Leggi la storia dei borghi medievali che incastonano la Val di Cecina

Montescudaio
Casale Marittimo
Guardistallo
Riparbella

 

 

  Situato in bella posizione sulle pendici meridionali del Poggio di Nocola, a differenza degli altri paesi non ha forma tondeggiante, ma si è sviluppato lungo la strada sul crinale di un dorso collinare. Conserva un palazzo della fine del '400.

   Nel territorio di Riparbella sono stati ritrovati alcuni reperti di antichi insediamenti: in località Ortacavoli, a ovest del paese, furono scoperti nel 1956, durante dei lavori stradali, quattro pregevoli vasi e due asce di piombo dell’VIII secolo a.C.; a Belora, sempre a ovest del paese, lungo la Via Salaiola, vennero scavate nel secolo scorso numerose tombe etrusche, di epoca imprecisata, e nel 1964 una tomba di Età romana.

   Il nome deriva forse da Ripa albella, vale a dire Ripa bianca, dal biancore delle terre tufacee e sabbiose che costituiscono la cima della collina. Nei documenti medievali e fino al ‘600 il nome è infatti "Ripalbella" oppure "Ripabella".

   Il piccolo castello sorse probabilmente intorno all’anno Mille e faceva parte delle possessioni dei conti Della Gherardesca che a quell’epoca abitavano altri due castelletti dei dintorni, Belora e Bovecchio, il primo già menzionato per gli scavi etruschi, il secondo completamente perduto, tanto che non si conosce più il luogo in cui si trovava.

   La parrocchia di Riparbella era compresa nel distretto della pieve di Vallinetro (o Vallaneto), località oggi scomparsa che si suppone si trovasse nella piana del Cecina ai piedi della collina, in una località oggi chiamata San Martino.

   Un primo documento storico che menziona Riparbella è del 1125 e fa riferimento a una lite nata tra il pievano di Vallinetro e certi monaci di Riparbella, forse benedettini, che avevano il monastero a metà strada per il paese, in una località ancora oggi chiamata "Poggio ai Frati". Diverse volte il pievano si era lamentato presso l’arcivescovo di Pisa per il fatto che i riparbellini non solo facevano seppellire i loro morti dai frati, ma portavano a loro anche le decime, che invece dovevano essere consegnate alla pieve; si sentiva quindi, come dice il documento, "depauperato dai monaci per rapina di decime e di corpi ed era irritato a causa delle ribellioni e delle frequenti offese dei parrocchiani". L’arcivescovo ristabilì l’ordine intimando ai riparbellini di portare morti e decime alla pieve, pena l’incorrere nelle sanzioni previste ed essere partecipi dell’eterna maledizione.

   Annessa al monastero di Poggio ai Frati vi era una chiesa, dedicata a Santa Maria e nominata fin dal 1177, oggi scomparsa, ma che dà ancora il nome al podere e al botro vicini.

   Nel corso del primo secolo dopo il Mille l’arcivescovo di Pisa riuscì a comprare le terre di Riparbella e di molti castelli intorno, come Belora, Pomaia e Santa Luce, in modo che già verso il 1150 ebbe su queste terre non solo la giurisdizione ecclesiastica, ma anche quella temporale, compreso il diritto di infliggere pene pecuniarie e corporali, fino alla pena di morte. Questi poteri venivano esercitati attraverso un visconte che nei vari castelli dipendenti era sostituito da un vicario.

   Nella seconda metà del XII secolo e ancor più durante il XIII, sorsero contrasti tra l’arcivescovo e il Comune di Volterra per il dominio dei castelli di Riparbella, Strido, Mele e Montevaso. Sia nel 1198 che nel 1292 si dovette ricorrere ad arbitri, che aggiudicarono sempre questi castelli all’arcivescovo di Pisa, a condizione, tuttavia, che non dessero rifugio ai "fuoriusciti" o ai "banditi" della città di Volterra. Riparbella da allora è rimasta saldamente in mano all’arcivescovo di Pisa fino alla conquista di quella città da parte di Firenze nel 1406. Nel 1319, addirittura, l’arcivescovo vi dimorò per qualche anno, forse fino al 1322, a causa della situazione poco stabile a Pisa, dove aveva dei dissidi con le istituzioni repubblicane.

