BIBBIA, CRISTIANESIMO E VIOLENZA CONTRO LE DONNE
TORNA E RIMANI SOTTOMESSA
Le storie di Agar e Maria Goretti: due esempi eccellenti
Proseguendo sul tema "Bibbia, cristianesimo e violenza contro le donne" una serata è stata dedicata ad esaminare: 1)La fuga di Agar dalla casa di Abramo e la successiva sua cacciata, nel Primo Testamento e 2)La canonizzazione di Maria Goretti nel suo contesto religioso e culturale di inizio XX secolo, attingendo da Concilium 2/1994 "La violenza contro le donne" a cura di Mary Shawn Copeland, Elisabeth Shussler Fiorenza
Tamar,
in 2 Sam. 13 e Dina in Genesi 34;
Abbandono
e cessione di Sara, Genesi 12:
Il
coito forzoso di Betsabea con Davide, 2 Sam 11;
L’iniqua
imputazione di adulterio contro Susanna, Daniele 13;
In
particolare due testi prendono in considerazione la disciplina giuridica
relativa allo stupro di una ragazza (Esodo 22, 15ss, Deuteronomio 22,23ss): il
delitto viene considerato come violazione contro il diritto del padre e del
marito, non come crimine contro la donna; infatti era comunemente contemplata la
possibilità per gli Israeliti liberi di avere rapporti con le schiave e le
donne (vergini) prigioniere di guerra (Numeri 31;18); questo ci porta a
considerare che la violenza sessuale contro le donne era all’epoca
socialmente istituzionalizzata. La disuguaglianza sociale dei sessi
nell’antico Israele è quindi una realtà da tenere presente come regola
generale in tutti i testi.
Un
altro testo (Numeri 5, 11-31) si tratta del giudizio di ordalia sulla gelosia.
Il giudizio di ordalia permetteva di accertare l’innocenza
o la colpevolezza di un accusato (in mancanza di prove certe) portandolo
al cospetto di Dio nel tempio. Se, durante il rito l’accusato non veniva
colpito dalla maledizione divina, poteva essere considerato innocente. In questo
testo, per accertare la colpa di adulterio della moglie sulla base del sospetto
del marito, la donna viene trascinata dal marito davanti al sacerdote per essere
sottoposta al giudizio di ordalia. La donna supera il giudizio e viene
dichiarata innocente, ma alla sua dimostrazione di innocenza non segue una
punizione del marito, che pure era contemplata in altri casi come protezione
contro la calunnia (Dt 19, 15ss; Dn 13, 61ss).
Più
difficile è la lettura di testi composti in origine come testi di liberazione
per le donne, elaborati successivamente e interpretati in senso repressivo: un
esempio sono i due testi di Agar (Gn 16 e 21, 8-12)
1.
La fuga
di Agar: Gn 16. Agar fugge volontariamente dalla casa di Abram, pur nella
consapevolezza di aver acquisito un valore nell’ambito della famiglia in cui
è schiava (porta in grembo il figlio di Abram), quando Sara ha dal marito il
potere di fare di lei quello che è “meglio ai suoi occhi”. A questo segue
il racconto di liberazione. Presso la fonte incontra il messaggero di Jahweh,
che la chiama per nome, le promette la nascita di un figlio maschio, che sarà e
che libero potrà farsi valere contro i fratelli. Dio si pone contro i suoi
eletti, approva la fuga, si pone dalla parte di coloro contro i quali è stata
fatta violenza. Ma poi, nei versi successivi (inseriti in seguito) invita Agar
al ritorno e alla sottomissione, cioè ripristina l’ordine gerarchico tra
serva e padrona: il racconto di liberazione
diventa di oppressione.
2.
La
cacciata di Agar e di Ismaele: Gn 21 (vv11-13 inseriti successivamente). Nel
racconto originario Sara è la forza motrice e la causa-pretesto del conflitto
è la rivalità tra i figli per l’eredità. Si tratta però di una distorsione
mirata allo stato di diritto; (il problema vero è se Ismaele sia stato o no
riconosciuto dal padre: se lo è
stato è considerato primogenito ed ha quindi diritto a tutta l’eredità, se
invece non è stato riconosciuto, il primogenito è Isacco, e quindi l’eredità
spetta a lui. Abramo non sa prendere una decisione e obbedisce alle direttive di
Sara, mandando via Agar con una provvista giornaliera di acqua e pane. Nel
momento in cui Agar teme di morire e piange, arriva da lei l’angelo che le
indica il pozzo, a compimento della promessa fatta a suo tempo. Ma le
interpolazioni successive trasformano il testo, Dio passa dalla parte degli
eletti, legittima il loro agire anche quando sono duri e ingiusti. In questo
modo il testo diventa legittimante che donne e bambini possono essere cacciati
via senza mezzi di sussistenza, nella “beata” fiducia che Dio
si prenderà cura di loro! Queste narrazioni documentano la tentazione
costante di una teologia androcentrica di fissare per iscritto, in nome di Dio,
i propri interessi e le strutture sociali.
