare. Il
dolce rumore della vita è un melodramma onirico e a tratti clownesco,
sospeso tra il sogno e il sonno, tra il vissuto e l'immaginato dove la storia
sembra quasi un pretesto per una struggente suggestione registica.
(Eleonora Saracino - www.cinema.it
-)
Regia: Abbas
Kiarostami - Con: Behzad
Dourani, gli abitanti del villaggio di Siah Dareh
Genere: Metafora - Soggetto: Mahmoud
Ayedin - Sceneggiatura: Abbas
Kiarostami - Fotografia: Mahmoud
Kalari - Musica: Peyman
Yazdanian - Montaggio: Abbas
Kiarostami - Produzione: Marin
Karmitz, Abbas
Kiarostami - Distribuzione: BIM distribuzione - Origine: Francia
- Iran 1999 - Durata: 110'
Di primo acchito Il vento ci porterà via, il film di
Abbas Kiarostami presentato a Venezia (e premiato con il Premio Speciale della
Giuria che ha irritato il regista, giustamente convinto di meritare il Leone
d'Oro), potrebbe sembrare un film di maniera. Nel senso che è un distillato
degli elementi tipicamente kiarostamici che abbiamo già incontrato più
volte nel suo cinema: il viaggio, lo scontro-incontro tra due culture, lo sguardo
esterno, dell'intellettuale, sul mondo contadino, l'uso del silenzio come elemento
narrativo, l'insistenza sul paesaggio, la presenza di uno sguardo infantile
che fa da controcanto alla vicenda. Ma Il vento ci porterà via non è
di maniera per la forza e lo splendore di una visione poetica che si nutre di
autoironia e di uno stile sempre più sofisticato nella sua semplicissima
eleganza.
(....)
Il vento di porterà via ci racconta, con molti omissis, una storia semplice
nutrita di suggestioni complesse: in un remoto e bellissimo villaggio del Kurdistan
iraniano a 700 chilometri da Teheran piomba su una Land Rover un tale che si
fa chiamare "ingegnere" (ma noi ipotizziamo che si tratti di qualcos'altro,
probabilmente un documentarista che dovrebbe registrare i riti funebri di questo
paese lontano da tutto). Gli abitanti del villaggio pensano che sia alla ricerca
di un tesoro, ma lui intanto si informa ostinatamente sullo stato di salute
di una vecchietta (anch'essa a noi invisibile) che non si decide a morire.
(....)
L'aneddoto, come si vede, è piccolo. E la grandezza del film sta da un
lato nella limpidezza dello stile, negli "a parte" di filosofia non
tanto spicciola che l'ingegnere intreccia con i suoi interlocutori (tra cui
il saggio maestro del paese), nell'uso sapiente delle ellissi, dall'altro lato
nell'iniezione di humor con cui Kiarostami - come ai tempi di Sotto gli ulivi
- rivitalizza la sua favola.
(....)
Siamo in un cinema fatto di poesia visuale e di poesia verbale (sono continue
le citazioni dei bei versi di Forough Farrokhzad, la poetessa iraniana morta
in un incidente a soli 33 anni nel '67). E se c'è una figura retorica
che incarna lo spirito di questo cinema è (non a caso siamo in Iran)
l'ellissi, il silenzio, la capacità di usare l'assenza delle cose per
parlare: come invisibile personaggio che in cima alla collina, a mo' di becchino
scespiriano, scava ossa umane mentre l'ingegnere strilla nel telefonino. Kiarostami
ha teorizzato che non gli importa se in questo cruciverba per molti versi misterioso
restano delle caselle vuote. Preferisce che sia lo spettatore a comporre e completare
da solo il delicato tessuto di metafore del film a rischio che non si riesca
a leggerle fino in fondo. E, in questa "incompletezza", ci dà
un film inusuale, misterioso e molto bello.
(La Repubblica - Irene Bignardi - 23/09/99)
Abbas Kiarostami, il numero uno del cinema iraniano, è
arrivato, con "Il vento ci porterà con sè" al cinema
interattivo. Chiedendo allo spettatore - con silenzi, omissioni, allusioni -
di completare come meglio sente e crede il racconto che gli propone. Un racconto,
in sè, semplicissimo. Si comincia con una station-wagon su cui viaggiano
un uomo chiamato "ingegnere" e dei suoi assistenti che però
non ci vengono mostrati.
Sono 700 chilometri da Teheran, nel Kurdistan iraniano. Arrivati a destinazione,
si preoccupano della salute di una vecchia che sta morendo (anche lei non la
vediamo) e l'ingegnere, recandosi spesso nei pressi del cimitero del villaggetto
che fa da sfondo all'azione - tutte case bianche in mezzo al verde - parla su
un cellulare con una donna che, da lontano, chiede della morente, mette fretta,
impartisce ordini a nome di qualcuno al di sopra di lei.
(....)
Non è un cruciverba, è una poesia del "non detto" in
cui Kiarostami è sempre stato maestro (si ricordi anche "Il sapore
della ciliegia", Palma d'oro a Cannes due anni fa). Un "non detto"
che fascia di lirico mistero i rapporti tra i personaggi, quelli mostrati e
quelli lasciati fuori dalle inquadrature; che consente all'autore delle metafore
sottili, insieme a scoperte citazioni di un noto poeta iraniano contemporaneo,
Forough Farrokhzad che riesce a dar rilievo, con modi però solo impliciti.
alle differenze, e alle divergenze, fra il mondo della città da cui il
protagonista proviene e quello assorto, disteso e rarefatto delle campagne dov'è
approdato. Con immagini solari ma, nello stesso tempo, dato il clima del film,
anche arcane, con il dubbio costante che che non ci mostrino solo quello che
vediamo ma che, invece, vi sottintendano dell'altro. Fino a lasciare, pur astenendosi
da molte indicazioni, un segno profondo, in chi vede e in chi ascolta. Un grande
cinema di un grandissimo Poeta.
(Il Tempo - Gianluigi Rondi -)