GETTING TO KNOW YOU
(Cominciando a conoscerti)

Regia: Lisanne Skyler - Interpreti: Heather Matarazzo (Judith), Michael Weston (Jimmy), Bebe Neuwirth (Trix), - Genere: Drammatico - Origine: Stati Uniti 1999 - Soggetto: tratto dalla raccolta di racconti Heat di Joyce Carol - Sceneggiatura: Lisanne Skyler, Tristine Skyler - Musica: Michael Brook - Durata: 91' - Produzione: Laura Gabbert, George LaVoo - Distribuzione: Keyfilms (1999)

I buddhisti lo chiamano karma. Gli psicoanalisti romanzo famigliare. Per molti di noi è più semplicemente il destino. Ovvero quella mescolanza di eventi vissuti e di tratti caratteriali che modella irrevocabilmente la nostra vita. "Non si sfugge al proprio destino" vuol dire in realtà: non sì sfugge alla propria storia.
Ma è davvero così? Getting to know you - Cominciando a conoscerti, il bel film dell'americana Lisanne Skyler (studi in Francia e inizi da documentarista), sembra suggerire il contrario. Siamo tutti padroni della nostra vita. A condizione di riconoscerla, di capire cosa l'ha resa ciò che è. Con tutta la fatica - e il dolore - che questo comporta. (…)
Era difficile concentrare un percorso così accidentato in un film. Lisanne Skyler e sua sorella Tristine, sceneggiatrice, ci sono riuscite fondendo diversi racconti di Joyce Carol Oates e cesellando con finezza e rigore volti, corpi, luoghi, parole. Non perdetevelo.
(Il Messaggero - Fabio Ferzetti)

Capita ogni tanto, con sorpresa e piacere, di scoprire un piccolo film capace di emergere grazie alle sue sole forze dal coro dei titoli-evento e dei successi annunciati. Il caso più recente è quello di Getting To Know You. Cominciando a conoscerti, che a Venezia ha aperto la Settimana della Critica e, ora, soggiorna sui nostri schermi conquistandosi palmo a palmo il favore del pubblico più attento. Si tratta di un'operina originale e intelligente fino dall'idea di sceneggiatura. La regista Lisanne Skyler, una trentenne di New York esordiente nel lungometraggio, e sua sorella Tristine hanno adattato la raccolta di racconti di Joyce Carol Oates "Heat" facendo gravitare tante storie diverse intorno a una storia centrale. Quella di Judith (Heather Matarazzo vista in "Fuga dalla scuola media"), una sedicenne che aspetta la propria corsa nella sala d'attesa di una stazione d'autobus.
Qui Judith incontra Jimmy, un ragazzo poco più grande di lei che funziona come un catalizzatore. Jimmy le racconta i casi, reali o immaginari, di vari frequentatori della stazione, aprendo nella unità di tempo e di luogo finestre narrative, che la regia visualizza come film-nel-film. L'ultimo dei racconti tocca proprio a Judith, la quale trova finalmente la forza di narrare il dramma della sua famiglia svelando come lei e il fratello siano stati caricati del fallimento dei sogni dei genitori. Così facendo, però, comincia a "conoscere se stessa" e a liberarsi del peso di una responsabilità troppo gravosa. Come ha spiegato bene Lisanne Skyler, Getting To Know You è basato su quei momenti, rari e strani, in cui nella vita di ciascuno di noi "si apre una breccia". Il procedimento ha relazioni strette con la terapia analitica e per diversi motivi: perché significa fare i conti con la propria famiglia d'origine, serve a demolire le rimozioni e non può manifestarsi altrimenti che in forma di racconto.
(Repubblica - Roberto Nepoti)

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LA RAGAZZA SUL PONTE

Regia: Patrice Leconte - Interpreti: Daniel Auteuil, Vanessa Paradis, Stéphane Metzger, Luc Palun - Sceneggiatura: Serge Frydman - Origine: Francia 1999 - Durata: 90'

Cominciamo ad innamorarci di Vanessa Paradis mentre parla a una non visibile interlocutrice (assistente sociale, psicologa?), forse sotto l'occhio di una telecamera, e racconta, rispondendo alle sue domande, una vita all'insegna della sfortuna, della casualità, di incontri malinconici, di uomini presi e spariti un attimo dopo.
Come che sia, quando la ragazza Adele sta per tarla finita, in bilico sul bordo di un ponte parigino, il caso le mette accanto un altro "sfortunato" (Daniel Auteuil). Gabor, lanciatore di coltelli disoccupato cerca una donna bersaglio che lavori con lui - e su quel ponte ne ha trovate parecchie -. Lei preferisce buttarsi. Lui la segue nel fiume. Si ritrovano in ospedale. E siccome Adele non ha nulla da perdere, decide di accettare la sua proposta.
(…)
Cose che succedono nelle fiabe, come appunto "La ragazza sul ponte" di Patrice Leconte: che è insieme una fiaba "noir", una bizzarria barocca, un omaggio al Fellini di "La strada", un trionfo del bianco e nero (firmato da Jean Marie Dreujou), un ricordo di "L'Atalante", un apologo sui sentimenti. Patrice Leconte, che è un regista molto diseguale, capace di piccoli gioielli come "Monsieur Hire" o "Il marito della parrucchiera" così come di terribili scivoloni, ritorna qui in piena forma, anche se a momenti (si veda la scena sovreccitata all'ospedale o l'episodio del contorsionista) cala nel contesto magico e surreale del film un eccesso artificioso di verve e di brillantezza, di "causerie" e di bizzarria. E la bella colonna sonora, che mescola Benny Goodman, Marianne Faithfull e Brenda Lee è assieme godibile e debordante.
Ma la vera forza di "La ragazza sul ponte" sta nel suo impasto visivo, e in Vanessa Paradis, che è assieme tenera, buffa, bellissima, sensuale: c'è più sensualità (a dispetto dell'ovvietà della metafora) nelle immagini di Adele legata alla ruota ad aspettare con un continuo spasimo di paura la "penetrazione" che non vuole - quella dei coltelli di Gabor, destinati a sfiorarla e mai a toccarla - di quanta non ce sia in tanti film eroticamente estroversi. Peccato solo che si tratti di una forma di ars amatoria difficilmente ripetibile dai comuni mortali.
(La Repubblica - Irene Bignardi)

