Angeli senza cielo
(Primo premio nella sezione Racconto)
di Tania Fonte
 
Chi fosse esattamente la vecchina conosciuta durante le sue estati a Rivello, Agnese non lo sapeva bene. Sapeva però che viveva sola, al secondo piano della palazzina in cui abitava la nonna. Erano tre anni ormai che, chiuse le scuole, il papà l’accompagnava in Lucania, ed era contenta. Più che un paese, Rivello era un presepe appollaiato su tre colli, un degradare di tetti rossi che si distaccavano distintamente dal candore delle tante casine poste l’una sull’altra, con un gusto architettonico inconfondibile, unico. Rivello era il silenzio la pace la gioia la spensieratezza era… Dio, com’era diverso dal grigiore di Milano!
 
Le piaceva percorrere le tante viuzze apparentemente tutte uguali: un labirinto snodato in un saliscendi continuo che le offriva la raffinata architettura di antichi portali o meravigliosi ed artistici balconi in ferro battuto ornati da variopinti gerani dal profumo garbatamente acre.
 
Di solito Agnese vedeva quella vecchina quando, dopo aver dipanato il filo aggrovigliato, si piegava sulla ringhiera del balcone per abbassare il paniere e acquistare la frutta o gli ortaggi  dal fruttivendolo che passava tutte le mattine dalla sua strada: si conoscevano da così tanti anni, che si erano visti invecchiare l’un l’altra. Agnese smetteva di giocare e la guardava . L’aveva studiata così tanto che ormai ne conosceva ogni gesto e ogni parola. La domanda, ogni giorno, era sempre la stessa: «Sono buone?». Uguale la riposta: «Buonissime. Mi raccomando. Stia tranquilla». La incuriosivano la capigliatura folta e bianchissima che assomigliava tanto alla criniera di un leone e gli occhi gialli nel volto smunto di donna scarna. Indossava sempre delle vestagliette a fiorellini, linde e pulite. Quanti anni poteva avere? Sessanta? Settanta? Ottanta?
 
Prima di rientrare, innaffiava le piantine di basilico e di mentuccia che teneva sul balcone, e non mancava mai di soffermarsi ad ammirare il panorama, un quadro immerso nel verde costante delle querce e degli ulivi che con il loro ondeggiare movimentavano un paesaggio che sembrava assopito.
 
Quando i loro sguardi s’incrociavano, si dicevano ciao e si scambiavano un sorriso. Ma un pomeriggio la nonna la condusse in visita da lei. Le fece accomodare nella stanza da pranzo, una camera all’estremità dell’apparta-mento, dietro la cucina, per raggiungere la quale si dovevano attraversare tutte le stanze messe in fila, prive di corridoio. Prima di sedersi la vecchina sollevò dal tavolo un centrino con un uncinetto e riprese il lavoro interrotto, senza guardarlo.
 
Le due donne parlavano e parlavano, ma Agnese non prestava attenzione ai loro discorsi: si guardava intorno incantata dalle innumerevoli bambole sparse qua e là. Ce n’erano sullo sparecchiatavola dentro la vetrinetta sopra una mensola… di tutte le dimensioni e delle fogge più disparate. «Posso guardarle?» chiese d’un tratto con voce sommessa. «Che cosa?» rispose la vecchia signora come se non avesse capito. «Le bambole… da vicino…». «Va bene, … puoi guardarle».
 
Agnese si alzò di scatto dalla sedia e si avvicinò pian piano ad ogni bambola della stanza. Le guardò a lungo, a bocca aperta: erano tutte molto belle, ma quella che le piaceva maggiormente era di cera. Tendeva le braccia nude e sorrideva con le labbra rosee che lasciavano intravedere i denti piccoli e perfetti, bianchissimi.
 
La signora, pur continuando a parlare e a lavorare ad uncinetto, non le staccava gli occhi di dosso. Se toccava il vestito o i capelli e lo scarpette delle bambole, i suoi occhi seguivano lenti e attenti i movimenti della sua mano. Uno sguardo continuo instancabile che avrebbe messo chiunque a disagio. «Posso andare di là?» chiese all’improvviso la bambina, più piano di prima. «Di là… dove?». «Ne ho viste delle altre… in salotto e…». «Sì» rispose la vecchina sbarrando gli occhi e congiungendo l’indice e il pollice della mano, quasi per pesare le parole che stava per dire. «Ma stai attenta!». «No, non le tocco», promise Agnese in un soffio, «le guardo solamente». «Va bene».
 
