La salvezza degli infedeli nel pensiero di
Dante Alighieri
di Santino Spartà

Il limbo (cap. II)

 

La fede se ha comunicato le proporzioni metafisiche del Limbo, si è però mantenuta sino ad ora in un aristocratico silenzio per quanto riguarda la sua ubicazione.

La topologia fisica del Limbo si trova solamente nella dottrina ebraica(1) e nella teologia medievale(2). A questa tesi si attenne Dante per l’architettura materiale del primo cerchio dell’inferno. Così Dante, come S. Tommaso, pone il Limbo in un luogo profondissimo, sottoterra e lo ritiene
il primo cerchio che l’abisso cigne(3).
Nello stesso spazio ideale del Limbo, il poeta in armonia con l’Angelico(4) distribuisce
pargoli innocenti
dai denti morsi della morte avante
che fosser da l’umana colpa esenti(5)
e l’ombra del primo parente cogli altri giusti(6). Né deve essere di meraviglia se nel Limbo dei Padri che era «in superiori loco et minus tenebricosum», rimasto vuoto per la redenzione e la discesa di un
possente
con segno di vittoria coronato(7)
viene trasformato dall’arte dantesca nel nobile castello, dalla luce elegiaca, per dare una sistemazione ideologica agli spiriti dell’antichità essendo gente di molto valore(8) e a coloro che delle
                                                             tre sante
virtù non si vestiro, e senza vizio
conobber l’altre e seguir tutte quante(9).
La colpa degli abitanti del Limbo sta nella mancanza di fede. Per quelli che
furon  dinanzi al Cristianesimo
non adorar debitamente a Dio(10)
a differenza dei santi Padri dell’antico testamento e del troiano Rifeo(11); per quelli invece che vissero dopo la realizzazione dell’economia redentrice di Cristo pur
s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesimo,
ch’è porta de la fede(12);
solamente per il peccato originale «non per altro rio semo perduti»(13) fa dire al buon maestro nel segreto del suo peccato tormento. La malinconia di Virgilio, mentre nella sua Eneide sembra avere una partecipazione sentimentale al dramma dei bambini «dulcis vitae exsortis et ab ubere raptos»(14), nell’inferno dantesco si arricchisce paradossalmente di quella personale esperienza che lo rende «tutto smorto e sensibilissimo all’angoscia delle genti». Agli spiriti del Limbo, Dante assegna conforme a S. Tomma-so(15) la privazione di vedere Cristo(16).
La coscienza di aver perduto il cielo(17), e il vano anelito di raggiungere Dio(18) costituisce l’attualità spiri-tuale del loro tormento
ch’eternalmente è dato lor per lutto (19).
Tale sofferenza che non è lieve(20) come ritiene il Barbi e il Getto(21) non si manifesta con «pianto»(22) ma con lamenti che «non suonan come guai»(23). Dante pur non dando pene materiali ma un luogo avvolto «di tenebre solo»(24) per esprimere la mancanza della grazia, suppone tuttavia differentemente da quando pensa l’Angelico(25). Si avverte tuttavia, dietro una attenta diagnosi esegetica che «la speranza cionca»(26) nelle
turbe, ch’eran molto grandi
d’infanti e di femine e di viri(27)
si manifesta così intensamente che
l’aura eterna facea tremare(28);
mentre nel nobile castello l’interiore conflitto è dominato dalla forza dell’animo, espresso con l’efficacia realistica nella proporzionalità antitetica del verso «sembianza avean né trista né lieta»(29), e nella pensosa compostezza della terzina
               genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.

La creazione del Limbo, indubbiamente, trova nella fantasia dantesca una sua validità oggettiva, senza però rimanere esclusa nella giustificazione degli spiriti magni. Per loro Dante si accinge ad erigere un tempio ideale(30) di classica architettura, per restarne poi compiaciuto dall’ossequio umanistico consapevolmente offerto.