   La crescita del piccolo castello si rispecchia nell’aumento del numero delle chiese che vennero censite dalla mensa arcivescovile: mentre nel 1177 e nel 1276 fu nominata solo la pieve di Vallinetro, intitolata a San Giovanni, nel 1277 compaiono nell’elenco delle decime anche Santa Maria di Riparbella (al Poggio dei Frati, esistente comunque anche prima) e Sant’Andrea di Belora; nel 1296 troviamo inoltre San Bartolomeo in Pecoraio (in località San Pecoraio a nordest del paese) e San Michele in Riparbella, posta all’interno delle mura dei castello, e nel 1372 si aggiunge San Michele de’ Meli, castello nelle vicinanze, oggi scomparso. Tutte erano subordinate alla pieve di Vallinetro.

   Nel 1345 Riparbella non partecipò alla rivolta dei castelli dei conti di Montescudaio-Della Gherardesca contro la Repubblica di Pisa; ma nel 1406 si sottomise alla Repubblica di Firenze il giorno 21 marzo, sette mesi prima che Pisa stessa cadesse sotto il dominio fiorentino.

   Nel 1477 fu occupata dalle truppe di Alfonso di Aragona redi Napoli — che nella guerra contro Firenze devastarono i castelli della Vai di Cecina —, ma già l’anno dopo fu riconquistata dall’esercito di Firenze. È probabile che in questa occasione i fiorentini abbiano distrutto il castello, e forse anche la pieve fu danneggiata o distrutta durante le operazioni belliche, visto che è nominata ancora nel 1422 ma non compare più nel 1462-63, nè in seguito.

   Nel 1594 i pisani si sollevarono contro Firenze e anche la popolazione di Riparbella si ribellò al dominio fiorentino, ma già alla fine dello stesso anno Firenze riprese il controllo della situazione.

   Sotto la Repubblica dì Firenze Riparbella ottenne lo status di libero Comune, sottoposto alla Potesteria di Peccioli e al Vicariato di Lari. Nel 1488 il Comune si diede i primi statuti, redatti con gran "vociferare" nella chiesa del castello, come annota, protestando, il parroco. Gli statuti regolavano gli affari interni della comunità e stabilirono, tra l’altro, alcune regole. L’amministrazione comunale doveva essere diretta da due consoli, estratti a sorte da una borsa che conteneva i nomi di tutti gli uomini del comune sopra i vent’anni. I consoli rimanevano in carica per sei mesi. Essi erano affiancati da un Consiglio Comunale composto da ventiquattro uomini, estratti da un’altra borsa, che conteneva un nome per ogni famiglia. Chi era eletto aveva l’obbligo non solo di partecipare alle riunioni del consiglio, ma anche di arrivarvi puntuale, e di pagare una pena di cinque soldi per ogni assenza. Il Consiglio era presieduto, almeno dal 1508, dal podestà di Peccioli. Le votazioni avvenivano mediante fave nere e bianche (rispettivamente per il no, e per il sì) e questa era la regola per tutto il territorio di Firenze. Nel 1560 le fave bianche vennero sostituite da fagioli.

   Un’altra carica importante era quella del camarlengo, una specie di tesoriere o ragioniere del Comune che amministrava i soldi. Veniva estratto per un anno e alla fine del mandato doveva rendere conto delle sue operazioni: se mancava qualcosa al bilancio doveva saldare la differenza entro un mese. Era inoltre tenuto a consegnare i fondi al suo successore e se trafugava delle somme doveva restituirne il doppio.

   Altre magistrature comunali erano quelle del campaio — una specie di guardia campestre — del cappellano o maestro di scuola e del barbiere, che per un certo tempo faceva anche da chirurgo.

