Placido Petino: il narratore di una Sicilia nuova
di Angelo Manitta
 
Quando uno scrittore presenta nelle proprie opere novità sostanziali, stilistiche e contenutistiche, allora con facilità si accattiva la simpatia del lettore, soprattutto se la narrazione è personalissima. È questo il caso di Placido Petino, romanziere e avvocato catanese, già docente universitario di materie giuridiche. Dopo le sue prime esperienze narrative con “Cerze di Sicilia e altri racconti” (1992) e “Nelle notti di San Giovanni” (1997), nel 1998 pubblica uno dei suoi primi romanzi, “La terra della malerba”, fuoriuscendo dal panorama usuale degli scrittori siciliani. Sulla stessa scia vanno i romanzi “L’anno del diavolo” (1999), “Alla corte dell’imperatore” (1999), “Kalsa (Al Halisah. L’Eletta)” (2000), e probabilmente anche i due in fase di pubblicazione, l’uno dal titolo “Koma” e l’altro “Un giorno come un altro”, che saranno in libreria entro la fine di quest’anno.
Ogni scrittore siciliano, da Verga a De Roberto, da Pirandello a Sciascia, da Tomasi di Lampedusa a Capuana, per non parlare del più recente Andrea Camilleri, è sempre partito dalla Sicilia, dai suoi problemi e dalla sua società per approdare ad una universalità espressiva e concettuale. E la Sicilia è il punto di partenza anche per Petino, una Sicilia che non si identifica però con la mafia (come ad esempio in Sciascia o Camilleri), che non si identifica con il mondo contadino che a stento sbarca il lunario (vedi Verga o Capuana), e neppure con la crisi di alcune classi sociali siciliane (De Roberto o Tomasi di Lampedusa) e neppure con i personaggi di Luigi Pirandello che stanno in bilico tra una società contadina (le prime esperienze letterarie) e una società borghese (le opere maggiori). Se l’arte e la lettera-tura, come è mia personale convinzione, non sono altro che una sincresi delle esperienze letterarie precedenti, le opere di Placido Petino possono ritenersi un classico esempio di sincretismo letterario, in cui autori si confron-tano e si intersecano, dando origine ad una nuova visione dell’Isola. Infatti i quattro romanzi sono un grande affresco della Sicilia “affarata”, cioè bruciata dal sole, vista in periodi storici diversi, ma collegati idealmente tra di loro, presen-tando quasi in un continuum una evoluzione storico-sociale a partire dal Settecento, epoca di violenta e fanatica dominazione spagnola (La terra della malerba), per passare alla questione del brigantaggio (L’anno del diavolo) e giungere ad una Sicilia dominata dalla mafia (Alla corte dell’imperatore) e ad una Sicilia dove si riescono a fare originalissimi esperimenti fantascientifici (Kalsa).
Dalla lettura dei romanzi si evidenzia comunque una progettualità narrativa ampia e complessa, che trova il suo comune filo conduttore nello stile e nella lingua. Ogni scrittore il primo problema che si pone è quello della lingua. Tra i siciliani, c’è chi lo risolve con un lessico dialettale, come Verga, chi con un vocabolario dialettale trasposto in lingua, come Stefano D’Arrigo, chi con una lingua che tiene presente le caratteristiche del dialetto e la mentalità dell’isola, come De Roberto o Capuana. Placido Petino invece utilizza un lessico che è felice compromis-sione tra lingua e dialetto, un lessico razionale e colto che sa assumere caratteristiche popolari, intendendo però «evitare la discesa manieristica nella mimesi stilistica delle varie voci per indirizzarsi verso una personale omogeneità linguistica» scrive Sebastiano Leotta. E di questo il Petino ne è pienamente cosciente. Infatti nella premessa a “La terra della malerba”, romanzo ambientato all’epoca del «Tribu-nale Tristo del Santo Uffizio», scrive: «Mi affascinava anche un antico linguaggio, a volte ricco della tracotanza del potere, e volte semplice, com’è l’animo povero ed ingenuo del villanaggio». Ogni personaggio non appare estrapolato dal suo contesto, forse perché l’espressività tiene conto della realtà socio-ambientale in cui egli si muove. La lingua spesso si cala nel tempo, con termini tecnici o disusati (come robbe, serviziare, delli usuari, inlegittimi), ma la lingua assume una dimensione personale se è il personaggio a parlare. Mariannina, una ragazza semplice che sarà condannata al rogo, utilizza un dialetto misto a frasi italiane, mentre il priore del convento della Chiusa sfoggia un linguaggio colto e controllato. Eppure il dialetto ed alcune sue forme sintattiche appaiono evidenti in tutti e quattro i romanzi, come ad esempio la posposizione dell’aggettivo al sostantivo o la collocazione del verbo alla fine della frase, tecnica utilizzata sia per qualificare i perso-naggi, che il narratore. Nel primo, “La terra della malerba”, è una donna che racconta, con la tecnica del flash-back, eventi avvenuti al tempo del «padre del nonno del nonno mio». Ne “L’anno del diavolo” a raccontare è invece un vecchio, mentre un ragazzo ascolta una storia di briganti, ma soprattutto di povertà e di miseria. In “Alla corte dell’imperatore” ritorna ancora una volta la figura del narratore che, mentre viene rinchiuso in una buia prigione, recupera il passato dallo scrigno della memoria. La figura del vecchio ricompare infine nell’ultimo romanzo, “Kalsa”, dove un anziano racconta, ad altri ospiti di un ricovero, una stranissima vicenda avvenuta al tempo della dominazione araba in Sicilia e rivissuta attraverso una particolare ‘macchina del tempo’.
Ma nei romanzi di Petino è la psicologia dei personaggi, riletti attraverso la memoria, ad essere messa in evidenza con un lavorio di scavo interiore, sia che si tratti del narratore della vicenda, sia che si tratti dei personaggi che vi prendono parte, mentre il linguaggio, benché unitario ed organico, è adeguato alle varie epoche in cui sono ambientate le vicende. Il più moderno di tutti in questo senso appare “Kalsa”, romanzo che si sviluppa su due piani narrativi: quello della società tecnologica ed informatizzata e quello della rilettura di una società ed un’epoca ormai scomparse. In esso il narratore, che sottostà all’esperimento di un’estroversa e quanto mai originale figura di scienziato, compie una ricerca mistica e personale di conoscenza. Qui il linguaggio assume tonalità “pornografiche” quando l’azione è riferita al presente, mentre nell’esperienza fantastica, nella reincarnazione del narratore in un arabo siciliano, le pornolalie scompaiono totalmente, quasi a voler indicare una purificazione dalle brutture del mondo. «Potrai accogliere le gemme della saggezza solo quando la tua anima sarà tornata limpida e netta. Sulla stessa, allora, ma solo allora, potranno essere incastonate le più pure e splendenti pietre preziose». Se queste semplici riflessioni mettono in evidenza le caratteristiche peculiari della narrativa di Petino, avremo in seguito certamente occasione di conoscere nei dettagli i vari romanzi.