Alla costruzione hanno collaborato, nelle dimensioni richieste dall’arte, la Bibbia(31), la Scolastica(32), l’Eneide(33), e l’Etica Nicomachea(34), che fusi dalla vigorosa sintesi poetica danno un movimento liricamente armonioso. Dentro un controllato limite di sobrietà, si staglia non senza imponenza la visione plastica del nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura
difeso intorno d’un bel fiumicello(35);
e la «lumiera»(36), con la mistica serenità del verde prato. L’ambiente che si allarga nell’apertura poetica di un luogo «luminoso e alto»(37) riverbero allusivo all’Eneide(38), è preparato senza dubbio per un «appuntamento con la virtù intesa nella pienezza del significato»(39). È la nobiltà(40), ormai tratta dall’involucro si presenta con le quattro virtù cardinali e le tre intellettuali «delle quali è seme»(40), senza il fascino delle ricchezze(41), sostenuta dalla fama «proemium virtutis»(42), e però chiusa nella limitatezza della ragione. S’intuisce subito che Dante con questa opinione si allontana coscientemente dalla tradizione teologica cristiana per rispondere ad una concezione etico-poetica. Sembra troppo severo quindi il giudizio di S. Antonio vescovo di Firenze(43), essendo il poeta per il resto in piena ortodossia e accogliendo quella opinione teologica più rispondente alla finalità del suo poema. Egli descrive con «fedeltà dogmatica» la discesa al Limbo(44) la liberazione di Adamo
l’anima prima
che la prima virtù creasse mai (45)
di Abele e di Noè, di
quel duca sotto cui visse di manna
la gente ingrata, mobile, e ritrosa(46),
del patriarca Abramo, del
cantor che per doglia
del fallo disse: «Miserere mei»(47),
di Giacobbe
con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele per cui tanto fè,
e altri molti e fece li beati (48),
costituisce «la gran preda di Cristo tolta a Dite»(49).

Nel Limbo dopo la redenzione sono rimasti i bambini morti senza battesimo(50), accettando il poeta la tesi tradizionale(51). Sono privi della visione beatifica(52) ma «gaudebunt de hoc quod partecipabunt multum de divina bontate et perfectionibus naturalibus»(53).

Né è falsa la posizione di quegli adulti nel Limbo dantesco che solamente delle
tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l’altre e seguir tutte quante(54).

Non è sostenuta da S. Tommaso(55), ma ha incontrato le simpatie del celebre Gregorio di Valenza(56) mentre il magistero ecclesiastico si è mantenuto in una prudente imparzialità. Per gli spiriti magni che non hanno osservato tutte e non sempre le virtù cardinali, il titolo di appartenenza al nobile Castello deve essere cercato in una completa ammirazione del poeta.

 
 
 
 
(1)La «Scheol», dimora dei defunti, comprendeva due limiti: l’inferiore che conteneva i perduti tra sette abissi di tenebre e fuoco eterno, il superiore che raccoglieva i giusti in attesa della Redenzione. Cfr. Gen. 37-38; Sal. 85-13; 88-49; Job. 7,9; 26,5.
 
(2) Specie S. Tommaso, S. Th. P. III, Suppl. 9, q. XIX, a. I/6; De malo, q. V.
 
(3) Inf. IV, 24. Cfr. S. Th. Suppl. q. LXIX, a. 6.
 
(4) «Sed quantum ad situm, probabiliter creditur utrorumque mocus idem fuisse nisi quod Limbus patruum erat in superiori loco quam Limbus puerorum». S. Th., Suppl. q. LXIX, a.6.
 
(5) Purg. VII, 31-33; Inf. IV, 30; Par. XXXII, 83-84.
 
(6) Inf. IV, 55-6.
 
(7) Inf. IV, 53-54.
 
(8) Inf. IV, 44.
 
(9) Purg. VII, 34-36.
 
(10) Purg. VII, 31-33; Inf. IV, 30;
Par. XXXII, 83-84.
 
(11) Par. XX, 118.
 
 
(12) Inf. IV, 34-36.
 
 (13) Inf. IV, 40; cfr. Purg. VII, 8; Mon. II, 8.
 
 
 
 
 
(14) Aen. IV, 426.
 