   Gli statuti definivano i confini dei pascoli comunali, e delle "bandite", stabilivano quante bestie ogni famiglia potesse mandare sui pascoli e fissavano il canone annuo da pagare, e cioè:

per ciascuna bestia brada bufalina, vaccina o cavallina soldi dieci
per ciascuna bestia porcina soldi otto
per ciascuna capra o bestia caprina soldiuno
per ciascuna pecora o bestia pecorina soldi due

   Nei pascoli era vietato abbattere gli alberi selvatici da frutto come querce, certi, sugheri e lecci, che miglioravano la pastura e fornivano le ghiande, alimento indispensabile per i maiali, animali di grande importanza nell’economia familiare dell’epoca. Naturalmente c’erano le multe per danni o furti nelle vigne, negli orti o nei frutteti — con particolare menzione per i furti di fichi — e le pene erano di cinque soldi, se il furto o danno avveniva di giorno, di dieci per chi rubava di notte.

   In paese si badava alla pulizia della fonte: era vietato lavare i panni o abbeverare le bestie o "fare alcuna bruttura" nel raggio di 40 braccia a est e 20 a ovest (rispettivamente circa 23 metri e 11 metri e 60). Maiali, capre e pecore non potevano girare o pascolare nel paese o nelle immediate vicinanze e i maiali nel castello erano da tenere chiusi nei castri.

   Le entrate del Comune erano costituite dalle multe inflitte per le varie trasgressioni, dall’affitto dei pascoli e dalla tassa che veniva imposta per la macellazione di ogni capo di bestiame. Inoltre il Comune aveva il monopolio dei mulini e gli uomini di Riparbella avevano l’obbligo di macinate le loro granaglie solo nei mulini comunali —"per fare buone l’entrate di detto Comune".

   Questi statuti venivano, negli anni successivi, periodicamente riconfermati, a volte leggermente cambiati o aggiornati, ed erano in vigore fino al 1737 e forse parzialmente addirittura fino al 1817.

   Sin dal 1456 l’arcivescovo di Pisa, ancora formalmente proprietario delle terre, aveva lasciato tutto il terreno comunale a disposizione "degli uomini e della comunità" di Riparbella, che vi avevano il diritto di pascolo.

   L’allevamento del bestiame e la pastorizia erano le attività principali della popolazione e il pascolo veniva concesso secondo le condizioni stabilite dagli statuti. Inoltre le singole famiglie possedevano degli appezzamenti di terra, di solito vicini al castello e recintati da siepi o muri, dove coltivavano gli ortaggi, le viti e gli olivi — i domesticheti — o chiuse o da chiudere. L’uso comunitario delle terre assicurava una relativa stabilità delle condizioni di vita a tutta la popolazione del castello.

   Il territorio di Riparbella arrivava allora fino al mare, includendo anche la striscia tra il Cecina e il Fine. Era quasi per metà coperto da boschi, il resto era pascolo con qualche pezzo di seminativo. La parte costiera, da Collemezzano fino al mare, apparteneva non alla comunità di Riparbella, bensì alla famiglia dei Medici. Queste possessioni medicee si erano formate già alla fine del XIV secolo per conto di Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico, e formarono più tardi le terre dello "Scrittoio delle Reali Possessioni dei Granduchi".

