TROPPO AMBIGUO E CONFORMISTA VERSO LA GERARCHIA. ME NE PENTO. INTERVISTA A XABIER PIKAZA

31798. ROMA-ADISTA. La Chiesa è in crisi, una crisi salutare se sfocerà in una riforma che, facendo tesoro delle luci e delle ombre della sua storia, e rifacendosi continuamente al vangelo, porti a ripensare radicalmente i ministeri, ad abbattere il patriarcalismo, a porre fine al clericalismo, ad abolire il sistema imperiale romano. Così, forse, si potrebbe riassumere il contenuto del denso volume di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, Chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, appena edito da Borla (Roma 2002, p. 586, euro 35). L'autore - teologo basco, professore di Storia delle religioni e Teodicea alla Pontificia Univ. di Salamanca - analizza in modo puntuale se e come i quattro vangeli, gli Atti degli apostoli e le lettere di Paolo, o a lui attribuite, abbiano ipotizzato i ministeri e ruoli ecclesiali (presbiterato, episcopato, papato) come poi sono andati storicamente configurandosi e come sono giunti a noi..
Lo studio del teologo è rigoroso. Sostiene, ad esempio, che gli apostoli non erano vescovi, e che a Roma per circa un secolo e mezzo a guidare quella comunità cristiana non fu un solo "papa", ma più "leader" insieme; e che, allora, le celebrazioni eucaristiche non necessariamente dovevano essere presiedute da un "sacerdote" o "vescovo" ordinato. Il "sacerdozio" - un sacerdozio che separa la "gerarchia" dai "fedeli", un sacerdozio che esclude le donne - nascerà poi, quando la Chiesa verrà a patti con il "sistema", o cercherà di controbatterlo, in sostanza fraintendendo il cuore del messaggio del "laico" Gesù, e riproponendo invece schemi cultuali ebraici e suggestioni del mondo religioso greco-romano. Indagate approfonditamente le "istituzioni" testimoniate dal Nuovo Testamento, Pikaza passa all'oggi, un oggi in cui la Chiesa, costretta a fare i conti con il sistema capitalista, è spesso tentata di copiarlo, fino a sentirsi "erede dell'ordine imperiale di Roma", "realizzando funzioni di anticipazione e supplenza giuridica e sociale, che possono essere buone, ma non cristiane, perché usurpano la libertà e la comunione dialogica dei credenti. Questo tempo di anticipazione e supplenza della Chiesa romana è terminato e non è più necessario" (p. 494).
Argomentato ed appassionato, quello di Xabier Pikaza è un libro che coniuga la scientificità dell'indagine neotestamentaria con la sua coerente applicazione alla Chiesa di oggi, ed alla sua desiderata riforma; riforma che, se verrà, conclude il teologo, non verrà dai vertici ma dalle donne e dagli uomini che formano comunità cristiane coscienti delle loro proprie responsabilità. Adista ha intervistato il teologo per approfondire alcuni temi sensibili presenti nel suo libro.

Dall'analisi scritturistica del suo libro si deduce che Gesù non ha mai istituito quello che oggi si chiama "sacramento dell'ordine" e, dunque, a rigore di termini, non ha previsto né preti né vescovi, e tanto meno una Chiesa "patriarcale e maschilista". Di conseguenza, una comunità cristiana senza sacerdote ordinato ("presbitero") potrebbe, legittimamente, celebrare comunque una vera eucarestia, presieduta da un uomo o una donna non "ordinati"?
Senza dubbio la comunità cristiana può e deve celebrare l'eucarestia, ossia, condividere il pane e il cibo della festa (il vino), ricordando la vita e la morte di Gesù, benedicendo Dio e creando legami di comunione. La celebrazione non è un diritto né un dovere delle comunità, bensì l'essenza della Chiesa, la sua stessa verità cristiana. Il tema della presidenza mi sembra secondario. Da nessuna parte nel Nuovo Testamento viene menzionato chi debba presiedere, né come. San Paolo (1Cor 12,14) parla molto di altri "ministeri" (apostoli, profeti...), ma non si preoccupa della persona (maschio o femmina) che presiede la Cena del Signore. Lascia questo argomento nelle mani della comunità stessa.
