Giovanna di Napoli
di Alfredo Mariniello
 
Il regno di Giovanna I, il peggiore nella storia del Mezzogiorno d’Italia, ebbe origine dal fallimento del disegno politico di Roberto d’Angiò. Questi aveva designato alla successione del Regno di Napoli suo figlio Carlo, duca di Calabria, dalle nozze del quale, nel 1326, nacque Giovanna e l’anno dopo nacque Carlo Martello, che morì pochi giorni dopo la nascita. Il 9 Novembre dello stesso anno, per infermità di febbre presa ad uccellare morì anche il duca di Calabria, lasciando sua moglie incinta di un’altra femmina, Maria.
Giovanni Boccaccio, allora a Napoli, alla corte angioina, scrive che il re Savio vide spirare il figlio con viso e parole ed animo nobile, ed il Petrarca attesta che quel giorno il re attese alle cure dello Stato con imperturbabile serenità e poi tenne ai nobili e al popolo un eloquente sermone scritto per circostanza. Ma nella Cronaca di Partenope si legge che alla notizia della morte del duca di Calabria el povero padre gridava a li baruni del Regno: Cecidit corona capitis mei! Vae nobis, vae mihi, ed anche se tanta disperazione certamente venne ricreata nella tradizione cronistica della successiva crisi del paese, appare credibile che il sovrano privo di eredi maschi, avendo come dirette discendenti due bambine, antivedesse i pericoli che incombevano sul regno e la famiglia.
Disperando ormai di poter avere altri figli suoi e della regina Sancia, ma volendo tuttavia escludere dalla successione il fratello Filippo e il di lui figlio Roberto, per evitare l’insorgere di conflitti tra i principi di Taranto e il ramo angioino d’Ungheria, nel 1330 Roberto proclamò una erede nella successione, la nipote Giovanna, primogenita del defunto duca di Calabria, e in mancanza di questa la sorella Maria. Il 19 novembre 1333 diede Giovanna (allora di sette anni) in moglie ad Andrea (di sei anni) figlio di Caroberto re d’Ungheria. Ma il vero matrimonio, nella circostanza del quale avvenne anche l’incoronazione, fu celebrato il 14 agosto 1342, allorché Giovanna aveva sedici anni e Andrea quindici.
Il 16 gennaio 1343 il re dettò il suo testamento, confermando la successione per la nipote Giovanna e, volendo dare un segnale di immutabilità dello Stato, istituiva un consiglio di reggenza che avrebbe retto la vecchia burocrazia, rinunciando a qualsiasi tutela papale per la nipote. Analogamente a quanto fatto da lui, che aveva regnato da solo senza ammettere i fratelli al governo, Giovanna avrebbe regnato da sola, senza ammettere al governo né i cugini né il marito. Cominciò così, per il regno di Napoli, un’età di torbidi e di decadenza che sarebbe durata tutto l’arco della travagliata vita e anche oltre la morte della regina.
Il primo intrigo fu lo strangolamento di Andrea d’Ungheria, consorte della regina, nella residenza di Aversa, per volere o almeno col consenso di Giovanna I. Il delitto provocò le ire del popolo che il 6 marzo 1346 diede luogo a una sommossa pilotata dagli emissari del papa e degli ungheresi, mirante a far arrestare gli assassini di Andrea. I tumulti vennero severamente contrastati dagli armigeri della regina e il promotore, Tommaso de Jaca, fu ucciso da Enrico Caracciolo, amante di Giovanna.
Luigi di Taranto, cugino di Giovanna e uno dei numerosi amanti che ne condividevano i favori, presa in pugno la situazione, il 15 agosto 1347 si insediò nella reggia con il suo seguito, annunciando il prossimo matrimonio con la regina. Le nozze vennero celebrate il 9 Settembre e in tale circostanza Luigi di Taranto fu nominato vicario generale del Regno.
