Il Convivio

Gian Franco Barcella

Il mio maestro Camillo Sbarbaro: che nostalgia!
intervista di Gian Franco Barcella a Luigi Trucco

Ho sempre ammirato la liricità essenzializzata di Sbarbaro in un giro brevissimo di versi, come disse il critico de Robertis, il compiacimento del suo sguardo lento sugli uomini, la capacità che aveva di mitologizzare ad uso privato anche il più rapido sguardo sulle cose del mondo. Il poter intervistare l’avvocato Luigi Trucco, fortunato discepolo di questo grande poeta a cui è stato attribuito un truciolo di fama rispetto ai suoi meriti, mi ha permesso di conoscere qualche aspetto originale della personalità dell’autore di “Pianissimo”.
Avvocato Trucco, quando ha incontrato per la prima volta Camillo Sbarbaro?
«Ero ragazzino. Mia madre era cugina prima di Angelo Barile, altro grande poeta albisolese, compagno di scuola di Sbarbaro, e quindi mi fu facile essere presentato tramite questi canali parentali. Per di più noi Trucco avevamo una casa a Spotorno e mio padre, durante la guerra, si era dedicato anche alla pesca per sopperire alle necessità familiari. Sbarbaro, amante delle mustele, sovente andava a comprare da lui questo pesce prelibato. Finiti i tempi bui abbiamo fatto dono di questo cibo al poeta, il quale, riconoscente, scrisse la seguente dedica alla prima edizione del libro: “Trucioli”, donato alla mia famiglia: “Al caro dottor Trucco, per ringraziarlo della mustela, queste parole (troppe)… ma scritte”. Solo più tardi compresi la finezza di quel dono: non imponeva le sue poesie perché, essendo state scritte, solo chi lo avesse desiderato avrebbe potuto assaporarle leggendole. Era questa una nota saliente del carattere di Sbarbaro: timido, mai intrusivo, mai chiedeva al prossimo di ascoltarlo o tanto meno di occuparsi di lui. Camillo era una persona dolcissima e di grande umiltà. Non volle far compromessi, in alcun modo, a discapito della purezza della propria voce interiore che doveva sgorgare libera anche senza i riverberi della camera dorata del successo. Non poteva restare nell’ombra molto a lungo perché era un grande poeta».
Può narrarci la dinamica del primo incontro?
«Alle Scuole Medie, durante l’ora d’Italiano, venne letta in classe la sua celeberrima poesia intitolata A mio padre. La mia professoressa D’Ambrosi chiese a noi alunni di fare un’intervista ad un personaggio importante, io optai senza dubbio alcuno per Camillo Sbarbaro. Angelo Barile mi accompagnò da lui. Gli chiesi ciò che un ragazzino avrebbe potuto domandare, forte della sua immaturità. Il poeta fu molto paziente con me. Volli sapere quando avesse scritto la sua prima poesia, mi rispose che s’intitolava Alla primavera. Probabilmente è andata smarrita perché non la ritroviamo in alcuna raccolta edita».
Che cosa apprezza maggiormente dell’opera di Sbarbaro?
«Ovviamente amo tutti gli scritti di Camillo, ma ho un rammarico: a mio avviso le sue opere giovanili sono ancora troppo ignorate. La raccolta poetica Resine risente ancora degli echi dannunziani, ma già rivela in quei versi il suo rapporto privilegiato con l’assoluto poetico. Boine ha paragonato la poesia di Pianissimo a quella di Leopardi. Sbarbaro non si era mai compiaciuto di questo apprezzamento critico; si schermiva con ironia di fronte ai commenti troppo entusiastici. Un giorno mi confidò con autoironia: “Avrei dovuto prendere il treno ed andare ad abbracciare Boine per quello che ha scritto su di me!».
Sbarbaro fu un uomo schivo, solitario. Ebbe qualche amore nella sua vita?