È evidente che, in conformità con la mia visione del Nuovo Testamento, la presidenza eucaristica possa e debba scaturire dalla stessa comunità dei cristiani, in modo tale che siano loro a scegliere per un certo periodo i propri "presidenti", siano essi uomini o donne. La prassi attuale di ordinare prima i presbiteri "in generale" (come ordine speciale, sacro) per assegnargli poi una comunità mi sembra contraria alla vita originaria della Chiesa e all'ispirazione del Vangelo. Non credo nelle "ordinazioni assolute", in modo che non si possa dire "questo è un vescovo, questo un presbitero", così in generale, se non si dice "questo è il vescovo o il presbitero di questa chiesa". Evidentemente sono le comunità quelle che devono nominare i propri ministri, per loro conto e per tutto il tempo che reputano conveniente.
Credo che tale prassi possa iniziare da subito. Penso che alcune comunità cristiane siano in un buon momento per iniziare a celebrare e a vivere l'eucarestia come qualcosa che fa parte della loro esperienza e ricchezza cristiana, creandosi da sé i propri ministeri. Il nodo cruciale è quello posto da 1Cor 13: il mantenimento e l'effusione della carità, ovvero, di un amore che si apra a tutte le altre Chiese; questo significa che le Chiese devono stare in comunione le une con le altre, i ministeri di una in comunione con i ministeri delle altre (senza bisogno che in tutte siano gli stessi).
Questa unione di carità deve estendersi alle Chiese del passato e alle Chiese del presente (non si può rompere l'unità di amore tra le comunità). D'altra parte mi sembra normale la divisione dei ministeri, che risale al secolo III: vescovi, presbiteri e diaconi (anche se il diaconato reale, di fatto, lo realizzano persone non ordinate). Per questo è necessario che le trasformazioni si facciano con molta prudenza, molta capacità di dialogo, dalla prospettiva della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse e protestanti, ma allo stesso tempo con molta libertà evangelica.
Ad ogni modo il problema attuale non è tanto l'organizzazione delle Chiese che già esistono, ma la creazione di nuove chiese in questi periodi di cambiamento, come furono quelli di Gesù, quelli di San Paolo. Il problema non è che esistano meno vocazioni per questo tipo di ministeri attuali, ma che (a mio giudizio) sia bene che non esistano. L'attualità del clero, gerarchico (come un ordine: si è presbitero per sempre, con o senza parrocchia, come si era un tempo marchese o conte) scomparirà presto ed è un bene che scompaia. L'organizzazione clericale delle chiese più "ricche" come quella statunitense, la tedesca o anche l'italiana e la spagnola non possono resistere così a lungo. Affinché la Chiesa sia Chiesa bisogna "rifare da capo" come già disse nell'anno 1981 il cardinal Giovanni Benelli a un gruppo di studio a Firenze.
Siamo di fronte a un cammino che non si può tracciare in anticipo, ma la strada bisogna percorrerla, altrimenti moriremo (la nostra Chiesa finirà). Dobbiamo ri-creare l'eucarestia e i ministeri, altrimenti le nostre celebrazioni si trasformeranno in qualcosa di separato dalla vita concreta degli uomini e delle donne, come una sovrastruttura sacrale. Gesù e i primi cristiani non volevano che il Vangelo fosse una istituzione di sacralità, una organizzazione in più, bensì l'esperienza stessa della loro vita condivisa, come testimonianza della grazia di Dio, come grazia e progetto della comunicazione della Parola e del Pane.
Quello che conta non è che si mantenga un certo tipo di ministri sacrali, che nella loro attuale forma nacquero due secoli dopo Gesù, ma che crescano le comunità cristiane, vincolate da una celebrazione dove si condivide la Parola e il Pane che sono di tutti. Abbiamo davanti un lungo cammino di Ortodossia, vale a dire, di fedeltà all'ispirazione cristiana e alla Riforma, ovvero, un ritorno all'origine... ma dobbiamo farlo con prudenza e coraggio, senza tornare alla pura liturgia separata di alcuni gruppi sacralizzati, né all'intimismo individualista di alcuni protestanti. Vale a dire, non abbiamo ricette chiare di quello che potrà essere il futuro.

Nel suo libro lei definisce la Curia vaticana, ormai "inutile" e "dannosa". Al tempo stesso, però, lei salvaguarda il ruolo del papa come "simbolo" della unità e della comunione della Chiesa. Secondo lei questo simbolo è conciliabile con le definizioni del Concilio Vaticano I sul primato pontificio e sull'infallibilità papale?
