GESÙ, IL GALILEO: NON ERA UN CRISTIANO, MA UN EBREO SCOMODO. L'ULTIMO LIBRO DI BARBAGLIO

31675. ROMA-ADISTA "Chi sono io secondo la gente?" La domanda di Gesù ai discepoli fu secca e improvvisa. Vaga e titubante la risposta dei discepoli. Ma anche dopo. Il "chi è" sull'uomo di Galilea ha prodotto un'infinita serie di definizioni. Da profeta escatologico e maestro di vita eversivo, a guru rivoluzionario, giudeo radicale, rivoluzionario nonviolento, mago guaritore…
Per Giuseppe Barbaglio, biblista tra i più noti e letti in Italia, l'uomo dei vangeli è un ebreo figlio del suo tempo e della sua terra, presenza scomoda, ieri come oggi. A lui Barbaglio dedica l'ultima sua opera (Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, Edizioni Dehoniane, Bologna 2002, pp. 671 euro 45,98) che, "a scanso di equivoci" - precisa - non si prefigge "di ricostruire che è stato veramente il nazareno", ma "di mostrare che cosa possiamo dire di lui sulla base delle fonti documentarie criticamente vagliate".

Professor Barbaglio, perché già nel titolo del suo libro c'è questa sottolineatura dell'ebraicità di Gesù?
Direi per tre motivi distinti. È un punto saliente negli ultimi vent'anni della pluricentenaria ricerca storica: Gesù era un ebreo, non un cristiano, e io ho voluto aggiungere un ebreo di Galilea, un uomo cioè di villaggio e di cultura contadina. Secondo: per rendere giustizia alla sua collocazione reale: Gesù di Nazaret non è stato un'isola; la sua crescita e socializzazione è avvenuta nel mondo ebraico del primo secolo. Terzo: per amore ecumenico, in quanto egli è veramente colui che uno studioso ebreo, Ben Chorin, ha messo come titolo di un suo libro: "Gesù nostro fratello".

E anche la puntualizzazione del sottotitolo - "Indagine storica" - serve a caratterizzare questo approccio alla figura di Gesù?
Proprio così. Bisogna distinguere in proposito le ragioni della storia che, basate sulla ragione, valgono per ogni uomo, dalle ragioni della fede, valide solo per i credenti che aderiscono a lui anima e cuore. Il mio libro intende far valere solo quelle; quindi fa appello all'intelligenza di ogni persona. Per questo si distingue nettamente da altri approcci alla persona di Gesù, come meditazioni e riflessioni spirituali, approfondimenti teologici, libere presentazioni della sua immagine, difese apologetiche di lui e della sua opera.

Allora, che cosa ci può dire oggi la ricerca storica, onestamente e intelligentemente condotta, di lui?
Vorrei precisare subito, a scanso di equivoci, che essa non pretende di dirci in modo esaustivo chi è stato realmente Gesù; ci permette invece di rispondere a questa domanda: che cosa possiamo dire noi oggi di lui, sulla base delle testimonianze antiche in nostro possesso, testimonianze criticamente vagliate, cioè valutate sulla loro attendibilità storica. Ciò che noi possiamo conoscere di lui è limitato a quanto ci è stato tramandato da fonti storiche.

In concreto, quali sono gli aspetti storicamente più certi della sua figura come appare oggi nella ricerca?
Potrei parlare delle certezze della sua esistenza, della sua morte in croce per iniziativa del prefetto romano di Giudea del tempo, Ponzio Pilato, nel decennio 26-36, del fatto che egli apparve allora come un taumaturgo, cioè un esorcista e un guaritore, e questo a detta di amici e nemici, ma anche che fu un parabolista eccezionale, cioè un creatore abile di brevissime fiction narrative, e un saggio che si è espresso sovente con proverbi, aforismi, sentenze, detti icastici. Ma vorrei insistere su ciò che, a mio avviso, più caratterizza la sua immagine storica: è stato l'evangelista, cioè il portatore della lieta notizia al popolo; con lui e attraverso la sua azione è sorta l'alba della regalità divina, capace di dare una sterzata alla storia.

Le ragioni della storia e quelle della fede certo non devono sovrapporsi, ma nella sua ricerca è emerso qualche conflitto?
Sì, in due casi abbastanza chiari. Anzitutto il dato storico altamente probabile, se non certo, che Gesù è nato effettivamente a Nazaret; non per nulla è stato chiamato il nazareno e il profeta di Galilea. Ma la fede cristiana, a partire dai Vangeli dell'infanzia di Matteo e di Luca, lo ritiene nato a Betlemme, la città di Davide. In secondo luogo, la famiglia di Gesù era numerosa: quattro fratelli, Giacomo, Giuda, Simone, Giuseppe, e delle sorelle. Ora la tradizione cristiana, che parte da Girolamo, ha trovato l'escamotage di ritenerli dei cugini e, strano a dirsi, non si parla delle sue sorelle come cugine, per salvare la verginità perpetua di Maria. Ma si tratta di una spiegazione che ha pochissime possibilità di essere buona.

Come si può stabilire se le testimonianze antiche sono affidabili, cioè meritano credibilità nei dati che ci trasmettono?
È il vero e spinoso problema di ogni indagine storica su Gesù. Le testimonianze antiche su di lui sono molte: di lui ci parlano autori romani, come Tacito, Svetonio e Plinio il Giovane, scrittori greci, come il filosofo Celso, lo storico ebreo Giuseppe Flavio, la tradizione rabbinica del Talmud babilonese, soprattutto scritti cristiani, cioè Paolo, gli evangelisti canonici, ma anche i vangeli apocrifi. La difficoltà vera sta nella valutazione dell'attendibilità storica degli scritti cristiani che sono libri di fede, non storia propriamente detta. Ma non mancano criteri rigorosi in proposito; accenno a uno solo, quello dell'imbarazzo della comunità cristiana davanti ad alcuni dati, che tuttavia non può fare a meno di tramandare. Così è del battesimo di Gesù per mano del Battista: un battesimo di penitenza per un Gesù che la fede cristiana già nei primi anni riteneva senza peccato; altrettanto del tradimento di Giuda Iscariota: uno dei dodici scelti da Gesù come rappresentanti del popolo di Dio delle dodici tribù d'Israele, che egli è venuto a riunire.

Ma per un credente la ricerca storica riveste un particolare interesse?
Sì, perché mette in chiaro lo spessore umano e terreno di colui che il credente ritiene il figlio di Dio, in altre parole rende al vivo la realtà dell'incarnazione. E vorrei rifarmi qui di nuovo al titolo e al sottotitolo del mio libro: se i cristiani avessero specificato meglio la loro credenza nel figlio di Dio fattosi uomo, confessandolo appunto figlio di Dio fattosi ebreo, diventato un galileo, forse, o senza forse, le responsabilità cristiane circa l'antigiudaismo secolare, soprattutto quello dei campi di concentramento della Germania nazista, sarebbero state minori.