ALBIO TIBULLO
 
Note dominanti della poesia di Albio Tibullo, vissuto nel I secolo a.C., sono l’amore, la pace e l’odio verso la guerra. Il suo animo sensibile e meditativo è profondamente nostalgico. Il rifiuto della politica lo spinge a vivere nella tranquillità agreste, ma non a rifiutare i piaceri  mondani.
Elegiae I, 10
Quant'è bella la pace!
(trad.  Angelo Manitta)
Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
tum brevior dirae mortis aperta viast.
A nihil ille miser meruit! Nos ad mala nostra
vertimus, in saevas quod dedit ille feras.
Divitis hoc vitium est auri; nec bella fuerunt,
faginus adstabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
securus varias dux gregis inter oves.
Tunc mihi vita foret dulcis, nec tristia nossem
arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
haesura in nostro tela gerit latere.
Sed patrii servate Lares: aluistis et idem,
cursarem vestros cum tener ante pedes…
Quis furor est atram bellis arcessere mortem?
Imminet et tacito clam venit illa pede.
Non seges est infra, non vinea culta, sed audax
Cerberus et Stygiae navita turpis aquae:
illic peresisque genis ustoque capillo
errat ad obscuros pallida turba lacus.
Quam potius laudandus hic est, quem prole parata
occupat in parva pigra senecta casa!
Ipse suas sectatur oves, at filius agnos,
et calidam fesso comparat uxor aquam.
Sic ego sim, liceatque caput candescere canis
temporis et prisci facta referre senem.
Interea Pax arva colat. Pax candida primum
duxit araturos sub iuga panda boves,
Pax aluit vites et sucos condidit uvae,
funderet ut nato testa paterna merum:
pace bidens vomerque nitent, at tristia duri
militis in tenebris occupat arma situs…
Rusticus e lucoque vehit, male sobrius ipse,
uxorem plaustro progeniemque domum.
Sed Veneris tunc bella calent, scissosque capillos
femina perfractas conqueriturque fores:
flet teneras subtusa genas, sed victor et ipse
flet sibi dementes tam valuisse manus.
At lascivus Amor rixae mala verba ministrat,
inter et iratum lentus utrumque sedet.
A lapis est ferrumque, suam quicumque puellam
verberat: e caelo deripit ille deos.
Sit satis e membris tenuem rescindere vestem,
sit satis ornatus dissoluisse comae,
sit lacrimas movisse satis: quater ille beatus
quo tenera irato flere puella potest.
Sed manibus qui saevus erit, scutumque sudemque
is gerat et miti sit procul a Venere.
At nobis, Pax alma, veni spicamque teneto,
perfluat et pomis candidus ante sinus.
Chi fu per primo ad inventare le orrende spade?
Quanto feroce e davvero insensibile egli fu!
Allora nacquero le stragi per il genere umano, allora le guerre,
allora venne resa più breve la via all’inesorabile morte.
Ah! Quell’infelice non merita nulla! Noi stessi rivolgiamo
a nostro danno ciò che egli ha inventato contro le bestie
selvagge. Questa è corruzione del prezioso oro.  Non c’erano
guerre, quando una tazza di faggio era posta sulla mensa,
non c’erano fortezze né trincee e il pastore, sicuro,
trovava sonno tra il gregge di vario colore. Per me allora
la vita sarebbe stata gradevole e non avrei conosciuto
le lugubri armi né udito la tromba col cuore in tumulto.
Ora sono trascinato in guerra e forse già qualche nemico
palleggia la lancia da infiggere al mio fianco.
Ma, o patrii Lari, proteggetemi, voi che mi nutriste
bambino, quando correvo davanti ai vostri piedi…
Che pazzia è cercare in guerra la morte funesta?
Essa ci incalza e viene di nascosto col suo tacito piede.
Laggiù non ci sono campi coltivati né floride vigne,
ma un Cerbero audace e lo spregevole nocchiero delle acque
Stigie. Là, con le gote corrose e con i capelli bruciati,
una pallida schiera vaga presso le tenebrose paludi.
Ah! Quanto è preferibile qui colui che trascorre la sua
vecchiaia insieme alla prole in una piccola casa!
Egli sta dietro al suo gregge, mentre il figlio accudisce
agli agnelli e la moglie prepara, per lui stanco, acqua calda.
Così possa vivere io, col capo bianco come la neve, e possa, ormai vecchio, correre con la memoria al tempo antico.
Intanto la Pace renda floridi i campi. La bianca Pace dapprima
ha spinto i buoi ad arare dopo averli domati col curvo giogo.
La Pace ha nutrito le viti ed ha conservato il succo dell’uva
affinché la coppa paterna versasse buon vino al figliolo.
La Pace rende fulgidi i vomeri e le zappe, mentre la ruggine
copre nelle tenebre le tristi armi del duro soldato.
Il contadino, con la mente annebbiata, conduce col carro
fuori dal sacro bosco, verso casa, la moglie e i figli.
Allora si accendono piacevoli contrasti d’amore: la donna
lamenta i capelli lacerati e le porte infrante:
pestata, piange le tenere guance, ma lo stesso vincitore
si lagna che tanto abbiano osato le sue folli mani.
Il volubile Cupido intanto accende con crude parole la rissa,
mentre se ne sta pacifico tra la rabbia degli amanti.
Ah! È davvero di pietra e di ferro colui che maltratta
la propria ragazza: egli strappa dal cielo gli dei!
Gli basti lacerare dal suo corpo il leggero vestito,
gli basti avere sconvolto le sue chiome acconciate,
gli basti aver fatto scorrere una tenera lacrima: mille volte
felice colui che spinge al pianto, nella foga, la sua dolce
ragazza. Chi invece incrudelisce con le mani, prenda lo scudo
e la lancia, e si allontani dalla delicata Venere.
Ma tu, o Pace divina, vieni a noi, tieni per mano una spiga
e sia colma di frutta la tua candida veste.