Il Concilio Vaticano I mi sembra prezioso nel suo contesto e deve servire come punto di riferimento, non per ripetere le sue parole, ma per ri-crearle nel nuovo cammino sociale ed ecclesiale, partendo da una conoscenza più profonda del Nuovo Testamento. La cosa più importante del Vaticano I è il superamento delle Chiese nazionali. Il modello tradizionale della Chiesa galiziana o tedesca, italiana o spagnola (che ha avuto grandi meriti), finisce per essere dannoso, poiché tende ad assolutizzare dei progetti nazionali che non sono cattolici e perché sacralizza delle forme politiche esclusiviste. Su questa base accetto con gioia il carattere "romano" della Chiesa, sempre che Roma significhi l'universalità. Per questo non mi sto riferendo alla Roma latina, né alla Roma occidentale e nemmeno alla Roma della curia vaticana nelle sue attuali forme. Il modello di organizzazione cattolica degli ultimi secoli mi sembra splendido, una delle maggiori conquiste giuridiche e sociali della modernità, che però ha esaurito la sua funzione e non risponde al Vangelo, non prepara cammini per il futuro. Per questo cerco una Roma che possa essere simbolo di comunione nella differenza, di pluralità nel dialogo.
È evidente che accetto il primato del vescovo di Roma come un simbolo di comunione, per fedeltà storica e per convinzione ecclesiale. Ma credo anche che tale primato possa e debba riferirsi al Pietro storico del Nuovo Testamento, che non fu papa né vescovo nell'accezione moderna, ma che fu uomo di unità, per il fatto che si mantenne in comunione con tutti i gruppi cristiani. Per tale motivo possono appellarsi a Pietro le comunità di Paolo e del Discepolo Amato, di Marco, Matteo e Luca, così come molti ebrei cristiani. La funzione di Pietro non fu quella di "fare delle cose" in un senso impositivo, ma quella di cercare e di collocarsi in uno spazio nel quale tutti possano incontrarsi nel nome di Gesù, lasciando che Paolo sia Paolo e che Luca sia Luca, come segno di comunione universale.
Ha certamente i suoi meriti un papa attivo, con personalità, capace di dare inizio a movimenti e di mobilitare grandi masse, apparendo come un leader mondiale a cui si avvicinano sovrani e ministri. Ma questa è una funzione passeggera che, in fondo, in futuro, dovrà scomparire. Un papa che comanda non è un papa, un papa che organizza le altre Chiese non può attribuirsi alcun primato su di esse, secondo il Vangelo. Solo in questo senso si può affermare che la Chiesa, vincolata a un tipo di unità non impositiva, simboleggiata dal papa, sia infallibile, vale a dire, che apra un cammino di Parola per tutti, in conformità al progetto e alla certezza primaria della Chiesa, che sa che essa durerà per sempre.
La Chiesa infallibile, e che dura per sempre, non è la Chiesa del potere, simboleggiata nei grandi edifici o nei progetti sociali ben cementati, ma è la Chiesa che esprime il dono e la fraternità di Gesù, senza il bisogno di edifici speciali, di grosse somme di denaro e di un'organizzazione perfetta. Solo la Chiesa dell'amore e della parola condivisa, vincolata all'esperienza pasquale di Gesù (beatitudini, morte per gli altri) può essere infallibile. Su questa linea, vogliamo aggiungere che un papa che parla per se stesso (come se solo lui avesse la parola), un papa che comanda dall'alto e organizza la vita dei fedeli non è un uomo infallibile, secondo Gesù, ma una sorta di dittatore spirituale. Per tale ragione si dice che il papa ha l'infallibilità della Chiesa, ovvero, quella della parola condivisa.

Oggi il dialogo ecumenico sembra abbastanza stagnante. Partendo dalle conclusioni presenti nel suo libro, quale positiva soluzione vedrebbe al problema ecumenico?