Maria
Goretti visse tra il 1890 e il 1902; fu canonizzata nel 1950.
Prendiamo
in considerazione il fatto che una definizione della società in merito alla
violenza sessuale è che spesso questa è provocata dalle vittime. A questo si
aggiunge l’opinione comune che il bisogno della donna è quello di essere
protetta e quindi, per favorire la sua protezione da parte del maschio, ha la
necessità di uniformarsi ai tradizionali ruoli e comportamenti femminili.
Secondo
le studiose femministe c’è accordo generale sul fatto che la violenza contro
le donne scaturisce da un’accettazione culturale sistemica del potere e del
dominio come mezzo per influenzare e definire i rapporti umani. La struttura del
potere come dominio sugli altri comporta dei miti aventi la funzione di
legittimare il comportamento egemonico del gruppo dominante:
1.
L'identificazione
delle donne in termini di sessualità e riproduzione
2.
L’affermazione
che le donne hanno una natura diversa, che le rende più adatte a portare il
peso maggiore di responsabilità per la moralità sessuale, per la cura e il
servizio da prestare agli altri
3.
L’assunto
che la modalità naturale del comportamento maschile è l’aggressione, mentre
quella del comportamento femminile è la sottomissione, definendo così come
consenso il cedimento delle donne di fronte alla violenza.
Questi
presupposti mitici riguardanti il rapporto tra gli uomini e le donne sono stati
incorporati nel pensiero e nella prassi legale, sociale, politica e religiosa.
Per poter perseguire il reato di violenza si doveva dar prova di un uso
eccessivo della violenza, perché l’uso della forza è cosa normale nei
rapporti sessuali tra maschi e femmine. Siamo in un contesto culturale che nega
alle donne autonomia personale, sociale e morale, e nega il diritto
all’autodeterminazione e alla parità di rapporti: condizione di base per
creare subordinazione e favorire la probabilità che la donna venga sottoposta
ad abusi in casa, sul lavoro, e perfino nella chiesa, da parte di chi esercita
autorità su di lei.
Spesso
ci troviamo in difficoltà a capire i motivi delle canonizzazioni, ma possiamo
considerare che esse sono sempre un fatto politico. La canonizzazione di Maria
Goretti deve essere vista nel contesto dei pontificati a cavallo tra XIX e XX
secolo. Siamo nel periodo storico in cui si affermano due movimenti
antipatriarcali: il liberalismo politico e il femminismo, che ridefinivano i
problemi sociali in termini politici. La reazione della chiesa a questi due
movimenti fu di condanna. I documenti emanati dalla chiesa ufficiale
dell’epoca:
Pio
IX (1864 – 1878) : primato della chiesa e del papato sulla società (Sillabo
degli errori)
Leone
XIII (1878 – 1903): primato dei valori spirituali e religiosi
nell’ordinamento sociale (Rerum novarum e documento sul matrimonio cristiano)
Pio
X (1903 – 1914): missione della chiesa è mantenere l’ordine immutabile sia
nella chiesa che nella società
Benedetto
XV (1914 – 1922): primato della chiesa nell’ordinamento sociale e
attribuzione della colpa delle agitazioni sociali all’antiautoritarismo dei
movimenti sociali
Pio
XI (1922 – 1939): denunciò come eretico il movimento per l’emancipazione
delle donne (Casti connubi).
Pio
XII (1939 – 1958): sostiene la subordinazione delle donne come dettato dalla
legge naturale, conforme alle intenzioni di Dio, da cui l'identificazione delle
donne con la sessualità, relegandole a svolgere solo ruoli sessuali e
riproduttivi.
La
canonizzazione di M. Goretti fu un momento culminante in questa tradizione
papale antimodernista e antifemminista. In questo quadro generale la condanna
dell’aggressore di M. Goretti non era tanto quella dell’aver usato violenza,
ma del tentativo di realizzare un comportamento sessuale illecito. Se Maria
avesse ceduto allo scopo di salvarsi la vita, anche lei sarebbe stata
condannata. La sua santità si fonda non tanto sul fatto di aver preferito
morire, piuttosto che cedere alla violenza, ma nel fatto che lei ha perdonato
(in sogno) il suo aggressore, sancendo la sua unione con Dio.
Se
la chiesa fosse stata più solidale con i poveri e gli oppressi, avrebbe potuto
condannare, insieme al tentato stupro e assassinio di Maria, la violenza da lei
subita come un’ulteriore dimostrazione della violenza alla quale venivano
continuamente assoggettate le donne, la
povertà che faceva sorgere nuova violenza e rivedere le concezioni sulla
sessualità che legittimavano l’unione di forza e sesso. Ma questa è
un’altra storia.
Elisa
Lupano