   All’epoca della stesura degli statuti la comunità di Riparbella era in espansione; dappertutto, così si legge, si vedevano "continuamente i popoli crescere, così le famiglie moltiplicare e nuovi lavori farsi". Negli anni ‘60 del ‘400, dopo la scomparsa della pieve di Vallinetro, il fonte battesimale era stato portato in paese e la chiesa di Riparbella aveva assunto il nome di pieve di San Giovanni — la popolazione, allora, lamentava che le messe non venivano celebrate regolamente, e il parroco, viceversa, denunciava la scarsa partecipazione alle funzioni. Ma nel ‘500 cominciò un processo di privatizzazione delle terre, che portò gradualmente alla diminuzione delle aree comunitative. Il Comune, anche se formalmente non avrebbe potuto, aveva concesso alcuni terreni "a terratico", cioè dietro pagamento d’affitto, a privati per il disboscamento e la semina, mentre l’arcivescovo, dal canto suo, aveva venduto qualche terreno sottratto al Comune. Si ebbe così una progressiva restrizione dei pascoli a disposizione della comunità. Di questo si trova riscontro anche negli statuti, dove, nel 1520, venne introdotto un paragrafo che limitava a dieci il numero di bestie che ogni famiglia poteva mandare al pascolo. Nel 1566 questo limite venne di nuovo alzato a venti bestie per ogni famiglia. Inoltre, nel ‘500, incominciarono a farsi sentire i primi effetti della diffusione della malaria nella pianura, e di anche di questo troviamo riscontro negli statuti: nel 1570 si inasprirono le norme igieniche, aumentarono le pene per chi faceva circolare i maiali nel paese senza curarsi "dell’infetione dell’aria che ne risulta" (le vere cause della malaria non erano conosciute fino alla fine dell’Ottocento). Per fare "quanto sarà possibile" per tenere l’aria più purificata, si ordinò che ogni abitante del castello dovesse "almeno ogni sabato sera spazzare dinnanzi al suo uscio […] e poi portare via fuori dalle mura la spazzatura".

   Le terre comunitarie diminuivano ulteriormente quando, alla fine del ‘500 venne eretta a Cecina la Ferriera della Magona con il grande forno al quale erano, per decreto, riservati tutti i boschi nei dintorni. Dal 1604 questa riserva, estesa a un raggio di otto miglia dalla Magona, investiva anche i boschi del territorio di Riparbella. D’allora in poi fu vietato tagliare la legna, se non per uso di combustibile della ferriera; inoltre nei lotti tagliati il pascolo era vietato alle vacche per cinque anni e alle capre per dieci per favorire la ricrescita degli alberi.

   Nel 1622 venne redatto un estimo delle proprietà nel territorio di Riparbella, che rivela che il 32% di tutto il terreno apparteneva alla comunità, il 16% a proprietari privati, il 50% ai granduchi e l’1% a enti religiosi.

   Tra i possessori privati spiccavano due famiglie locali, gli Spadacci e i Mattei, che concentravano nelle loro mani, rispettivamente il 10 e il 15% delle proprietà private, mentre le altre famiglie possedevano di solito la casa e qualche appezzamento di terra.

   Dall’estimo risulta anche che la stragrande maggioranza della popolazione viveva nel castello e nelle immediate vicinanze e che il paese era fortificato e cinto di mura e aveva almeno due porte, una di sopra e una di sotto. Probabilmente le mura erano costituite, come avveniva di solito, dalle case stesse.

   Nel XVII secolo le condizioni generali di vita andavano via via deteriorandosi, soprattutto a causa della diffusione della malaria e dello scoppio della grande epidemia di peste del 1630. Ignoriamo quante vittime la pestilenza abbia mietuto a Riparbella, ma sappiamo che gli abitanti costruirono in cima al paese una cappella dedicata a San Rocco, protettore dalla peste. L’avvenimento più importante dell’epoca fu però l’infeudazione del paese, avvenuta nel 1635. In quell’anno i Medici consegnarono la comunità in feudo ad Andrea Carlotti di Verona, "cameriere" di Sua Altezza Reale e "coppiere" della granduchessa, che veniva insignito del titolo di marchese di Riparbella.