(…) La ragazza sul ponte illumina come un occhio di bue la poesia del non detto, lasciando puntini di sospensione, senza voler spiegare ogni dettaglio ma raccontando la ronde della vita dentro gli occhi disillusi di Daniel Auteuil, silenzioso osservatore di sconfitte tenute dentro, ma abile nello schivare ogni coinvolgimento emotivo, più delle ragazze collezionate, i cui volti finiscono per sovrapporsi ed annullarsi, e mirate per forza al bersaglio. È un incontro (mancato?) tra ribellione e consapevolezza, che misura la millimetrica distanza di sicurezza dalle passioni con dialoghi scintillanti che annullano tremori e spasmi da retropalco, compagni fedeli ed immancabili di attese dietro sipari ancora chiusi; una bizzarria barocca che diventa la sublimazione dell'inespresso dentro un sogno di intimità bellissimo e perfetto.
(Domenico Barone - www.cinema.it)

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EYES WIDE SHUT

Regia: Stanley Kubrick - Interpreti: Tom Cruise (William Harford), Nicole Kidman (Alice Harford), Sidney Pollack (Victor Ziegler), Marie Richardson (Marion) - Genere: Metafora - Origine: Gran Bretagna 1999 - Soggetto: dal romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler - Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Frederic Raphael - Musica: Jocelyn Pook - Durata: 159' - Produzione: Stanley Kubrick - Distribuzione: Warner Bros Italia (1999)

Commissione Nazionale Valutazione Film
L'opera postuma del regista di "2001: Odissea nello spazio" è ispirata al racconto "Doppio sogno" scritto da Arthur Schnitzler nel 1926. Erano gli anni in cui Freud indagava sulle incognite della psiche, ma mentre Freud lavorava sulle persone, Schnitzler lavorava sui progetti, ovvero sull'immaginazione, sulla fantasia. "Eyes whide shut" è un viaggio immaginario nella sessualità, nella gelosia, nell'infedeltà, dove l'eros e l'ossessione del desiderio trovano la loro corrispondenza in thanatos, nella morte, e dove il ritorno alla realtà coincide con il ritorno alla normalità. Kubrick si getta decisamente nell'inconscio e nei desideri nascosti della coppia contemporanea, riuscendo a disegnare un ritratto che coniuga paure e speranze, ansia di trasgressione e senso di colpa. Si parte dall'unità del nucleo familiare e a quella si torna alla fine, dopo un percorso diabolico nei labirinti della mente e dell'immaginazione. Certo il racconto è al tempo stesso di evidente lettura e di non facile divulgazione: ci sono molti riferimenti letterari e in genere il film ha un tono "colto" che lo rende tutt'altro che aperto ad un'ampia fruizione popolare. Si tratta di entrare nell'analisi dei dati oscuri della psiche e di mettersi di fronte al contraddittorio rapporto attrazione-repulsione per le zone d'ombra della complessa natura umana. Ma l'ossessione amorosa, dopo la paura e la follia, arriva alla conclusione che la soluzione è possibile trovarla soltanto nell'unità familiare. Siamo di fronte in ogni caso ad un film d'autore, forte e rigoroso, difficile da liquidare con toni rapidi o superficiali. Dal punto di vista pastorale, si ritiene pertanto di valutarlo come fortemente discutibile per la densa complessità degli argomenti affrontati e non da ultimo per l'esplicito erotismo di alcune scene. Si invita decisamente ad evitarne la proposta in programmazione ordinaria, laddove un pubblico ampio e meno avvertito potrebbe riceverne impressioni e sensazioni negative e fuorvianti. La sua collocazione è in proiezioni mirate, possibilmente accompagnate da supporti critici e seguite da dibattiti, che il film suscita e autorizza in modo più che legittimo. (Discutibile/scabrosità/dibattiti) Vietato ai minori di 14 anni

Occhi bene aperti: Stanley Kubrick ci fa conoscere ciò che noi siamo, cancellando schermi, difese, pietose bugie. Occhi disperatamente chiusi: no, non possiamo essere noi, non può essere dentro di noi quell'abisso, quel vortice capace di inghiottirci, Eyes Wide Shut, titolo enigmatico per l'ultima opera di un gigante. Un film, soltanto un film, ma saranno in pochi quelli in grado di berselo come una semplice tè zuccherato. Questo non è cinema "gastronomico" e il grande schermo si illumina solo per illuminarci dentro.
Hanno gli occhi bendati, Bili (Tom Cruise) e Alice (Nicole Kidman), i protagonisti del film. Riprendono i personaggi di Fridolin e Albertine, inventati da Arthur Schnitzler per la sua novella "Doppio sogno", da cui la pellicola è tratta. Nel libro fa da sfondo la Vienna degli anni 20, nell'opera di Kubrick tutta la vicenda è spostata nella New York alto borghese dei nostri giorni. Una coppia senza problemi: entrambi belli, una giovane, amorevole figlia, tanti soldi e la chiave d'accesso negli ambienti più esclusivi della città. Finché un ballo in casa di un ricco conoscente (Sydney Pollack), alla vigilia di Natale, non apre le frontiere dell'ignoto. Niente di terribile, per la verità. Lei, che ha bevuto un po' troppo, accetta la corte asfissiante di un bellimbusto di origine ungherese, lui, estremamente gratificato dal fatto di piacere, si lascia coccolare da due donne splendide e misteriose.
Nessuno dei due varca la soglia del tradimento, eppure bastano questi giochi quasi innocenti per dare inizio alla crisi. Rientrati a casa, Bili riceve da Alice la confessione di un suo desiderio amoroso per un bel marinaio, durante le passate vacanze. Per l'uomo è l'inizio di un profondo travaglio che lo porta a vivere, la notte seguente, una serie di dolorose "stazioni": la visita a un paziente morto, la cui figlia gli dichiara di amarlo; l'incontro fugace con una prostituta gentile; la partecipazione a un'orgia mascherata in una villa misteriosa.
Qui Eyes Wide Shut raggiunge la sua vertigine massima: il labile confine tra normalità e follia, tra essere e apparire, tra la vita e la morte viene ancora una volta esplorato da Kubrick con una profondità che non può non lasciare sconcertati.
(Il Sole 24Ore - Luigi Paini)