La risposta al problema ecumenico non è il trionfo di una Chiesa sulle altre, né un'unificazione di tipo politico o in virtù di una qualche forza, in una specie di lotta competitiva. Desidero che le Chiese protestanti continuino a "protestare", ma partendo dalla radice del Vangelo, affinché io (cattolico) possa apprendere ciò che mi dicono, a partire dalla loro libertà credente, dal loro umanesimo. Voglio che le Chiese ortodosse siano fedeli alla loro tradizione e percorrano un cammino in linea con i nuovi tempi. Non ho fretta di vedere una rapida unificazione delle Chiese, visto che ciò che mi interessa e che queste vivano con passione evangelica e con umiltà creativa la loro missione nel mondo. Solo così potremo rispondere, aiutandoci l'un l'altro, alle due grandi sfide della modernità: il progresso tecnologico del sistema e l'immensa povertà di grandi masse popolari; la globalizzazione, l'emarginazione e la morte di gran parte dell'umanità.
La Chiesa non è ecumenica per il fatto di essere un'istituzione ben organizzata (come potrebbe essere l'Onu), ma come esperienza e cammino messianico di unificazione degli uomini e delle donne della Terra, dalla loro diversità, senza l'imposizione di una cultura sulle altre. Inoltre, direi che il progetto e il compito della Chiesa sia quello di non essere Chiesa come gruppo separato a sé stante. Le Chiese hanno definito la politica e la vita culturale e sociale dei nostri popoli. Tuttavia queste stanno morendo in qualche modo; sono in gran parte dei musei, come capita a Salamanca dove abito, così come a Roma.
Le nostre Chiese sono musei, a noi molto cari, che contengono e mostrano una storia millenaria. È per questo che, in un certo senso, queste devono morire per convertirsi nuovamente in luogo di vita. Ritengo che questo processo debba accelerarsi, così come devono sparire molte cose oltre alla nostra Chiesa, ma non per restaurarle poi (gli attuali progetti di restaurazione sono ben noti e pare che abbiano una buona accoglienza in Vaticano), ma per creare qualcosa di diverso, dalla radice del Vangelo. Solo da una creatività nuova, nella quale siano coinvolti coloro che si considerano cristiani, in comunione gratuita gli uni con gli altri, si potrà parlare di ecumenismo. Solo le realtà che sanno morire possono tornare a vivere. Coloro che vogliono mantenersi come sono, dopo aver compiuto dei servizi, finiscono col distruggersi in modo violento (come successe, secondo Gesù, al Tempio di Gerusalemme, molto simile a certi nostri templi). Per questo, l'ecumenismo significa capacità di creatività e cambiamento, capacità di morte, in comunione creativa di alcune Chiese con altre. L'unità che verrà poi sarà molto diversa da quello che sogniamo attualmente.

Da più parti, nella Chiesa cattolica romana si levano voci perché il successore di papa Wojtyla convochi un nuovo Concilio. Se avverrà e quando avverrà, quali innovazioni strutturali lei suggerirebbe per la sua preparazione e la sua celebrazione?
Non sono convinto che la soluzione degli attuali problemi della Chiesa risieda in un nuovo Concilio, anche se non mi oppongo a coloro che vogliono prepararlo ora e celebrarlo presto, quando Giovanni Paolo II morirà. A mio modo di vedere, l'idea di un Concilio sulla linea dei precedenti è vincolata a un tipo di organizzazione (vescovi centralizzati, nominati su dettato vaticano…) che, a mio giudizio, si trova superata o si deve superare. Per tale motivo non mi piacerebbe che ci fosse un Vaticano III, visto che non cambierebbe di molto le cose nel complesso delle Chiese. Il Concilio potrebbe tenersi a Roma, non nell'attuale Vaticano, ma in una Roma in cui rientrino tutti i movimenti cristiani. Bisognerebbe trovare nuove forme di partecipazione, partendo dalle basi cristiane, ovvero da tutti coloro che vogliono percorrere un cammino evangelico senza vincolarsi a strutture di potere.