Entrò in salotto in punta di piedi, come se temesse di disturbare. Su un divanetto rivestito di broccato azzurro giacevano composte due bambole inglesi del periodo vittoriano con la testa di porcellana, i lineamenti delicatamente dipinti, le parrucche di capelli veri. Erano sontuosamente vestite di velluto, e seta e pizzi e nastri e pietre semipreziose arricchivano i loro abiti. Su una poltroncina ce n’era un’altra che sul vestito portava un grembiulino dipinto a motivi floreali e sul capo un fiocco di taffettà grande quanto un aeroplano. Poggiata su un’angoliera stile liberty faceva bella mostra una bambola di lenci col suo bell’abito azzurro e verde, costellato di papaveri rossi. I boccoli biondi erano seminascosti dal cappellino di paglia ecru.
 
La bambina si diresse lentamente nella camera da letto avvolta nella penombra, si fermò ammirata: al centro del letto matrimoniale le sorrideva la bambola più grande che avesse mai visto. Pareva una bambina, tanto i lineamenti del viso roseo liscio immacolato erano perfetti. Si avvicinò pian piano, gli occhi spalancati, il cuore che le batteva forte, allungò le mani, la prese e la baciò, la strinse a sé, quando dall’altra stanza, come se l’avesse vista, sentì gridare: «Non la toccare! Attenta! Perché, sai che succede se la fai cadere? Si rompe!». «Agnese, vieni qui!» la richiamò la nonna severamente. La bambina posò immediatamente la bambola, la ricompose nell’atteggiamento abituale, accomodò svelta il suo vestito, si avviò alla porta, ma prima di uscire si girò a guardarla, sorrise e poi tornò indietro di corsa.
 
Le due donne le puntarono gli occhi addosso. «Come mai ha tante bambole?» chiese ignorando il loro sguardo. Ansimava. «Non erano mie». «E di chi erano?». «Erano di mia zia Concetta ch’era una sorella di mia nonna». «Ah» fece la bambina. «Gliele aveva regalate morendo una baronessa inglese che ha servito fedelmente per tanti anni, fino all’ultimo. E pure questa casa le ha donato». «Ah» ripeté la bambina. «La zia le ha lasciate a me, le bambole, insieme alla casa e a tutto il resto». «Ah» disse ancora Agnese. E non aggiunse altro. Ma sulla porta, al momento di accomiatarsi, chiese: «Ma lei, ...come si chiama?». «Rosaria, ma mia zia mi chiamava Rossella per via che una volta avevo le guance sempre colorite, come una rosa. Da allora sono rimasta Rossella per tutti». Agnese sorrise. «Ciao, signora Rossella», disse, «e grazie». «Signorina... sono signorina: non mi sono mai sposata. Senti, ...vieni a trovarmi, quando vuoi». E porgendole la mano grande e legnosa, coperta di rughe aggiunse: «Ti farò giocare con le bambole». La nonna non disse niente.
 
Da quella volta la piccola prese l’abitudine di andarla a trovare. Le piaceva stare con lei: i suoi racconti la incantavano. La musica delle sue parole era dolce per le sue orecchie. Ogni giorno,  a piccoli sorsi, beveva la sua storia. Aveva solo otto anni Agnese, ma nonostante la giovanissima età, era matura e in grado di scoprire certi tratti nascosti del suo animo, anche se in maniera vaga e indistinta. Un giorno le chiese a bruciapelo: «Ma lei perché andò ad abitare con sua zia? Perché non rimase con la sua mamma?». E mentre lo chiedeva pensava a sua madre.
 
La vecchina rispose che la madre l’aveva affidata da piccola a quella zia, che non aveva figli, per aver in casa una bocca in meno da sfamare. La zia Concetta le voleva bene, certo, ma questo bene non poteva colmare il senso di abbandono che sentiva nel suo animo. In famiglia andava nelle feste a mangiare, ma in famiglia non si parlava mai del raccolto andato a male o delle malattie o del padre che andava a bersi all’osteria quei quattro soldi che guadagnava. «In famiglia si taceva. Almeno davanti a me» considerò amara. «Guardando mia madre fissarmi con sguardo vuoto, mi veniva da gridarle: ‘Ma io, ti manco io?!’ Non vedevo l’ora di andarmene da quella casa che sentivo estranea, al contrario di quella della zia tanto più calda confortevole familiare...». «Ci credo» meditò la bambina. Tornò a pensare a sua madre e si sentì invadere dalla tenerezza.
 