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IL VIAGGIO Di FELICIA
(Felicia's journey)

Regia: Atom Egoyan - Interpreti: Bob Hoskins, Arsinee Khanjian, Elaine Cassidy - Sceneggiatura: Atom Egoyan - Durata: 115' - Distribuzione: BIM (1999)

Bob Hoskins è straordinario ne "il viaggio di Felicia" di Atom Egoyan, tratto da un romanzo di William Trevor (editore Guanda). Recita, benissimo, un grande personaggio: un maturo gastronomo di Birmingham, supervisore di catering industriale, corpulento scapolo solitario, ordinato, menzognero e soave. Un uomo che non ha mai dimenticato la bella madre bruna che dava lezioni di cucina alla TV negli Anni Cinquanta, che irrideva la sua obesità e goffaggine puerile, il ricordo ossessivo fa sì che tutte le sere, tornato a casa dal lavoro, Hoskins proietti una delle lezioni materne e, obbedendo alle indicazioni di lei, si prepari cibi raffinati che consuma da solo. La memoria dell'umiliata infelicità infantile ne ha fatto un maniaco delle ragazzette sperdute, senza casa, fragili, nei guai. Per un senso di onnipotenza provvidenziale, si occupa di queste ragazze: dà passaggi in auto e suggerimenti, ascolta e registra confidenze o confessioni, offre ospitalità e consolazione. (…)
Il film molto bello è costruito in successioni temporali incrociate sul contrasto dei caratteri dei due protagonisti, ma anche su una segreta analogia fra l'uomo maturo per sempre infelice e la ragazza speranzosa nella felicità possibile, tutt'e due malati di solitudine e commoventi; la provincia industriale inglese, con la sua grigia tetraggine e la sua forza, è il paesaggio filmato splendidamente della disperazione esistenziale; le due attrici sono pure eccellenti (Arsinée Khanjian, che interpreta la madre, è una presenza costante nell'opera del regista).
Atom Egoyan, quarant'anni, canadese nato al Cairo in una famiglia di origini armene, gran narratore, dal 1997 de '"Il dolce domani" ha accentuato il proprio interesse per l'analisi dei personaggi, per le storie individuali: confermando la bravura e l'intensità che ne fanno uno dei più interessanti cineasti contemporanei.
(La Stampa - Lietta Tornabuoni)

Un serial killer. Più però alla maniera del "Collezionista" di Wyler che non a quella di Hitchcock, anche se si pensa ad entrambi. E, soprattutto, nelle cifre di Atom Egoyan, che pure un personaggio così lo affronta qui per la prima volta.
Una ragazzina in arrivo dall'Irlanda, la Felicia, del titolo (Elaine Cassidy). È rimasta incinta di un ragazzo che, subito dopo, è partito per l'Inghilterra e adesso lo cerca a Birmingham dove pensa di poterlo rintracciare. (…)
Questo lo spunto, che l'armeno-canadese Egoyan ha tratto da un thriller molto solido di William Trevor, pubblicato anche in Italia. Un thriller com'è anche il film, ma, appunto, pur ricordando "Il collezionista" e pur seguendo in molti risvolti l'esempio di Hitchcock, con quella personalità autonoma, intelligente e raffinata di cui Egoyan ha dato prova nel corso della sua fortunata carriera.
Al centro della storia campeggia il protagonista, tanto più "cattivo" quanto più il suo aspetto e i suoi modi sono gentili. Quei modi, però, non tardano ad assomigliare a quelli del ragno che tesse la sua tela per imprigionarvi un insetto e Felicia, l'insetto, è condotta da Egoyan a finire in questa tela con una progressione fatale, rasentando l'incubo ma tenendosi sempre - e questo è uno dei pregi dei film - a un'apparenza di quieta normalità che niente sembrerebbe dover incrinare.
Certo, la "cattiveria" del protagonista la si fa anche un po' derivare dalle felpate vessazioni subite durante l'infanzia, ma se lo schema è noto, lo rinverdisce la creatività con cui il regista, andando anche oltre l'autore letterario, dipana poi una psicologia che, anche nei momenti in cui l'orrore dilaga, rimane quasi compita, pure rasentando il mellifluo. Oltre all'interpretazione, aggiungo agli altri meriti la fotografia di Paul Sarossy: intenta a ridarci una Birmingham quasi irreale, parafrasi e allo stesso tempo anche emblema dei paesaggi industriali inglesi di oggi.
(Il Tempo - Gian Luigi Rondi)

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PAZZI IN ALABAMA
(Crazy in Alabama)