Siamo soliti dire che sta per finire una Chiesa costantiniana. Questo significa che il nuovo Concilio dovrebbe assumere il cammino di Nicea (anno 325), ma superando il suo modello episcopale di potere (si celebrò sotto la "custodia" di Costantino nel suo stesso palazzo). Alcuni miei amici accentuano il carattere simbolico dei luoghi e formulano così le loro domande: si dovrebbe fare un Concilio a Gerusalemme (nel dialogo con l'ebraismo), a Ginevra o Mosca (nel dialogo con il protestantesimo e l'ortodossia), alla Mecca (nel dialogo con l'Islam), a Benares (nel dialogo con l'induismo e il buddismo)? Lascio questi quesiti senza risposta, per dire che la cosa più urgente è, a mio giudizio, la ricerca di nuove forme di fedeltà e comunione messianica, nel dialogo con tutte le Chiese, nell'apertura non impositiva verso l'umanità intera. Per questo un Concilio nell'anno 2006 (per fare un esempio), con il tipo attuale di vescovi della Chiesa cattolica, non darebbe molto gioco di creatività evangelica. Forse ci aspettiamo molto dai Concilii, invece quello che dobbiamo fare è lasciarci trasformare dal Vangelo.
In senso stretto, il Concilio reale della Chiesa è la sua vita quotidiana che crea forme concrete di comunicazione nella Parola e nel Pane. Il vero Concilio è la Parola del dialogo nel quale si possono unire tutti gli uomini, in conformità al modello di Gesù. Il Concilio cristiano implica la creazione di un linguaggio personale (non sacralizzato), un linguaggio di gioia e di apertura agli emarginati, unendo la ragione e il sentimento, la gioia della rivelazione e l'impegno a favore della vita. Questo è il Concilio cristiano, queste sono le Chiese, assemblee in un Concilio di parola condivisa e di pane concreto. Per questo, il modo per essere Concilio è quello di creare e promuovere reti di comunicazione personale, che si esprimono nel pane spezzato; reti che non si chiudono, che non escludono nessuno, che ci rendono capaci di rincorrere con amore e speranza la nuova traversata dell'umanità. Creare reti che includano i media, ma che in fondo siano personali, dirette, di incontro di occhi e di mani, della parola condivisa con affetto, tramite una presenza personale.
Una Chiesa le cui funzioni si possano realizzare tramite un computer smette di essere Chiesa. Non c'è amore via computer, senza carne reale, senza carezze concrete, senza passione vitale. Neppure c'è Chiesa senza una comunicazione concreta, fatta di parola e pane, di umanità messianica. Solo in questo modo potremo superare la minaccia reale di quei poteri che possono distruggere la comunicazione e distruggere noi stessi, vale a dire, la bomba e la manipolazione (di tipo genetico, ideologico, ecc.).

Il suo libro è uscito in Spagna nel 2001. Che accoglienza ha avuto nel mondo teologico iberico? E ci sono state reazioni da parte dell'episcopato, o da parte delle autorità accademiche della Università Pontificia nella quale lei insegna a Salamanca?
La Chiesa gerarchica è una struttura con molta saggezza politica. Essa lascia passare il tempo (che le cose si aggiustino per loro conto) e resta in silenzio (non va bene sbandierare i problemi), fino a che i problemi non arrivano a estremi insostenibili. Per tale motivo, due anni dopo la pubblicazione di questo libro nessuno mi ha detto nulla, assolutamente nessuno, né a favore né contro, dentro il mondo gerarchico o nell'ambiente accademico (le facoltà di teologia dipendono dalla gerarchia ecclesiastica). È un libro che è caduto nel silenzio, forse perché è troppo "voluminoso" e tecnico e perché la teologia di fatto importa poco negli ambienti della Chiesa e, fuori dalla Chiesa (in Spagna), la cultura laica non si interessa ai temi cristiani.
Ho sentito e continuo a sentire molte voci, di ogni tipo, però non sono in grado di valutarle. È evidente che alcune cose sono cambiate. Ci sono posti dove non mi chiamano per tenere corsi, ci sono riviste dove non sono ben accolti i miei lavori, ma questo è normale. Con i miei compagni, che sono veri amici, mi è andata molto bene, però a livello personale. A livello accademico non parliamo tra di noi. Una facoltà di teologia come la nostra è oggi un luogo di grande silenzio.
Non so se questo sia un buono o cattivo segnale. È probabile che nella Chiesa come istituzione ci sia paura a dire determinate cose. Sembra che ci manchi la libertà. Il punto è che io non so cosa pensa davvero gran parte dei professori di teologia o dei vescovi, poiché ho l'impressione che molti dicano solo quello che "devono dire". Ma non sono sicuro neppure di loro: hanno introiettato le reazioni del sistema o sentono che sia questo ciò che gli richiede la loro fedeltà al Vangelo inteso dentro l'istituzione ecclesiale?
