Vanni Speranza:
sentimento d’amore tra tempo e memoria nella silloge “È stato il mare”

di Angelo Manitta

«Oh! E adesso sento che io t’amo, e che ti devo amare eternamente. Grazie, celeste creatura, grazie». Questo brano, tratto da una delle lettere più espressive ed emblematiche degli epistolari d’amore della letteratura italiana, è stato scritto da Ugo Foscolo, poeta romantico e classicista, che dell’Amore e del Bello ha saputo fare l’ideale della propria vita incarnandolo nella figura di Antonietta Fagiani Arese. Ma quanti epistolari d’amore conta la letteratura italiana? E quanti canzonieri? Basti ricordare gli Stilnovisti, Dante, Petrarca, Boccaccio, Tasso, Ariosto, D’Annunzio, Svevo, per tralasciare altri scrittori e le letterature straniere. Ma uscendo dagli alti scanni del Parnaso, quanti di noi, comuni mortali, hanno scritto lettere d’amore? Sicuramente molti, io per primo. Non capita tutti i giorni però, magari sistemando in soffitta vecchi giornali o rovistando antiche scartoffie, imbattersi, quando il sole volge al tramonto, in una lettera o in un insieme di lettere che magari si sono cercate per tutta la vita. Di chi sono? Ci si chiede. Con grande sorpresa si scopre che sono di una persona amata più di ogni altra cosa al mondo, e che gli avvenimenti della vita hanno escluso, perché «hanno tagliato nella gola i sogni». Le lettere rilette con ansia fanno riemergere la nostalgia della felicità perduta e i ricordi di una giovinezza andata. Allora ci si mette a scrivere. Nasce un canzoniere d’amore. È questo il percorso di un canzoniere particolare, breve ma intenso, di un autore contemporaneo che molto ha dato alla poesia e alla cultura siciliana: Vanni Speranza. La poesia della succinta plaquette, dal titolo “È stato il mare” (pubblicata da “Centro Ricerche Poesia”, Maggio 2001), parte dal ricordo per giungere al sentimento. Il ricordo è già poesia. «La rimembranza, quanto più è lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente, diletta l’anima… quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza» scrive nello “Zibaldone” Giacomo Leopardi. E Maria Pina Natale lo conferma nella premessa alla breve silloge dello Speranza: «La poesia dedicata ai ricordi è indubbiamente fra le più avvertite e privilegiate, quasi in una sorta di denominatore comune». Da questo lavorio interiore scaturisce la lirica “Questa pena”, scritta nel dicembre del 1997 e dedicata a Liliana:

                             E sono ancora io che cerco
                             da questa lontananza
                             il volto che affonda l’orizzonte.
                             Nel primo sospiro del mattino
                             udire ancora la tua voce
                             è una speranza che cavalca
                             il tempo delle primule.
                             Sa d’attesa e di morte
                             questa pena ferma nel vento
                             al dondolio di stelle nella sera.
                             Ora ti seguirei ovunque
                             nell’illusorio tempo che sospinge,
                             per fermarmi per sempre
                             nel cuore della tua memoria.

In Vanni Speranza l’oggetto del ricordo è l’amore, un amore etereo, fatto quasi di misticismo e sensualità, ed espresso attraverso un linguaggio piacevole ed accattivante, attraverso un utilizzo della metafora sapiente e oculata, sfuggendo «alle troppe facili oscurità linguistiche di una certa poesia moderna» scrive Rino Giacone. «Saranno gli anni a piangere / i giorni portati al macero / senza sapere perché, di quel che fu. / Tutto nel tempo si consuma / solo tu, o Lilli, resti statua viva / nel mio pensiero» si legge nella lirica “Pagina bianca”. La poesia italiana contemporanea si trova in una fase evolutiva, e Vanni Speranza ne è un esempio. Il ritorno al sentimento (non al sentimentalismo) offre una nuova visione, autentica e lirica, della realtà. «Oggi vidi il tuo nome in un foglio / informativo, caduto dal paradiso. / Non è un miracolo; è concretezza d’amore / che vive nello spazio di un pensiero». Ma nella poesia di Vanni Speranza emerge anche la nostalgia e l’angoscia. «Indecifrabile angoscia scava / con il bisturi i limiti del cuore»… «Nel pianto delle cose, / rintocchi di ricordi / lasciano favole di cenere / di un opaco mattino di sole». Gli oggetti, i paesaggi, alcuni elementi naturali diventano così termine di paragone della sofferenza e dei sentimenti. Se da una parte nella poesia di Speranza c’è un recupero del passato, quasi a frammenti, dall’altra c’è l’incombenza del destino e la casualità delle azioni. Il passato diventa presagio di un futuro che si vuole conoscere, ma che è quasi impossibile penetrare, un tentativo felicemente riuscito di recupero e di trasposizione di esso nel presente. «Noi mano nella mano / continuammo la strada impervia / giocando i dadi della sorte / contro le magarie della vita». Le paure e i tormenti, nel ricordo, si tramutano in felicità, come aveva enunciato Leopardi. La silloge si presenta quindi come un viaggio a ritroso nel tempo. E Orlando-Vanni continua a cercare la sua Angelica-Lilli, e fugge e corre e infuria e si nasconde e si lamenta, finché non trova un’immaginifica serenità come in “Nessuna morte”:

                                   Ti sogno dormiente
                                   su una bianca poltrona
                                   con i capelli sparsi
                                   sulle stanche spalle.
                                   Sulle ginocchia tripudio
                                   di colori, una coperta.
                                   Sei serena nel paradiso
                                   di una morte viva.
                                   Io, solissimo ti guardo
                                   per assicurarti che,
                                   ucciso il tempo
                                   aldilà del mare,
                                   restiamo eterni
                                   in un amore assiderato.
                                   Nessun misfatto futuro
                                   sfiorerà nessuna morte.

La favola incantata continua. L’amore e il ricordo vanno a braccetto come due fidanzati, così come la notte si sposa al giorno e Vanni Speranza scrive la sua lirica, “La siepe”:

                              Tu
                                             un’altra volta rinata
                              mi compari vivo fantasma
                              nel museo del ricordo,
                              improvviso filo di luce
                              vibri l’ultimo inganno.
                                                     ***
                              Averti al fianco dei pensieri
                              è candida eutanasia
                              che scivola su promesse impigliate
                              nel tempo che sradica silenzi.
                                                     ***
                              Ora siamo all’ultima
                              siepe. Il salto è breve.

Questo rapporto biunivoco tra amato ed amata riprende vita. Il tempo si annulla. Il passato diventa presente. Il presente diventa passato e i sogni rigerminano come da un magico cappello. La favola bella «che ieri t’illuse che oggi m’illude», parafrasando D’Annunzio, giunge al culmine nella lirica scritta a Sassari il 4 luglio del 2001 dal titolo “In cerca di perdono”:

                              E la mia anima si perde
                              ai fianchi di richiami disperati
                              che non più colgono il perdono.
                                                           ***
                              Spezzata nel volo delle rondini
                              s’inabissa una storia amata
                              e piega al tempo il soliloquio
                              che uccide ogni giorno la memoria.
                                                           ***
                              L’incognita si è capovolta
                              resta diseredato il desiderio
                              passato, fatto di ritorni.
                    
                              In fuga mi resta un volto
                              che germina sogni per non morire.

 

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