Regia: Antonio Banderas - Interpreti: Melanie Griffith (Lucille), David Morse (Dove), Lucas Black (Peejoe), Rod Steiger (giudice Mead) - Genere: Commedia - Origine: Stati Uniti 1998 - Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Mark Childress - Sceneggiatura: Mark Childress - Musica: Mark Show - Durata: 109' - Produzione: Green Moon e Meir Teper Production - Distribuzione: Columbia TriStar Films Italia (1999)

Dalle reazioni generalmente un po' sopraccigliose che Pazzi in Alabama ha ricevuto a Venezia, si possono trarre alcune considerazioni: che i festival sono sempre un terreno minato, soprattutto per chi fa del cinema di confezione, che il passaggio da attore a regista (soprattutto se non ha l'aria dell'artista torturato) suscita sempre sospetti invidiosetti, e che la commedia, anche se stravagante, deve profumare almeno di Cina per ottenere dei riconoscimenti. La premessa per dire che Pazzi in Alabama - la commedia nera con cui, dopo cinquantadue film da attore, debutta nella regia l'ex almodovariano Antonio Banderas - è invece un film che sicuramente il grande pubblico apprezzerà e che, come prodotto hollywoodiano atipico, merita attenzione. Banderas ha deciso di passare dietro la macchina da presa puramente come regista, senza intervenire come attore o come sceneggiatore. E sulla base di una divertente e un po' pazza sceneggiatura che mescola impudentemente il tema della liberazione femminile a quello della lotta antisegregazionista - all'origine c'è un romanzo di Mark Childress, in Italia pubblicato da Piemme edizioni, sceneggiato dall'autore - mette in scena sua moglie Melanie Griffith, che, con una parrucca nera come ai tempi di "Qualcosa di travolgente", fa qualcosa di altrettanto folle. (…)
Banderas dirige gli attori a meraviglia (da Melanie, brava e spiritosa, a Rod Steiger, in uno strepitoso cammeo nel ruolo di un giudice pieno di paradossale buon senso), e alla sua maniera levigata e classica ci sa fare. Pazzi in Alabama è, forse, "leggero", e sicuramente fuori tempo.
Ma è simpatico, diverte, sa sollecitare insieme risate e commozione (anche se le improbabilità si sprecano: come la mettiamo con quella testa che viaggia per settimane?).
(La Repubblica - Irene Bignardi)

Punito dalla giuria veneziana presieduta da Kusturica, Pazzi in Alabama potrebbe trovare un suo pubblico nelle sale normali: è divertente, ben recitato, diretto con un certo talento dall'esordiente regista Antonio Banderas (che non vi recita) e apprezzabile nel tentativo di mischiare alla commedia noir uno sguardo più amaro sull'America razzista degli anni Sessanta, quando ai ragazzi neri era perfino vietato di fare un bagno nella piscina comunale. Sensibile ai temi della libertà, essendo cresciuto nella Spagna franchista, Banderas costruisce un film che più americano non si può, anche se sulla grafica dei titoli di testa, contrappuntata da 'These boots are made for walkin' di Nancy Sinatra, si impone un tocco spiritoso "alla Almodóvar". (…)
Tra bandiere al vento, marce nere di protesta, canzoni d'epoca (Lucille di Little Richard naturalmente) e ironie macabre, il film gioca ambiziosamente sui due piani, con qualche scompenso ma anche esibendo una vitalità che fa simpatia. Magari Banderas non tiene sempre a bada l'estro mattatoriale dell'amatissima moglie Melanie Griffith, che folleggia a ruota libera nei panni dell'esplosiva protagonista in parrucca nera; però in sottofinale regala al veterano Rod Steiger una scene d'applauso facendogli interpretare quell'eterodosso giudice alla Frank Capra che manda libera Lucille, moglie e madre a lungo oltraggiata da un marito manesco, riconoscendole tra gli applausi la legittima difesa. Dirà di lui l'amabile svampita: "Era un vero gentiluomo: conosceva la differenza tra la giustizia e ciò che è giusto".
(L'Unità - Michele Anselmi)

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COME TE NESSUNO MAI

Regia: Gabriele Cuccino - Interpreti: Silvio Muccino, Giuseppe Sanfelice di Monteforte, Anna Galiena - Origine: Italia 1999 - Sceneggiatura: Gabriele Muccino e Silvio Muccino - Durata: 88' - Produzione: Domenico Procacci - Distribuzione: Mikado (1999)

Per ora mi limito a confermare che il trentaduenne Muccino, assistito dal fratellino Silvio, co-sceneggiatore e simpatico protagonista, ha girato un film insolitamente vitale che coniuga la cronaca di un primo amore a una di quelle occupazioni anni '90 attuata tra molto fumo e poco arrosto. Sullo sfondo ci sono le famiglie, soprattutto quella del protagonista costituita da papà e mamma ex sessantottini, impegnati nel confronto con il loro vissuto oltre che nelle ansie per i pericoli cui si espone il rampollo. Luca De Filippo e Anna Galiena riescono ad amalgamarsi in un contesto disinvoltamente ruspante. "Come te nessuno mai" ha ritmo e piacevolezza insoliti; e dall'approccio con una realtà non troppo conosciuta sa estrarre intriganti motivi di riflessione. Assomigliano alle generazioni precedenti questi giovani: quanto possono servire le nostre esperienze a capirli?
(Corriere della Sera - Tullio Kezich)

