La solitudine
e l’arcobaleno nella proposta di
Pompilia Pagano
Nel saggio “Spazio stelle voce, il colore della poesia”, edito
dalla Leonardo nel 1991, Mario Luzi riferendosi al mondo
contemporaneo, scrive: «La civiltà moderna è violenta. Esercita
violenza sia sull’uomo sia sul suo mondo. La natura dell’uomo e la
natura in toto ne sono offese, sconvolte. La bonifica a cui penso è
generale, ma deve cominciare dall’uomo che è causa non meno che
vittima del male di cui parliamo».
Pompilia Pagano, nel suo delicato volumetto di riflessioni e di
versi “L’arcobaleno attende”, edito dalla LER nel maggio 2002 con la
prefazione garbata e dotta di Carmine Manzi, parte da premesse
analoghe quando, pur dichiarandosi una pessimista-ottimista, da
autentica sognatrice razionale, quale si riconosce nel contempo,
perennemente tesa «a guardare la realtà negli occhi», prendendo atto
di quanto accade nell’attuale momento storico, non sempre riesce a
celare l’amarezza e lo sconforto: «Ci sono giorni, però, che non
puoi, non ce la fai a guardare il mondo che si distrugge, le miserie
del tuo spirito sono ben poca cosa di fronte alla fame, al martirio,
agli errori dei popoli che si annientano...». Ma non per questo si
dichiara vinta. Sa che la sua voce è debole nei confronti di una
società travolta dalla follia, riconosce che è troppo piccolo il
coro di quanti, impavidi e determinati, continuano a ripetere:
«Fermatevi, non inquinate la terra, non fate del denaro il vostro
unico credo, non uccidete i fratelli...» e, tuttavia, non si lascia
intimidire più del dovuto perché, contro quella che sembra sempre
più una patologia feroce e irreversibile, lei conosce l’unico e
infallibile rimedio: non arrendersi».
Nella riflessione che funge da premessa al libro, Pompilia
Pagano scopre subito le sue carte: «So già che parlerò d’amore e di
dolore, di gioia e di speranza, di sogni e delusioni. E di tanta
solitudine. Perché essere soli è una condizione mentale che
prescinde dall’avere accanto altre presenze fisiche. Si può essere
soli in mezzo a tanti...». Una dichiarazione dolorosa e precisa che
non lascia spazio a dubbi o fraintendimenti e da cui si evince la
profonda inquietudine esistenziale, vero e proprio motivo conduttore
dei suoi scritti, che si materializza in una sorta di crudele e
ineluttabile sensazione di solitudine: lei si sente
sola, anche in mezzo alla folla. E di ciò non si compiace. Anzi
sottolinea e ribadisce con fermezza che non vuole essere confusa con
quanti giocano al vittimismo o, nel lagnarsi della loro condizione,
si lasciano guidare da una sorta di infantile e narcisistica
presunzione. Capire ed essere capita, comunicare agli altri i propri
pensieri e le proprie attese e avvertire che il tutto è stato colto
nel modo giusto. È questo che vuole. Solo questo. E non ama
crogiolarsi nelle proprie lagrime, né tanto meno assumere un
atteggiamento di passiva rassegnazione, convinta che «non bisogna
arrendersi e continuare a cercare».
Il dramma della solitudine, del difficile, se non addirittura
impossibile, rapporto con gli altri e dell’incomunicabilità,
analizzato e descritto mirabilmente da Sartre in opere come “La
nausea”, “Il muro”, “A porte chiuse”, viene dalla poetessa vissuto,
se ci si ferma alle apparenze, come fatto personale, come una sorta
di ingiusta e crudele condanna toccata in sorte soprattutto a lei. A
lei che non riesce a coglierne la ragione e che, in un momento di
cupo sconforto, non esita addirittura a supplicare la Madre celeste
di intercedere presso suo figlio affinché la illumini sul perché e
sullo scopo di quanto le accade.
Per Sartre, «gli altri sono l’inferno». La sua filosofia di
Sartre non lascia spazio alcuno alla consolazione; per lui Dio
rappresenta l’Assurdo, opaco e impenetrabile. Pompilia Pagano,
invece, donna di fede anche nei momenti più duri, non si lascia
vincere dall’imperscrutabilità dei disegni divini e attende, da
creatura incapace di comprende-re il significato e la funzione del
proprio dolore, prima o poi, una spiegazione che l’aiuti a cogliere
almeno l’ombra del senso recondito della sua e delle altrui
sofferenze, sia pure attraverso l’intermediazione pietosa della
Madre di tutti i viventi. La fede, dunque, è uno dei punti fermi
della Pagano, al di là e oltre la soglia della sottile e struggente
malinconia sempre presente nelle sue accorate riflessioni sul
destino dell’uomo e sulla Storia. Ne sono testimonianza tangibile
alcuni tra i suoi versi intensi. Parole, quelle che compongono
questa lirica, che, oltre a esprimere una sintesi puntuale della
lucida e dolorosa consapevolezza di una intelligente, sensibile e
umana, lasciano pur sempre uno spiraglio all’attesa di un
rinnovamento, di una scintilla che riaccenda il desiderio mai sopito
di sconfiggere le tenebre che, come coltre di piombo, tentano di
avvolgere l’intero universo fino a ingoiarlo come in un orrido e
smisurato buco nero. È vero, la condizione dell’uomo nella storia è
crudele e insopportabile.
Non ci sono dubbi, dunque. Nella proposta di Pompilia Pagano,
fatta di versi semplici e colloquiali che mai si lasciano inquinare
dalle astuzie e dagli artifici dei mestieranti della poesia e che
non ostentano parentele più o meno fasulle con correnti e movimenti
letterari alla moda, l’amarezza non sfocia mai nella disperazione;
c’è in essa, infatti, una ferma e perenne tensione verso magnifiche
utopie di luce e, nel contempo, il convincimento che la tempesta,
per quanto catastrofica possa risultare lo stravolgimento che
provoca abbattendosi impietosa su uomini e cose, viene seguita da un
arcobaleno carico di promesse di vita e di gioia.
Piena di luce la strada mi appare,
sebbene serrata da sassi di dubbi
mi invita a porre passo sicuro.
Si snoda tra boschi folti di paure,
mi porta al guado di orrende visioni:
occhi imploranti suoni di pace,
mani impastate di terra sanguinante...
eppure nell’inoltro il cammino non teme,
il maestrale diventa zeffiro amico,
l’anima stanca si scioglie dal gelo:
in un lembo d’orizzonte l’arcobaleno attende.
I versi e i pensieri
di Pompilia Pagano, oltre alla freschezza del linguaggio e al pathos
profondo che li governa, esprimono, al di là di ogni sorta di
scoramento o di resa, un messaggio che, come quello di Mario Luzi, è
insieme un atto di fede e di speranza: «Se tenderemo l’orecchio»,
ribadisce, infatti, in una delle pagine più significative e sentite
del suo libro la poetessa, «ascolteremo un nuovo canto, anzi un
‘canto antico’, quello che viene dal cuore. Forse dobbiamo nutrire
lo spirito per potere sperare in un mondo migliore. Dobbiamo di
nuovo imparare a parlare e ad ascoltare. La nostra cara compagna di
viaggio sarà sempre la speranza, che ci farà credere, ci farà avere
fede nei sogni».
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