Conseguenze ancor più funeste ebbe nel 1348 la spedizione di Ludovico, re d’Ungheria, che, per vendicare l’uccisione del fratello, occupò la città per alcuni mesi. In questo fu agevolato anche da una delegazione napoletana che l’11 gennaio 1348, allorché egli sostava a Benevento prima di penetrare nella città di Napoli, si recò a portargli omaggio riconoscendolo come nuovo Signore del Regno. A tale notizia i principi si sbandarono e Giovanna, da tutti abbandonata, con due galee che erano allertate in permanenza nella rada di Bagnoli, salpò alla volta di Provenza per cercare rifugio tra i sudditi francesi. Qui fu raggiunta dal consorte, mentre Ludovico d’Ungheria che aveva assaltato Castelnuovo, non trovando la regina, fece saccheggiare il castello fino a renderlo praticamente inabitabile.
Nell’agosto 1348 Giovanna e Luigi ritornarono a Napoli. Ben presto iniziarono i conflitti in quanto Luigi rifiutando di essere re solo nominalmente, finì per assoggettare la moglie ad un’umiliante situazione di apparente parità, ma in realtà costringendola a disinteres-sarsi delle cure dello Stato. Dopo dieci anni di rivolte ed intrighi, la notte tra il 25 e il 26 maggio 1362, Luigi, già ammalatosi a più riprese dal 1359, morì per malattie veneree o per aver contratto la peste.
Giovanna, sola, in un momento in cui le condizioni del regno erano poco meno che disastrose, intenzionata a riprendere l’esercizio del potere, decise di sposare Giacomo III di Maiorca, nipote della defunta regina Sancia. Da questi ella sperava di ricevere un erede al trono (il primo figlio maschio, avuto da Andrea, nato il 24 dicembre 1346 era morto poco dopo) e l’aiuto nella difesa dei suoi domini. Ma anche questo matrimonio fallì poiché Giacomo, vissuto per quattordici anni prigioniero degli Aragonesi, manifestò ben presto ambizioni al trono e segni di follia, al punto che Giovanna dovette isolarlo, finché egli non decise di lasciare Napoli e andare a combattere in Spagna, dove morì nel 1375, mentre in un aborto Giovanna perdeva ancora un altro figlio.
Fu papa Gregorio XI a scegliere per lei un quarto marito: Ottone di Brunswick, nobile capitano di ventura, cinquantenne e quindi coetaneo di Giovanna, che senza avanzare diritti sul regno, doveva garantire la difesa e mantenere l’alleanza col papato. Qualche anno dopo però la regina finì tragicamente perché coinvolta nella vicende dello scisma d’Occidente, che videro in conflitto il papa Urbano VI e l’antipapa avignonese Clemente VII. Dopo aver parteggiato inizialmente per Urbano, prese posizione a favore di Clemente, inimicandosi ancora una volta il popolo, che restò schierato per Urbano VI. Con una bolla papale, urbano VI la condannò come scismatica e, per spodestarla, offrì la corona del regno di Napoli a Carlo di Durazzo.
A nulla valse l’aiuto da lei impetrato a Luigi d’Angiò, fratello del re di Francia, appoggiato da Clemente VII, che lei adottò nominandolo suo erede. Carlo di Durazzo avanzò su Napoli vincendo la resistenza opposta da Ottone di Brunswick, che fece prigioniero. Inoltre fece prigioniera la sorella Maria e relegò Giovanna nel castello di Muro Lucano, dove il 27 luglio 1382 la fece assassinare da quattro sicari che la soffocarono nel letto con dei cuscini.
Si concluse così il lungo regno di Giovanna I che, oltre ad essere travagliato dalle vicende politiche, venne funestato, anche da altri disastrosi eventi quali tempeste, brigantaggio, terremoti, carestia e peste.