"Ricordati che stai vivendo l'età più bella della tua vita": non c'è frase sentenziosa degli adulti che faccia arrabbiare di più gli adolescenti. Non importa un bel nulla che sia al 99% vera. Al ragazzo, i suoi sembrano difficilissimi, ammorbati da conflitti irrisolvibili, schiacciati dall'incomprensione dei grandi. Proprio come capita al gruppo di sedicenni protagonisti di "Come te nessuno mai" di Gabriele Muccino. Sono teneri (altra annotazione "dall'alto in basso" che li fa montare in bestia), imberbi, fragili, incostanti e insieme "tostissimi". Si giocano il loro futuro, non vogliono buttarsi via, balbettano di politica e d'amore, vivono fino in fondo l'amicizia, passando con estrema facilità dall'odio all'amore, dall'entusiasmo al più inguaribile scoramento. Sono, semplicemente, quello che noi eravamo alla loro età.
C'è molta freschezza, ci sono dialoghi quasi sempre "giusti" una recitazione che non produce imbarazzo. Un quadro generazionale che è anche un minisaggio sociologico (molto divertente la sequenza in cui vengono presentate le varie tipologie degli adolescenti capitolini), senza sguardi di sufficienza. Ed è più che buona anche la descrizione dei genitori, incapaci, così come lo erano i nostri, di capire per quale ragione questi figli che hanno avuto tutto non siano ancora contenti. Anna Galiena e Luca De Filippo, papà e mamma sull'orlo di una crisi di nervi, portano il tocco dell'alta scuola di recitazione, facendone cadere più di una briciola anche sul capo dei loro giovanissimi comprimari.
(Il Sole 24Ore - Luigi Paini)

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JUHA

Regia: Aki Kaurismaki - Interpreti: Sakari Kuosmanen (Juha), Kati Outinen (Marja), Shemeikka (André Wilms) - Origine: Finlandia 1998 - Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Juhani Aho - Sceneggiatura: Aki Kaurismaki - Musica: Anssi Tikanmaki - Durata: 78' - Produzione: Aki Kaurismaki, Sputnik Oy, Pandora Film - Distribuzione: Key Films (1999)

Anche in "Nuvole in viaggio", il suo ultimo bellissimo film, non si parla mica tanto. Ma Aki Kaurismaki, che quanto a bizzarrie non si lascia battere da nessuno è andato più in là e, arrivato al quindicesimo film di un'eccentrica e stravagante filmografia piena di esperimenti e sfide, e a settant'anni dall'inizio del cinema sonoro, ci propone Juha, l'ultimo "muto" di questo secolo - che in quanto tale è stato molto applaudito due settimane fa alle Giornate del cinema muto di Pordenone. Kaurismaki dice che si tratta della sua risposta all'eccesso di rumore e di frenesia del cinema di oggi. Alcuni critici francesi, che si segnalano sempre per la spericolatezza delle loro interpretazioni, sostengono invece che il film è una metafora della trasformazione dell'arte cinematografica dalla pellicola al digitale. Meno aulicamente, si può certamente dire che Juha è un tentativo affascinante di recuperare la forza dei gesti e degli attori in un cinema sempre più rivestito di effetti speciali, oltre che un sorprendente esercizio d'intelligenza e bravura destinato a un pubblico che abbia la voglia e la curiosità di affrontare un nuovo gioco cinematografico: 78 minuti in bianco e nero, con pochi suoni ben collocati (a dire che non si tratta di un puro ricalco dei modelli del muto ma della prova che si può fare a meno delle parole) e una bella colonna musicale che spazia dal sinfonico al folk. Juha è tratto da un romanzo finlandese di Juhani Aho, del 1910, che ha già avuto il singolare destino di essere stato portato sullo schermo tre volte (la prima delle quali, nel 1920, con la regia di Mauritz Stiller). Il libro racconta un triangolo amoroso ambientato nel XVIII secolo: semplifica la vicenda, facendo un teatrino esemplare di sentimenti e di luoghi romanzeschi, anche se non prende mai la strada del grottesco o della caricatura e riesce perfino a commuovere con una storia di seduzioni e inganni vecchia come il mondo. E lavora in una chiave intermedia tra ironia e sentimento. (…)
(La Repubblica - Irene Bignardi)

Ben lontano da ridurla a un bla bla che spieghi tutto, Kaurismaki fa dunque un uso raffinato dell'espressività sonora. Costringendola al minimo, immergendola in un generale silenzio, finisce per darle un valore specifico, un "ruolo" di primo piano. D'altra parte, del cinema muto in Juha si ritrova il pathos. Le luci orientate riempiono l'inquadratura d'ombre addirittura più intense dei corpi che le producono. Sui volti degli attori si fissano sguardi univoci ed estremi, tesi nello sforzo di comunicare sentimenti egualmente univoci ed estremi. E ancora: immagini e azioni "radicali" caratterizzano i personaggi per così dire in assoluto (assolutamente malvagio è Shemeikka: a dimostrarlo basta appunto il suo piede che, senza motivo, schiaccia una farfalla). Qual è il senso di questo gran gioco del cinema, raffinato e vivo? A noi pare sia quello di tutta l'opera di Kaurismaki: l'invenzione d'un mondo abitato da cose elementari e necessarie come la l'eticità e il dolore, l'amore e il disamore.
Kaurismàki non perde occasione per distanziarsi da quel che racconta. E forse anche per tenerne a bada l'immediatezza emotiva. Questa è la grandezza di Juha. Non si tratta solo né soprattutto della sua genialità, e neppure delle sue raffinate citazioni indirette o dirette (un cenno a Sani Fuller, su una lavagna, per esempio, o a Luis Bunuel, con un manifesto capovolto di Nazarin). Si tratta invece d'una "ingenua", dolcissima capacità di partecipare all'umanità dei suoi personaggi. Una capacità, ancora, che nel cinismo volgare di fine secolo è più inusuale e anche più promettente per il cinema di qualunque ritorno a una sua tesa essenza.
(Il Sole 24 Ore - Roberto Escobar)

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TÍPOTA

Regia: Fabrizio Bentivoglio - Durata: 30'- Origine: Italia, 1999.