«Colei che incarnò il suo sogno d’amore fu Dina. I versi a lei dedicati sono tra i più belli della letteratura novecentesca, a mio avviso. Negli anni della maturità, poi, ebbe un’affettuosa amicizia ed un vivace rapporto epistolare con Elena de Bosis Vivante, figlia del poeta fiorentino e sorella del famoso trasvolatore Vivante che aveva compiuto un volo su Roma spargendo volantini antifascisti. Dopo la morte di lei raccolse le sue lettere e le pubblicò in un volume intitolato: Autoritratto involontario di Elena De Bosis Vivante. Di tutte le sue pubblicazioni mi faceva dono. Apprezzai moltissimo tra le altre la traduzione del Ciclope di Euripide. A volte addirittura mi regalava le prime bozze di stampa con le sue annotazioni vergate a mano, per ‘ricambiare’ questa profonda stima che aveva nei miei confronti mi feci rimandare in greco. Frequentavo la quinta ginnasiale. Quando lo confidai a Sbarbaro egli mi aiutò impartendomi delle lezioni private. È stata un’esperienza fruttuosa e molto formativa. Il poeta, come docente, era serissimo e severissimo. Era bello ascoltare dalla sua voce i continui raffronti tra i poeti greci, latini ed italiani. Fu così che anch’io mi innamorai della poesia e cominciai a sottoporre i miei primi versi a colui che era diventato il mio maestro prediletto. Mi ricorderò sempre che mi disse: “Io sono un cattivo critico perché ti so dire solo ciò che mi piace”. Furono anni per me molto formativi. Ho continuato a scrivere liriche ed a farle leggere al mio maestro Camillo che mi ha sempre incoraggiato prevedendo per me un futuro di scrittore. È stato un riferimento importante per il mio cammino giovanile e pian piano è diventato una consuetudine domestica».
Come collezionista di muschi e licheni Sbarbaro è conosciuto a livello mondiale!
«Si può dire che avesse una sorta di afflato metafisico per questa sorta di vegetazione ‘ai limiti della sopravvivenza’. Scoprì e nominò molte specie non ancora classificate come il lichene Susanna che la sorella di Angelo Barile gli portò dopo aver compiuto una gita in montagna. Egli per gratitudine lo classificò col nome proprio di quella signorina. D’altronde con il fratello Angelo era legato da una profonda amicizia fin dai banchi del Liceo e pure erano uniti dagli stessi ideali politici antifascisti. Prezioso fu il carteggio che ebbe con lui e con altri grandi. Al poeta Diego Valeri scrisse tra l’altro: «Agli altri la gloria, a noi basterebbe avere uno spaccio di sali e tabacchi qui a Verezzi». Valeri gli aveva risposto con una poesia vergata su una cartolina: «Per poveri poeti vecchi e stracchi senza fama né rendita, ben venga una rivendita di valori bollati e di tabacchi». Questo piccolo gioiello epistolare io l’ho potuto ammirare di persona. Era un uomo amabile, Sbarbaro, anche se la vita non era stata tenera con lui, alla morte precoce del padre, aveva dovuto abbandonare gli studi per impiegarsi all’ILVA di Savona e poi a quella di Genova. In seguito ha insegnato ma aveva perso il lavoro durante il periodo del fascismo e visse facendo traduzioni soprattutto dal francese. Celeberrima è la versione italiana di À rébours di Huysmann. Aveva un carattere ciclotimico, che spesso lo rendeva desideroso di isolarsi nella camera oscura della solitudine. Lo curava amorevolmente il dottor Torcello. Ricordo in proposito una sua lirica nella quale esalta la possibilità di poter piangere da solo. La sua era una sensibilità incontrollabile dovuta forse alla prematura morte della madre che lo ha privato di affetti essenziali per la formazione del carattere. Per fortuna la sorella Clelia ha supplito per tutta la vita a questa terribile mancanza. Era una donna forte e volitiva che a Genova, addirittura, aveva partecipato alla Resistenza ed aveva conosciuto Paolo Rossi. Questa donna si può dire senza tema di smentita che si sia consacrata a lui, incapace di affrontare come l’albatro di baudelairiana memoria le banali nefandezze della quotidianità. Era uno spirito libero, il mio maestro Camillo, che aveva bisogno di un affettuoso sostegno per valicare gli ostacoli terreni».
 

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