   L’infeudazione comprometteva gravemente la vita comunitaria, anche se gli statuti restavano in vigore, solo che il Consiglio Comunale era ora presieduto da un podestà del marchese. Il Carlotti, nel secondo anno del suo marchesato (1636), dotò Riparbella di un’enorme cisterna. Il problema dell’acqua era molto sentito: nessuna fonte era stata condotta al paese e la cisterna del Comune non funzionava per mancanza di docce che vi si immettessero e comunque forniva acqua cattiva. Tuttavia neanche la nuova cisterna risolse il problema. Del resto il Carlotti fece della campagna una grande riserva di caccia, aggravando ulteriormente la carenza di pascoli. I boschi che avanzavano e si infoltivano, impedivano la ventilazione e resero il luogo empre più insalubre. La zona lungo il Cecina venne del tutto abbandonata, ma anche nel castello la popolazione diminuiva. Alla decima da pagare alla Chiesa (nel 1701, 1 staio e mezzo di grano e mezzo baile di vino all’anno; quelli della Cinquantina davano un maiale) si aggiungevano nuove tasse: nel 1676 venne introdotta la tassa sul macinato, che rimase in vigore per un secolo e fu considerata insopportabile dalla popolazione. Nel 1691 si impose anche la tassa sul sale, durata fino al 1750. Nel 1706 la chiesa parrocchiale era talmente mal ridotta da minacciare rovina e il Comune dovette stanziare fondi per salvarla. Alla fine del Marchesato del Carlotti, nel 1736, Riparbellacontava soltanto 258 abitanti. Il paese era in uno stato deplorevole come si può rilevare dalla seguente descrizione: "i poggi […] (erano) ricoperti di folte boscaglie che impedivano la ventilazione e ne rendevano in estate l’aria umida e insalubre [...] i tetti (erano) ricoperti di una patina verdastra, segno evidentissimo di malaria. A pochi metri dal caseggiato i boschi [...] formicolavano di rettili schifosissimi, di grossi cinghiali e di lupi che con il loro ululato accrescevano nelle notti il terrore ai miseri febbricitanti coloni [...]". In simili condizioni l’aveva trovato anche il Targioni Tozzetti nel 1742 "[...] circondato per ogni verso da boscaglia, e oltre di ciò ha de’ Poggi vicini che gl’impediscono la ventilazione; perloché nell’Estate non è salubre. Si aggiunge che l’acqua di una fonte, di cui bevono la maggior parte degli abitanti, viene da Mattaione, ed è assai cattiva".

   Nel 1737 i Carlotti vendettero il feudo al senatore Carlo Ginori di Firenze, che poi lo unì alla sua tenuta di Cecina. Le richieste che il Comune presentò al nuovo padrone sono assai indicative per la situazione del paese: condurre in piazza una fonte buona di acqua potabile; dare agevolazioni a chi volesse immigrare a Riparbella; cedere i restanti pascoli a titolo di affitto perpetuo ai contadini; riformare il sistema delle tasse. Non sappiamo se le richieste siano state esaudite.

   Nel 1755, in seguito all’abolizione dei feudi in Toscana, Riparbella tornò alle dirette dipendenze del granduca e venne sottoposto alla Potesteria di Chianni, Vicariato di Rosignano Marittimo. Intanto, durante tutto il XVIII secolo, le famiglie benestanti erano riuscite a concentrare nelle loro mani un numero sempre crescente di proprietà terriere. In primo piano erano i Mastiani e i Baldasserini, che avevano usurpato una notevole parte dei territori granducali. Nel 1781-82 queste due famiglie vennero trovate in possesso di 4 mila (delle complessive 20 mila) staiora del terreno delle Reali Possessioni e non sapendo come averle in restituzione, si decise di offrirle loro formalmente per l’acquisto. Del resto era di loro proprietà metà delle terre che prima erano comunitative. Negli anni ‘80 del XVIII secolo anche a Riparbella si doveva procedere all’allivellazione dei terreni granducali e degli enti religiosi, com’era previsto dalla riforma agraria leopoldina, per arrivare a una distribuzione più capillare dei terreni. Ma di queste terre poco o niente arrivò nelle mani dei contadini o dei mezzadri, perché nel 1787 Niccolò Giusteschi comprò in blocco tutte le possessioni granducali nel territorio per poi rivenderle per proprio conto ai notabili del paese.

   Dall’estimo del 1785 si apprende che a Riparbella esistevano 62 intestatari di terreni (contro 82 nel 1622), ma 54 di questi possedevano solo l’appezzamento a "domesticheto", per vigna e ortaggi, sotto le mura del castello, mentre il resto del territorio era in mano a otto famiglie possidenti.