Un gruppo di fuggiaschi, tipi etnici diversi fra i quali sembrano prevalere gli slavi e gli zingari di ascendenza mediorientale o caucasica, un fienile, poi un'antica residenza fra i boschi, un fiume incantevole. Il gruppo entra nella casa, si sistema, nasce un bambino. Poi arriva una troupe per girare un film in costume; la provvisorietà dei fuggiaschi incontra quella del set: nessuno è davvero al suo posto, e anche il tempo, fra casa, ospiti "strani", attori con abiti ottocenteschi, si fa sempre più incerto. (…)
Girato in soli otto giorni, poi opportunamente abbinato dalla distribuzione al film di Kaurismäki, il corto di Bentivoglio pare addirittura sorprendente. Certo gli Avion Travel fanno la loro parte e altrettanto dicasi di un Bigazzi sempre più bravo e duttile, ma non sfugge l'originalità e la coerenza dell'idea - squisitamente registica - alla quale si accompagna una genuina curiosità. Insomma, un'opera prima matura in ogni senso, perfino troppo se si considera la scioltezza con la quale l'autore è riuscito a condensare le proprie urgenze.
(Cineforum)

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ADDIO TERRAFERMA

Regia: Otar Iosseliani - Interpreti: Nico Tarielashvili, Lily Cavina, Philippe Bas, Stéphanie Hainque - Soggetto e sceneggiatura: Otar Iosseliani - Origine: Italia/Francia/Svizzera 1999 - Durata: 107'

Via, verso il mare aperto, lontano dalla pazza folla. Addio terraferma: il film di Otar Iosseliani, georgiano da tempo trapiantato in Francia, ci invita a lasciare alle spalle la consolante certezza dei lidi conosciuti, per avventurarci in un altrove dai contorni assai incerti. Un altrove poetico, verso il quale partono nel finale i due personaggi più amati dall'autore: un anziano e ricco ubriacone (interpretato dallo stesso Iosseliani) e il suo amico casuale, un barbone che ne condivide fino in fondo la passione per le bevande alcoliche. Una fuga necessaria perché il mondo contemporaneo appare al regista come il regno assoluto dell'assurdo.

Quando un film è leggero, sorridente e profondo, va gustato senza distrazioni, perché la storia che racconta è attraversata da momenti che paiono insignificanti, volatili e invece servono a confermare quello che l'autore ci vuol dire. In questo caso, nell'irresistibile Addio terraferma, Otar Iosseliani, 65 anni, nato nella Georgia sovietica che ha lasciato tanti anni fa per vivere a Parigi, vuole dirci che la vita non è mai la stessa, il tempo cambia tutto e anche i sogni non resistono. E la fuga da ciò che non ci piace non sempre è possibile, perché non sempre lo meritiamo.
Non c'è festival in cui Iosseliani non sia stato premiato, ma le sue opere arrivano poco nelle sale. Non si capisce perché visto che sono esilaranti, intelligenti, capaci di far riflettere, questa come Caccia alle farfalle o Briganti. Certo Iosseliani non sta alle regole del cinema di successo, rifiuta di utilizzare le star. "Il pubblico è attratto dalle facce, dai nomi che conosce, ma così il film è solo un veicolo pubblicitario delle celebrità e non, come invece dev'essere, un mezzo per comunicare idee, valori spirituali". Addio terraferma, dove nessun interprete è conosciuto, gli dà ragione.
(Il Sole 24 Ore - Luigi Paini)

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LA VIA DEGLI ANGELI

Regia: Pupi Avati - Interpreti: Gianni Cavina, Valentina Cervi, Carlo Delle Piane, Eliana Miglio, Chiara Muti - Soggetto e Sceneggiatura: Antonio e Pupi Avati - Musica: Ritz Ortolani - Durata: 120' - Origine: Italia 1999

C'era una volta... Pupi Avati e il passato, Pupi Avati e la memoria: la macchina da presa è per lui un batiscafo immerso nei ricordi, una scatola magica capace di ridare vita e colori ai racconti di tanto tempo fa, tramandati gelosamente, per decenni, dagli anziani. Come dalla mamma Ines, da poco scomparsa, che per mille volte ha narrato al regista (e al fratello Angelo, produttore e cosceneggiatore di La via degli angeli) la bella favola del suo innamoramento con il futuro marito. Ines, nome antico, che non si usa più: nome dolce, che sa di crinoline come una lirica di Guido Gozzano. Ines, giovane dattilografa nella Bologna del fascismo (la interpreta Valentina Cervi) che si prende una cotta clamorosa per il giovin signore, il fascinoso figlio del suo "buonissimo" (anche se non la paga mai) datore di lavoro.
Amore disperato, come non manca di farle notare la mamma: si è mai visto un ricco intenzionato a sposare davvero una poverella? Ma Ines crede ai miracoli: chissà, durante le vacanze estive a Sasso (Marconi), potrebbe anche succedere qualcosa di nuovo. Da questo punto la storia dei due giovani non è altro che una storia tra mille altre, un particolare di un affresco corale che in più di un'occasione tocca momenti di forte intensità. Anche perché entrano in campo attori di razza, come Carlo Delle Piane, interprete "avatiano" per eccellenza e, soprattutto, uno strepitoso Gianni Cavina. Quest'ultimo e conosciuto come "il fratello di Loris" il proprietario di una balera che rappresenta l'unica possibilità per ragazzi e ragazze di incontrarsi: per portarci i giovani scapoli occorre dunque girare di monte in monte, conoscendo la gente più strana. Delle Piane è invece il medico di una frazione isolata, incupito e inacidito da quando, tanti anni prima, la moglie lo ha lasciato. A proposito, lo ha lasciato proprio per colpa del fratello di Loris. (...)
Tutti in balera, dunque, per salutare danzando l'arrivo dell'estate: al chiaro di luna, forse, molti destini potranno essere riscritti.
(Il Sole 24 Ore - Luigi Paini)