Tornando al mio caso, voglio dire che ho iniziato ad avere problemi con la docenza nella facoltà di teologia a partire dagli anni 1982/83, per un libro che avevo scritto su "Le origini di Gesù" (Sígueme, Salamanca 1976), su argomenti di cristologia. Per questo motivo ho dovuto 'chiedere' una aspettativa, poiché non mi concedevano il nulla osta per insegnare; e per tale motivo sono rimasto fuori dall'Università per cinque anni, dal 1984 al 1989. Le cose si sistemarono "politicamente" e a partire da allora non insegno più i temi di teologia stretta (in cui è chiamata in gioco in modo diretto la fede della Chiesa), bensì temi più laici o culturali, di fenomenologia o filosofia (Storia delle Religioni e Teodicea). Io ho accettato questa soluzione "politica" e, pertanto, non ho diritto di protestare.
Voglio aggiungere che, dall'inizio, in vent'anni di problemi mai nessuno, in nessun modo, mi ha chiesto veramente quali siano le mie convinzioni cristiane. Nessun vescovo o delegato dell'Università (con l'eccezione del cardinal Tarancón, in un incontro informale che non venne considerato valido a Roma, nel 1982) mi chiese: "Tu cosa ne pensi?" Sei un cristiano convinto? In cosa credi?".
La questione si sistemò in questo modo. Mi chiesero di ritrattare (senza chiedermi in fondo cosa ritrattassi). E io accettai, senza esserne convinto (facendo qualcosa che oggi non avrei fatto). Per poter continuare a dare lezioni, dopo l'aspettativa obbligata, pubblicai tra il 1987 e il 1988 dei lavori "ambigui", con doppia lettura (sulla mariologia, cristologia e pneumatologia) e così li accettarono i membri delle commissioni accademiche ed episcopali, senza preoccuparsi di chiedermi in cosa credessi davvero. Sembrava che io avessi accettato le regole del gioco dell'istituzione, sottomettendomi esternamente alle sue esigenze. E di fatto fu così. Sembrava avessimo raggiunto un accordo.
Oggi, dopo vent'anni, non mi sento con le mani pulite: ho la sensazione di essere entrato in un gioco di dissimulazioni, nel quale tutti sapevamo che ci stavamo ingannando in qualche modo, nascondendoci reciprocamente. Io non credevo, né credo, in ciò che pensavano che io stessi dicendo nelle mie "ritrattazioni". Nemmeno i rappresentanti della gerarchia si preoccuparono di sapere quello che io pensassi davvero; a loro bastava la facciata in ordine. Alla fine gli amici dell'università poterono sentirsi soddisfatti. Sono un uomo ben visto e con un certo prestigio accademico. Nessuno vuole aprire delle ferite, pertanto è meglio lasciare le cose come stanno.
È probabile che questo atteggiamento dell'istituzione provenga, almeno in parte, dal rispetto di fondo della Chiesa cattolica, che non vuole entrare nell'intimità delle persone. Io ringrazio l'Istituzione Ecclesiastica per questo rispetto. Ma, d'altra parte, mi sarebbe piaciuto poter entrare in un dialogo accademico ed ecclesiale sui temi discussi e, su questa linea, ho pubblicato questo nuovo libro sulle "Istituzioni del Nuovo Testamento". Fino ad ora non c'è stato dialogo. Forse ci potrà essere in futuro. Ma con il passar del tempo io son diventato meno ingenuo. Non sono del tutto soddisfatto delle mie reazioni, del mio modo di aver "mentito" o per lo meno "nascosto" le mie convinzioni più profonde dinnanzi alle strutture ufficiali della Chiesa. Sento che dentro di me c'è come una bugia, che non mi sembra del tutto in linea con il Vangelo. Ecco perché questo libro è un momento nel mio cammino di "povero cristiano" e vuole essere un momento che valga anche per altri cristiani che si sentono poveri ed erranti, in mezzo alle difficoltà e alle speranze. Poiché, e queste sono le mie ultime parole, se c'è qualcosa di gioioso e grande nella mia vita (e in quella di molti altri) è il Vangelo di Dio, che scopriamo in Gesù, in un cammino fragile e bello della Chiesa.

da ADISTA 2003