   Nel 1790 un osservatore granducale che passava a Riparbella, notò che si vedevano ancora molti avanzi delle mura del vecchio castello, e che le macerie venivano usate dai riparbellini per la costruzione di nuovi edifici.

   Nel 1817 si riformarono i sistemi amministrativi e a capo del Comune venne posto un gonfaloniere, nominato dal granduca, affiancato da due priori e sei consiglieri. Dopo due secoli di dominio feudale, la comunità registrò una ripresa, si costruirono nuove case: nel 1817 venne massicciata e resa carrozzabile la via del Bastione, cioè la strada per Cecina, e nello stesso anno si istituì nel paese un ufficio postale. Il numero degli abitanti raggiunse 1.112 unità nel 1833 (contro le 292 del 1745). Il geografo Zuccagni che passò a Riparbella nel 1830 trovò la campagna ben coltivata e intorno al paese tanti olivi. Un altro contemporaneo commentava nel 1843: "Il trovare oggi in quel luogo così poco favorito dalla natura molta popolazione sana, il trasporto giornaliero dei generi diversi, il moto continuo dei barrocci, l’osservare che per ogni dove in cotesta contrada si vanno innalzando fabbriche (= case) [...] tuttociò desta sorpresa, piacere e curiosità nel viaggiatore […]. Miglioramenti si ebbero anche in seguito ai continui disboscamenti, alle nuove piantagioni di viti e di olivi e agli allivellamenti delle terre dei Giusteschi, dei Gonnelli e, più tardi, dei Baldasserini.

   Nel 1836 a Riparbella si verificò un’epidemia di colera, — malattia provocata dal consumo di acqua infetta — che causò molte vittime e si ripeté anche nel 1855.

   Nel 1838 il paese ricevette una visita del granduca Leopoldo II che suggerì la costruzione di una nuova chiesa e mise a disposizione anche i finanziamenti. I lavori vennero iniziati nel 1841 e terminati nel 1845. La vecchia chiesa, che era di circa due terzi più piccola di quella attuale e orientata in direzione est-ovest fu demolita e la nuova venne costruita perpendicolarmente a essa. Il campanile rimase lo stesso, gli fu però tolta la piramide che la sormontava, che fu sostituita con una cella campanaria. Oltre alla parrocchiale vi erano altre due chiesine, l’oratorio della Madonna delle Grazie e quello detto "di San Celestino" o "della Compagnia della SS. Annunziata". Nel 1839-40 si costruì il nuovo cimitero, (oggi "cimitero vecchio") a sud del paese, visto che quello precedente, accanto al campanile della chiesa parrocchiale non era più sufficiente. Nel 1845 Riparbella contava 1.374 abitanti.

   Nel 1846 un terribile terremoto si abbatté su tutta la zona costiera e la chiesa parrocchiale, terminata l’anno precedente, fu gravemente danneggiata. Anche gli altri due oratori erano lesionati e l’unico altare agibile fu collocato sotto la loggia dell’oratorio della Madonna. Le 137 case del paese erano tutte danneggiate, i morti erano quattro, quattro anche i feriti gravi. Un riparbellino, Giuseppe Tabani, scrisse Del Terremoto accaduto in Toscana il 14 Agosto 1846, un’opera pubblicata a Pisa nello stesso anno, da cui riportiamo l’avventura vissuta da tale Amaddio Nesi nella campagna presso Gabbruccino: "Spalancatoglisi sotto i piedi la terra, vi piombò, e vi fu chiuso fin sopra le ginocchia. Una seconda scossa, per sua ventura, lo rese libero dagli orribili ceppi". Per paura di nuove scosse i riparbellini passarono nove giorni all’aperto.

   Durante i moti rivoluzionari del 1848 il Consiglio Comunale manifestò con varie mozioni la sua fedeltà ai granduchi. In seguito le idee liberali si diffusero anche a Riparbella, tuttavia nessun riparbellino andò volontario nella guerra d’indipendenza contro l’Austria.