(…) E questo tono ironico, ma mai esagerato, è la vera grande forza de La via degli angeli. La storia raccontata è, infatti, talmente ricca di fascino e di eco lontane provenienti dal passato di un'Italia ingenua e rurale, da farci commuovere al punto di arrivare a guardare con benevolenza ai drammi piccoli e grandi consumati durante una notte d'estate in Emilia Romagna. Un film coraggioso questo diretto da Pupi Avati, perché pur rischiando di far risaltare troppo sapori e tematiche presenti anche nelle pellicole precedenti, l'autore emiliano ha invece realizzato una pellicola matura e generosamente traboccante di spunti di riflessione e di motivi di meditazione per il suo pubblico.
(Marco Spagnoli - www.cinema.it)

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LA COPPA
(The cup)

Regia: Khyentse Norbu - Interpreti: Orgyen Tobgyal (Geko), Neten Chokling (Lodo), Jamyang Lodro (Orgyen), Lama Chonjor (Abate), Godu Lama (Lama anziano) - Genere: Commedia - Origine: Buthan 1999 - Soggetto: Khyentse Norbu - Sceneggiatura: Khyentse Norbu - Musica: brani tradizionali tibetani - Durata: 90' - Produzione: Malcolm Watson & Raymond Steiner - Distribuzione: Lucky Red (1999)

Prima di tutto occorre fare chiarezza "il buddismo non è una religione, ma una filosofia", parole di Khientse Norbu, Lama tibetano che nel suo cuore ha trovato spazio anche per il cinema. Al punto che, dopo essere stato consulente religioso di Bertolucci per la realizzazione di "Piccolo Budda", e dopo avere curato diversi corti, è approdato alla sua prima regia di fiction con "La coppa". Un film decisamente inconsueto, non solo perché il primo targato Bhutan, seppure in coproduzione, e primo anche a essere stato girato in lingua tibetana, ma per il tema affrontato. La coppa del titolo infatti è la coppa del mondo di calcio, in particolare quella che si è aggiudicata la Francia giocando in casa. Norbu ci porta nel monastero di Chokling in India, lì approdano giovani tibetani in fuga dal loro paese per avere un'educazione tradizionale. Lì seguono il loro apprendistato da monaci altri ragazzini. Tra questi Orgyen, vivacissimo e disincantato, durante le meditazioni e le preghiere si scambia bigliettini con gli altri, e sui bigliettini stanno i risultati delle partite. (…)
La "lezione" del film è semplicissima quanto efficace, i giovanissimi monaci tibetani sono assolutamente identici ai loro coetanei, e si comportano come tali. Fanno più fatica gli anziani a capire questa guerra in mutande per un pallone, ma si adeguano. Ci avevano raccontato che il buddismo insegna il distacco dalle passioni terrene, ma Norbu ricorda che per staccarsi da qualcosa bisogna prima essere attaccati. Non solo, secondo lui considerare il buddismo una religione equivale a considerare il calcio come una religione, sono atteggiamenti sbagliati. L'aspetto più originale del film consiste nel fatto che si tratta di una storia vera, anche se lo stesso Norbu conferma di averla attualizzata ambientandola nel corso degli ultimi mondiali. Dopo tanto cinema internazionale che ha scelto il buddismo come argomento (per Khyentse Scorsese è ok, ma Brad Pitt è Brad Pitt, non c'entra col buddismo) ecco invece un film profondamente buddista, con i monaci impegnati e divertiti nell'interpretare se stessi, mentre il personaggio di Orgyen è stato affidato al giovanissimo Jamyang Lodro il quale, in cambio dell'interpretazione, ha chiesto alla produzione (e ottenuto) un viaggio premio a Disneyland. Una produzione ridotta all'osso, visto che il film è costato in tutto un miliardo di lire, quasi tutte spese in postproduzione e nell'acquisizione dei diritti per frammenti di partite mondiali. (…)
"La coppa" sta davvero facendo il giro del mondo con la sua storia disarmante e brillante, con le divinazioni volte a conoscere in anticipo i risultati, con gli anziani che sognano il Tibet e i giovani che ormai accettano l'esilio indiano, con qualche indiano che approfitta della bontà dei monaci, con i taxi più malandati della storia del cinema e molto altro ancora, come quel finale aperto perché, in fondo, non c'è bisogno di conclusioni.
(Il Manifesto - Antonello Catacchio)

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RICOMINCIA DA OGGI

Regia: Bertrand Tavernier - Interpreti: Philippe Torreton, Maria Pitarrese, Nadia Kaci, Veronique Ataly - Sceneggiatura: Dominique Sampietro, Tiffany Tavernier, Bertrand Tavernier - Origine: Francia 1999 - Durata: 117'

Trama:
Daniel, quarant'anni, è istitutore e direttore di una scuola materna in una cittadina del nord della Francia. Un giorno la madre di una sua giovane allieva, la signora Henry, crolla ubriaca fradicia nel cortile della scuola, si rialza e scappa, abbandonando un neonato e la bimba. Quando Daniel riaccompagna a casa i bambini, scopre una desolazione e una miseria che lo sconvolgono. Comincia allora la sua battaglia contro il sindaco, l'ispettorato scolastico, l'assistenza sociale. A tutto questo si aggiungono i problemi personali: suo padre viene ricoverato, mentre il figlio adolescente della sua compagna si scontra duramente con lui.