«Mai un gesto affettuoso, mai una confidenza... solo un bacio affrettato al momento di salutarci. S’era formata come una crepa nel mio cuore». Agnese l’ascoltava in silenzio e si straziava per la solitudine che le leggeva dentro. «Mia madre» continuò la signorina Rossella, «mio padre, le mie sorelle e i miei fratelli non avevano la minima idea di chi fossi realmente, e quale fosse la mia vita. È la zia che mi ha fatto da madre, come... come io ho fatto da madre alle mie bambole».
 
«Lei vuole molto bene alle sue bambole...». «Si, perché... perché  mi tengono buona compagnia, e non mi hanno mai tradita». «La nonna dice che non bisogna affezionarsi troppo alle cose, dice che è molto meglio legarsi alle persone...». «È giusto. Ma quando si è soli e non ci vuole bene nessuno...». «La nonna dice che le bambole non hanno anima, che sono angeli senza cielo...». «È giusto pure questo ma, a volte, nel mare infinito della solitudine, si ha bisogno anche di angeli senza cielo, bambina mia.
 
Per un momento restarono in silenzio. «Ma lei...», chiese all’improvviso la bambina, «ma lei perché non è andata a vivere in famiglia?...». La vecchia signorina la guardò senza capire. «Alla morte della zia, dico». «No, no! S’era spezzato qualcosa, ormai, qualcosa che non si poteva ricucire. In tutti questi anni mi sono sempre chiesta perché mi hanno mandata via... avrei potuto lavorare, come ho lavorato, per aiutare a portare la croce in famiglia, avrei potuto ricamare, lavorare ai ferri, all’uncinetto...». «Ma... non sarà che la sua mamma l’abbia fatto per darle una vita migliore?... meno stentata di quella dei suoi fratelli?». «Mah!». «Può darsi che si sia detta: ‘Un giorno mia figlia avrà pure una casa...’». «Mah! È un pensiero che non mi ha mai espresso...». «Parlavate poco in famiglia, l’ha detto lei... questo era l’errore, invece bisogna aprirsi alle confidenze, alle...». «Anche questo lo dice la tua nonna?» chiese la signorina Rossella con un sorriso bonario.
 
Agnese diventò rossa. «Sì» rispose, «ma lo dice pure la mia mamma che in famiglia bisogna raccontarsi». «Mah!... forse a quei tempi era diverso... non si usava...».
 
Era scesa la sera. In cielo s’erano accesi lontani puntini d’oro. «Io vado», disse Agnese semplicemente, «è quasi ora di cena». «Va bene. Ci vediamo domani, piccola mia. E... grazie...». «Di niente» rispose la bambina, e le regalò un sorriso.
 
La vecchina l’accompagnò alla porta e la salutò con un bacio. Attraversando le stanze si soffermò a guardare, una per una, le sue bambole alla fioca luce delle lampade che pendevano dal soffitto.
 
Avevano, le sue meravigliose bambole, un aspetto placido e sereno. «Chissà cosa sognano nel loro chiuso cuore», si disse, «chissà cosa aspettano... Siete state le uniche cose al mondo a cui ho voluto veramente bene, ...senza riserve» rifletté sottovoce.
 
Ripensò al colloquio avuto con la bambina e sentì dentro di sé una serenità nuova, mai sperimentata prima, e subito dopo: «Chi avrà cura di voi», si domandò inquieta, «quando non ci sarò più io?». E poi, come se si fosse accesa in lei una luce improvvisa disse piano: «Ma forse... forse...».
 
Il suono del campanello la strappò ai pensieri che le mulinavano nel cervello. Era Agnese. «La nonna chiede se le può raccogliere qualche fogliolina di mentuccia dalla sua piantina..., sa, sta preparando la zucchina ad agrodolce…».
 
«Le lascio a te le mie bambole...», sussurrò, «…quando muoio».