Molti antichi eruditi furono indulgenti con lei. Gli storici e Costanzo Summonte recavano i quattro matrimoni consecutivi come prova della sua sollecita cura di conservare la propria castità. Ben diversa, invece, fu l’opinione di storici denigratori quali, ad esempio, il Collenuccio, che tenne particolarmente a sottolineare la sensualità della regina. A suo dire l’assassinio di Andrea venne perpretato perché detto Andreasso, ancor che fusse molto giovine, non era ben sufficiente a le opere veneree, come lo sfrenato appetito de la regina aria voluto. E l’orrenda mutilazione inferta ad Andrea dopo il furioso attacco di numerosi sicari sembrerebbe dar ragione allo storico. Dopo essere stato ucciso, di fatti, Andrea fu appiccato con cieca furia per i piedi e per i genitali, con la conseguenza di un’orrenda lacerazione al basso ventre. In quanto al secondo marito il Collenuccio ne spiegava la morte per l’eccessivo inordinato e frequente uso de le cose veneree con la regina di quella sola cosa era vaga;
Il popolo, infine, la vide come l’incarnazione di una sorta di vizio e talvolta, confondendola con l’altra Giovanna (la II, sorella di re Ladislao), ne stigmatizzò il nome a significare ogni lussuriosa e sanguinosa figura-zione, attribuendole luoghi muniti di trappole, profonde fosse armate di lame, che lei avrebbe prescelto per disfarsi degli amanti di basso lignaggio che dopo aver soddisfatto le sue voglie diventavano testimoni ingombranti: il fosco Castelcapuano, il Palazzo Donnanna a Posillipo, il Bagno della regina Giovanna a Santa Maria della Fede, il Palazzo di Poggioreale, il Palazzo della regina a Portici (il grande ed antico edificio in piazza San Ciro chiamato popolar-mente la Comune Vecchia), la Torre di Amalfi, il Castello nei pressi di Nocera, il Bagno di Sorrento.
Sebbene siano false molte di queste attribuzioni, dal momento che esse alimentano anche diverse leggende provenzali, sembrano suffragate in qualche modo le turpi vicende della sua turbolenta vita. Giovanissima, all’ombra dell’avo che l’aveva prediletta, nella corte di Castelcapuano o nell’ospizio suo particolare, ebbe una vita gaia e spensierata, se si eccettua l’educazione monacale che solitamente si riservava alle principesse e alle giovani donne di alto rango. Tale sorta di istruzione produsse soverchia bigotteria, eccessiva sobrietà e castigatezza di costumi, e certamente non dovette essere estranea al successivo amore dei belletti e del lusso e alle esuberanze di sensualità.
Più tardi, né grassa né macra, bella, el vixo tondo, la si ammirò mentre a cavallo attraversava la città splendidamente vestita, diretta col suo corteggio a Pozzuoli e a Bacoli, o ad Aversa, o alle falde del Vesuvio e a Quisisana. Per il resto la regina, inesperta delle cose di governo e intimamente debole, si rammaricò di non essere nata uomo e agì come le sue capacità le permettevano. Così ce la presenta Fazio degli Uberti in una canzone che descrive il reame di Napoli:
Non v’è re, ma reina,
giovane e bella, e guida la contrada:
molto è gentil, ma non sa della spada.
Sulla sua fragilità di donna, oltre agli eventi esterni, ebbero ragione le stesse vicende private e familiari, e l’azione sobillatrice delle varie camarille di corte. Sicché, mentre col governo di re Roberto il regno di Napoli ebbe un peso politico sulle vicende italiane e fu un centro di cultura che pervase l’intera corte e attrasse ingegni di altre contrade, con l’illetterata Giovanna I il regno rimase privo di ogni stimolo di cultura e si caratterizzò per la passiva sottomissione agli eventi, il disordine della corte e del paese, le invasioni nemiche, le depredazioni dovute al brigantaggio e alle compagnie di ventura, la scarsa azione della feudalità.
Pienamente inserita nel costume napoletano e corrisposta dalla popolazione che la considerava sovrana naturale, fra la regina e la città si stabilì una reciprocità di sentimenti che si manifestava nell’appassionata partecipa-zione del popolo alle sue vicende domestiche e a quelle della corte, accettandole o rimproverandole, ma sempre sentendole, sia liete che tristi o addirittura tragiche, come problemi della vita cittadina. 
Di lei non esiste più alcun ricordo in Napoli. La tomba che le si attribuisce nella chiesa di Santa Chiara non ospita le sue spoglie che giacciono in ignoto loco. Tra gli affreschi della chiesetta dell’Incoronata, nella scena del matrimonio c’è un ritratto della regina, ma esso è tipico e non individuale, e sul mausoleo di re Roberto c’è una piccola figura in rilievo con la scritta Regina Iohanna. Ma le vere fattezze si possono osservare nella figura miniata insieme a quella di Luigi di Taranto, suo secondo marito, nel codice sincrono dell’Ordine dello Spirito Santo, unico ritratto autentico finora.