(…) Ricomincia da oggi potrebbe essere stato sceneggiato da Roddy Doyle e girato da un Ken Loach senza voglia di scherzare. Del resto Hernaing, la cittadina vicino a Valenciennes in cui Tavernier ha ambientato e filmato la sua storia, è parente stretta delle città industriali inglesi e scozzesi tanto amate dalla British Renaissance: i paesaggi neri di colza, i cieli lunghi e bassi, un destino economico tragicamente segnato dalla chiusura delle miniere.
Questo per dire che, nonostante la presenza costante, non banale nè stucchevole, dei bambini, il film di Tavernier non è una versione enragé di Diario di un maestro. E' il ritratto di un combattente oscuro (non caso, a interpretarlo, il regista ha voluto Philippe Torrreton, il meraviglioso guerriero di Capitaine Conan), di un milite ignoto dei servizi sociali, oppure, semplicemente, di un uomo di buona volontà.
Ed è l'affresco di uno strato sociale che dopo aver campato dignitosamente per secoli, si è ritrovato improvvisamente, brutalmente in miseria. Di fronte a questa povertà, che quanto più è vicina tanto più è invisibile, le istituzioni di uno stato sociale ormai in putrefazione reagiscono con la cecità che le contraddistingue: negando, ignorando, diffidando. A voler parlare, oggi, di uomini di buona volontà, e a volerne parlare con passione, si deve mettere in conto un po' di manicheismo. Nell'assegnare ruoli e campo ai suoi buoni e ai suoi cattivi, Tavernier non sfugge alla regola. E forse è proprio questa semplificazione consapevole la più vistosa concessione alla fiction di un film che ha il piglio, l'irruenza, la lucidità della grande tradizione documentaria.
(Beatrice Manetti - www.cinema.it)

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JUDY BERLIN

Regia: Eric Mendelsohn - Interpreti: Barbara Barrie (Sue Berlin), Bob Dish (Arthur Gold), Edie Falco (Judy Berlin), Carlin Glynn (Maddie) - Genere: Allegorico - Origine: Stati Uniti 1998 - Soggetto: Eric Mendelsohn - Sceneggiatura: Eric Mendelsohn - Musica: Michael Nicholas - Durata: 94' - Produzione: Rocco Caruso - Distribuzione: Key Films (1999)

Nel cinema americano c'è un "genere" cinematografico ufficioso che si potrebbe chiamare "dei suburbia", dei sobborghi in versione gergale detti anche "burbs". I suburbia americani non sono, urbanisticamente e sociologicamente, le nostre periferie, le cinture operaie, le borgate popolari: sono invece il sogno (o l'incubo) della classe media, che cerca nell'ordine e nella apparente tranquillità del sobborgo un antidoto alla fatica e al disordine della vita cittadina. E che si nutre di frustrazioni e di desiderio di fuga. Anche Judy Berlin, fa parte del genere "suburbia", ma con un tocco di surreale stranezza in più. Eric Mendelsohn, che lo ha scritto e diretto, e che con questo film ha vinto il premio della regia al Sundance 1999, ci porta a Babylon, nome paradossale (e quindi probabilmente fantastico) per la calma cittadina a cui si riferisce, da qualche parte a Long Island, lungo la trafficatissima linea ferrata che porta a New York. Per le dodici e quarantotto è annunciata un'eclissi, a cui tutti si preparano con i consueti gadget. Per la sera Judy Berlin (Edie Falco), ragazza vitalissima che aspira a fare l'attrice a Hollywood, partirà in treno per la California. E intanto le cose prendono per tutti una strana piega.
(…)
Mendelsohn, che è al suo primo film, compone con elusiva eleganza il suo quadro dei suburbia, a cavallo tra il ritratto d'ambiente, la chiacchiera e il mistero metafisico, come se un Woody Allen al ralenti (ma ci può essere Woody Allen fuori da Manhattan?) arpeggiasse sul registro poetico. Succede così che l'eclisse del film, nel cui buio i buoni abitanti dei suburbi fanno cose (poche e gentili) che altrimenti non farebbero, dura innaturalmente a lungo. Benissimo fotografato in un bel bianco e nero da Jeffrey Seckendorff, il film si perde un po' nella parte conclusiva, come se non sapesse, in quelle tenebre, dove andare a finire. Ma ci lascia con la confortante sensazione che la simpatica Judy, abbandonando la malinconica Babilonia rivisitata dell'immenso sobborgo americano, ce la farà, e con l'impressione che Eric Mendelsohn sia un cineasta da tenere d'occhio.
(Repubblica - Irene Bignardi)

Un'eclissi per cambiare. Un tuffo nel buio per rischiare tutto, amare, partire,osare. Succede a Babylon, Long Island, nome forse fittizio di una delle mille piccole città Usa che compongono l'infinita rete dei suburbia, i sobborghi tutti uguali delle metropoli. Casette ordinate, giardini curati, vite monotone e ben regolate. Ma sotto la superficie, a giudicare dal malinconico bianco e nero di Judy Berlin, pulsano desideri e rimpianti. Le madri rincorrono la gioventù perduta, i padri gli amori non vissuti, i figli un altrove che potrebbe anche essere il cinema, Hollywood, la fabbrica di tutti i sogni. E chissà, in nome del Cinema perfino una ragazza troppo estroversa per essere felice e un giovane troppo depresso per non desiderarla, potrebbero scoprire qualcosa in comune.
Ex-aiuto costumista di Woody Allen, dal quale sembra aver preso la mano felice per i personaggi, l'esordiente Eric Mendelsohn governa un cast di caratteristi perfetti nel buio prolungato dell'eclissi con un senso impeccabile del chiaroscuro, interiore.
(Il Messaggero - Fabio Ferzetti)

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