 (15) De malo q. V., a. i; a. g; S. Th., Suppl. q. IXIX, q. 7.
(16) Purg. VII, 25.
 (17) Purg. VII, 8;cfr. Conv. III, 12. In questa affermazione vi è un accostamento a S. Bonaventura: L. 2 Sent. a. 33, Quest. 2 resol. (18) Inf. IV, 42.
(19) Purg. II, 42. Anche in questo Dante segue il pensiero di S. Tommaso.  “Peccato originali debetur poena perpetua”. De malo, q. V, a. I, a. 10.
(20) Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze, 1941.
(21) Aspetti della poesia di Dante, Firenze, 1947, p. 63.
(22) Inf. IV, 26.
(23) Purg. VII, 30.
(24) Purg. VII, 29.
(25) «Aliqui posuerunt quod pueri, sentient aliquem dolorem vel afflictionem interiorem ex carestia visionis divinae, licet iste dolor non habeat in is rationem, vermis coscientiae: quia non sunt sibi consii, quod in eorum potestate fuerit culpam originalem evitare» De malo, q. V, a. 3.
(26) Inf. IX, 18.
(27) Inf. IV, 29-30.
(28) Inf. IV 27.
(29) Inf. IV, 84. Ancora una volta Dante predilige S. Bonaventura, L. 2 Sent. D. 33, q. II. Resol, traducendo fedelmente le sue parole «nec tristentur».
 
 
 
(30) De vulgari eloquentia, II, 38 «que nobilissima sunt, carissime conservantur».
(31) V. nota I.
(32) V. nota 2; nota 17; nota 35.
 
(33) Eneide VII, 754-755; 640-641. (34) Si giova di questa teoria aristotelica per fare godere loro una felicità naturale.
 
 
(35) Inf. IV, 107-108.
(36) Inf. IV, 107-108
 
(37) Inf. IV, 116.
(38) Eneide IV, 754.
(39) Fallani, Teologia e Poesia nella Divina Commedia, Milano 1961, Vol. I, pag.41.
 (40) Questa interpretazione sembra raccomandarcela lo stesso poeta nel suo Convivio, IV, VI. «Se volemo riguardo avere alla comune consuetudine di parlare, per questo vocabolo nobiltà s'intende perfezione che si addice alle ‘genti del Castello’».
 
(41) Conv., IV, 16.
(42) Conv., IV, XIII; IV, XVII; cfr. S. T. 22, q. 186, a. 3, a. 4. Tutti e tre i passi del Convivio trattano in forma di esempio della «nobiltà» sostenuta dalla fama «proemium virtutis».
 
(43) Verum in hoc videretur errasse non parum, quia antiquos sapientes philosophos, poetas, retores, infedeles… describit esse in campis elisis, ubi etsi non in gloria tamen statum in tali vita, quoad illos ad coelum evolant purgati ob amni reatu in exitu suo, aut ob noxii pos purgationem ad paradisus ascendunt. Ceteri vero ad infirma descendunt, ubi nullus orbo, sed sempiternus onor inhabitat poenarum immensarum ex quibus nulla est redentio vel diminuitio vel allevatio. Arc. Flor. Summa pars III tit. 21, cap. V par. II.
 (44) Questo articolo di fede è contenuto nella Sacra Scrittura: II, 24; 22, 40; Rom. 10, 6-7. È posto esplicitamente nei simboli DB 429. San Leone Magno, nel sec. V, parla come di una verità creduta da tutta la Chiesa.
(45) Par. 26, 83; Conv. IV, 15; 3, 4; Par. 32, 136.
(46) Par. 32, 131.
(47) Par. 32, II; Purg.10, 65; Par. 25, 72.
(48) Inf. IV, 59-61.
(49) Inf. XII, 38.
(50) Per avere un panorama completo cfr. Roberto Masi. I bambini morti senza battesimo, in Osservatore Romano 21, 23, 24 Luglio 1962 pag. 3.
(51) Purg. VII, 35-33.
(52) DB. 102 nota 4; 791. 1526; S. Gregorio di Nissa, P. C. 46, 177; P. Lombardo II Sent. d. 33, q. I a. 2.
(53) Summa Th. II Sent. d. 33, q. II, a. 2.
 
(54) Purg. VII, 35-37.
 
 
(55) De Ver. q. 24, a. 12 ad 2; ivi q. 38, a. 3; II Dist. 28, a. 3 ad 5; Dist. 42, q. I, a. 5 ad 7; De malo q. V, a. I ad 8; ivi q. VII a. 10 ad 8.
 
(56) In S. Th. 12 q. 89 t. 2