- Vittoria
Colonna:
- il
suo mondo, la sua poesia (II Parte)
- di
Silvana Andrenacci Maldini
-
- A
distanza di cinque secoli dalla nascita della Marchesana è
necessario soffermarsi su quella fama di poetessa che tanto la
distinse in vita, così pure su quella vita politica, tutta volta
alla salvezza di insigni personalità guardate con sospetto dal
Papa e dall’Inquisizione. La nobildonna si salvò dal rogo
proprio per la malattia che la portò alla morte neppure
cinquantenne. Si sa con esattezza che molti dei sospettati,
protetti da lei, passarono all’altra sponda, cioè al
protestantesimo. A prescindere dal grande prestigio politico e
della messe raccolta come “protettrice degli oppressi”, furono
proprio certe lettere di Vittoria a insospettire la chiesa
Cattolica. L’8 dicembre 1541 la Colonna aveva scritto a Giulia
Gonzaga di “dovere al Pole” la salute dell’anima del corpo,
perché egli (il Pole) l’aveva liberata dalla “superstizione e
dal malgoverno”. Inevitabilmente
i sospetti di eresia caddero su Vittoria. Il Carnesecchi
rispose all’inquisitore che piuttosto la nobildonna soleva
alludere a certe pratiche penitenziali a cui sottoponeva il
proprio corpo e che erano troppo pesanti per la sua già insicura
salute. Il problema era quello di inserire o meno il nome della
defunta tra gli eretici scampati alla giustizia. La morte del
marito Ferrante aveva portato Vittoria a considerare il Pescara un
eroe carisma-tico, elevandolo a ideale. «Questo è quel laccio,
ond’io mi pregio e lodo, / che mi trae fuori d’ogni mondano
errore. / Ove de’ miei desir cangianti godo». I temi delle rime
della Colonna, ruotano attorno al motivo centrale della
purifi-cazione della contingenza della materia per attingere ad
una dimensione spirituale, mistica.
- Le
“Rime sacre e morali”, “Le rime profane”,
“L’epistola” sono opere che rivelano, tutte, una ossessiva
tensione all’alto, alla santità, in contrasto con il modo della
poetessa di detenere e di vivere l’autorità. Una volta vedova,
Vittoria, con fedeltà assoluta al vincolo matrimo-niale, aveva
desiderato entrare in convento, ma la decisione fu contrastata dal
fratello Ascanio che ben sapeva quanto fosse utile alla propria
famiglia il crescente prestigio della Marchesana. Lo stesso Papa
Clemente VII le scrisse ricordando l’utilità di una vita
esemplare cristiana vissuta al di fuori del convento. Fra tanto
platonismo amoroso messo di moda dal petrarchismo, Vittoria, fu
una vera rivelazione per Michelangelo che avvertì il fascino
della sua personalità, egli, così ansioso di bellezza
spirituale, alla ricerca in terra della sua Beatrice.
- Vittoria,
come poetessa, non può soddisfare i gusti dei poeti e degli
scrittori moderni. Il “Canzoniere” è stato giudicato, dal
critico e scrittore Francesco Flora, un monumento funebre al
marito Ferdinando, sebbene un vero e intenso dolore sia
testimoniato in ogni sillaba. «L’opera - dice il Flora –
assomiglia a certe tombe sontuose che però sono prive di sacra
mestizia…». Nondimeno desidero parlare di due suoi sonetti, le
cui similitudini sono veramente gentili, preziose. «Provo tra
duri scogli e fiero vento / l’onde di questa vita in fragil
legno / e non ho più a guidarlo arte né ingegno / quasi è al
mio scampo ogni soccorso lento. / Spense l’acerba morte in un
momento / quel ch’era la mia stella e ‘l chiaro segno / or
contro il mar turbato e l’aer pregno / non ho più aita; anzi più
ognor spavento / non di dolce cantar d’empie sirene / non di
romper tra queste altere sponde; / non di fondal nelle commosse
arene; / ma sol di navigar ancor quest’onde, / che tanto tempo
sono e senza speme / ché il fido porto mio morte m’asconde».
La Colonna vede la sua vita, dopo la perdita di Ferrante, come una
fragile barca sbattuta tra gli scogli aspri e il vento furioso.
Non vi è alcun soccorso ormai che possa salvarla da una guida
insicura. La sua stella luminosa (il marito) è stata spenta dalla
morte e nessuno potrà salvarla dal naufragio. Il suo timore non
è relativo al canto crudele delle sirene, e a quelle rive
scoscese, o ai fondali infidi, ma al dover continuare a navigar in
quelle acque che lei solca ormai da tanto tempo senza speranza,
poiché la morte le ha rapito (le nasconde) il porto sicuro della
salvezza.
- «Qual
divino augellin, che vede, ed ode /
batter l’ali alla madre intorno, quando / gli reca il
nutrimento, ond’egli, amando / il cibo e quella, si rallegra e
gode / e dentro al nido suo strugge e rode / per desio di seguirla
anch’ei volando/ e la ringrazia in tal modo cantando, / che par
ch’oltre il poter la lingua snode / tal modo cantando,/ che par
ch’oltre il poter la lingua snode / tal io qualor il caldo
raggio e, vivo / del divin sole, onde nutrisco il core / più
dell’usato lucido lampeggia / nuovo la penna spinta dall’amore
/ interno, e senza ch’io stessa m’avveggia / di quel che io
dico, le sue lodi scrivo». La Colonna paragona se stessa a un
uccellino digiuno che vede e sente la madre batter le ali intanto
che lo imbecca, per cui egli, amando sia la mamma che il cibo, se
ne rallegra. Al pensiero però di non poterla seguire nel volo, si
rattrista, nondimeno la ringrazia affettuosamente con un
cinguettio più festoso e insolito. Così la poetessa, quando il
raggio vivificante del suo amore per Ferrante le alimenta il cuore
splendendo più del consueto, ella scrive spinta da quella luce
amorosa che le fa cantare le odi del marito senza neppure
soppesare le parole. La cultura della Colonna fu più intuitiva
che sistematica, certamente più disinibita rispetto alla
soggezione e alla centralità della tradizione classica. La
popolarità di Vittoria come poetessa fu tale che i poeti del suo
tempo, la Gambara, l’Allegretti, Bernardo Tasso, il Tarsia, il
Guidiccioni, Annibal Caro, chiesero a lei i pareri e le correzioni
alle proprie rime!
- Desidero
finire il mio saggio con una curiosità: quando nel 1512 il
Ferrante, volendo forse essere perdonato di alcune infedeltà
coniugali dalla Colonna, le scrisse il seguente motto: «Quae
peperit virtus, prudentia servet amorem». Vittoria rispose: «Conantia
frangere frangunt», cioè al: «Genera virtù prudenza che serve
amore» ella rispose: «È difficile frangere chi infrange». Si
potrà pensare: perché allora Vittoria idealizzò così tanto il
suo sposo? Perché anche il musicista Riccardo Wagner fu ispirato,
per la sua Isotta, dalla dolce Matilde, appassionata di musica è
vero, ma ligia ai suoi doveri maritali, alle prese con i parti e
gli allattamenti! La fantasia del poeta deforma la realtà, ma è
necessario, poiché abbiamo bisogno tutti di sognare, e i sogni
non ci lasciano mai.