   Nel 1 844 venne corretto il corso della via del Bastione e si costruì il ponte sul botro di Santa Maria. Il paese assunse l’aspetto che in generale ha mantenuto fino a oggi: si fece ingrandire la via principale tra la chiesa e la piazza abbattendo una fila di casupole appoggiate sulla destra; si rettificarono l’andamento di via della Madonna, che prima passava a destra del municipio, e di via San Rocco, oggi via Roma. Nel 1866 venne costruito il municipio e nel 1867 si rese carrozzabile la strada Riparbella-Castellina. Nel 1859 si portò finalmente una fonte d’acqua potabile in paese — quella del Felciaio non quella buona del Doccino —, perché il prezzo di vendita richiesto dalle proprietarie, le signore Carrani, era troppo alto. Purtroppo si verificò l’inconveniente che ogni volta che pioveva, l’acqua scendeva torbida e giallastra e nonostante le molte riparazioni alle condutture non si riuscì mai a eliminare del tutto il guasto.

   Nel 1862 venne costruita la linea ferroviaria Cecina-Saline con la stazione di Riparbella, che inizialmente si chiamava San Martino. Fu un periodo favorevole per i braccianti perché la loro forza lavoro alla ferrovia veniva pagata due o tre lire al giorno, contro una lira che solitamente guadagnavano nei campi.

   Al plebiscito del 1860 i riparbellini votarono in larga maggioranza a favore all’annessione. Gli anni successivi all’Unità d’Italia furono caratterizzati dall’introduzione di nuove tasse e aggravi fiscali; tra l’altro si introdusse, dal 1867 al 1882 di nuovo la tassa sul macinato. Nel 1873 Riparhella aveva 3.793 abitanti in tutto il territorio e tre scuole pubbliche nel paese, una maschile, una femminile e una mista.

   Nel 1882 il territorio di Collemezzano e della Cinquantina venne scorporato dal Comune di Riparhella e annesso a Cecina (con conferma governativa del 1892). A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento molti abitanti di Pomaia, Castellina e Riparbella furono influenzati dalle idee rivoluzionarie dell’anarchico Pietro Gori di Rosignano Marittimo.

   Riparhella registrò 47 caduti nella prima guerra mondiale. Conservò l’amministrazione socialista fino al 1920. intorno agli anni ‘20 fu portata l’elettricità in paese e una dopo l’altra le case vi si allacciarono. L’illuminazione stradale era a gas ancora nel secondo dopoguerra. In campagna l’estensione della rete elettrica è avvenuta soltanto negli anni ‘60-’70.

   Nel 1933 fu costruito l’edificio della scuola, nel ‘34 vennero inaugurate le Elementari e nel ‘36 le Medie.

   Durante la seconda guerra mondiale, e in particolare nel 1944 con la ritirata delle truppe tedesche, anche Riparbella, come molti paesi vicini, ha visto atti di rappresaglia contro la popolazione civile e lo sterminio di 11 persone al podere Le Marie.

   Dalla fine dell’Ottocento il Comune ha sempre registrato intorno ai 3 mila abitanti e ancora nel 1961 i residenti erano 2.715, ma negli anni ‘60 e ‘70 si è verificato anche qui l’esodo verso i centri industrializzati e in particolare verso Rosignano, sede della Solvay. Alla fine del 1993 Riparbella contava 1.309 abitanti; la tendenza è alla contrazione demografica e si fa sentire sopratutto nella popolazione scolastica. Sul territorio lavorano alcune imprese industriali, tra cui quattro ditte di escavazioni e frantumazioni e una ditta di manufatti in cemento. Il paese è dotato di posta, banca, ambulatorio medico, farmacia e pompa di benzina, di ristorante e pizzeria e di diversi negozi. Molte case in campagna sono state vendute a stranieri — sopratutto tedeschi e svizzeri —, e i residenti stranieri ammontano a 55 unità.

             Tratto da Guida alla Val di Cecina, a cura di Susanne Mordhorst, Nuova Immagine Editrice

  

   
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