Il Convivio

Maria Pina Natale

Epilogo per “Paolo il Caldo” opera di  Carmelo Pirrera, sulla scia di Vitaliano Brancati

È a tutti noto che Vitaliano Brancati non riuscì a completare la sua ultima opera di narrativa “Paolo il caldo” poiché la morte lo colse, improvvisa, proprio allorché lo scrittore stava per completare il libro. All’Hotel “L’Airone” di Zafferana Etnea, dove il Brancati scrisse questo suo ultimo romanzo, gli albergatori, ancora oggi, fanno visitare ai turisti la stanza dove alloggiò lo scrittore negli ultimi giorni della sua vita e dove scrisse, appunto, la sua ultima opera letteraria. Carmelo Pirrera, poeta e narratore contemporaneo, ha avuto la felicissima idea di completare il lavoro (rimasto interrotto) del Brancati e con risultato ancora più felice. Ha compiuto cioè la medesima opera che Gino Raya compì a suo tempo per la verghiana “Duchessa di leyra”. Ma mi sem-bra che l’esito raggiunto dal Pirrera in questo suo “Epilogo” (ed. Intille, Messina 2002) sia superiore a quello di Gino Raya, poiché lo stesso stile brancatiano ne risulta surclassato. Questione di blasone!
E con quest’ultimo sostantivo entriamo subito “in medias res”, poiché proprio di un blasonato si tratta, anche se questo protagonista brancatiano e pirreriano non nutre, in fondo, soverchia stima per il suo mondo nobiliare. Ma ciò che soprattutto affascina di questo “Epilogo” è la sottile vena umoristica che domina, ininterrotta, tutta la narrazione. Si tratta di quell’“umorismo” sano, percettibile solo dai palati più raffinati, che, a partire da Orazio (quando ancora l’umorismo si chiamava “satira”), passando attraverso Luciano, Ariosto, Cervantes, Manzoni, Heine, Wilde, Shaw, Pirandello, (per non citare  che i sommi di questo genere) è stato forse il genere letterario più carismatico e più “elitario” fra quanti altri. Molto spesso in questo “Epilogo” l’umo-rismo è più amaro che dolce, spegne cioè il sorriso ironico in una smorfia di dolore, molto simile al dolce-amaro di personaggi e situazioni pirandelliane. Ma l’ho sempre detto, in ogni siciliano (scrittore o no) sonnecchia sempre un “pirandellismo” di fondo che, tutto sommato, è denomi-natore comune a tutti i nati e residenti in Sicilia, anche se analfabeti, contadini, zolfatari ecc... È una sorta di DNA originale che resiste, quale panacea, ai mali atavici dell’isola, mali che tuttavia ogni siciliano di buona razza sa trasformare in positività, donde il dolce-amaro, caratteristico di questa enigmatica   terra dai mille contrasti. In uno stile accattivante, fra l’amaro e il faceto, il racconto del Pirrera ci dimostra anzitutto che questo “Epilogo” è solo apparentemente un epilogo (cioè la conclusione di un libro scritto da un altro scrittore) poiché c’è dentro tanto di quell’impegno personale e una tale serietà di princìpi che il testo si impone più come opera autonoma che come la continuazione di un’altra. La tentazione di citare qualche spunto a dimostrazione di quanto suesposto è troppo forte e tiranna ma ci limiteremo solo a qualche flash e a qualche sporadico esempio: «Il  croupier ci deride, ride di questi nostri giorni-fiches così malamente giocati» (pag. 32-33), in cui il dramma della vita diventa «giorni-fiches malamente giocati». «Forse era nato in un piccolo paese di mare, ma anche un paese senza mare poteva andare bene» (pag. 70) dove si parla di un libro e di un autore-poeta «di cui la storia letteraria non dava nessuna notizia, nemmeno un cenno». Amara constatazione che enuclea il doloroso dramma di innumerevoli autori, i quali, quasi per un beffardo gioco della sorte, rimangono sconosciuti per sempre. Esempi, forse apparentemente, di ordinaria routine se non fosse per quel demonietto di humour che spunta e rispunta inter verba a recitare  il suo mefistofelico ruolo e a condire con il suo ghigno anche le più scontate quotidianità. Addirittura poi quel «forse era nato in un piccolo paese di mare ma anche un paese senza mare poteva andar bene» ci rimanda a taluni miracoli di equilibri sintattici di Elio Vittorini nei quali, come abbiamo più volte sottolineato, la sintassi si fa complice di pregiati esiti artistici. Del resto questa manfrina sul libro, sull’autore, sulla poesia scelta a caso in lettura è giocata tutta sul filo di così ghiotte invenzioni da strappare il riso perfino a chi fosse affetto da paralisi facciale. In un “mixage” di “silenzio” “cane di seta” “ottoni di ruggine” “viole” (fiori o strumenti musicali?) e simili facezie, il tutto concorre a far esplodere il sorriso in una ilarità a tutto tondo, senza confini di intensità e di misura. Anche le mutrie, i malumori (fin troppo spesso del tutto giustificati), i nervosismi, i sospetti, gli amari soliloqui del protagonista ci danno, anche della figura (oltre che dei gesti e delle parole) un’immagine itterica, acidula, a volte perfino bizzosa, che ne sfaccetta la caratteristiche in luci-ombre molteplici, come di un brillante falso sotto il monocolo dell’esperto gemmologo. Impagabile, a questo proposito, il forzato rifugio in una sala cinematografica dove si accende subito un tête-à-tête con i personaggi dello schermo in un coinvolgimento del tutto anomalo, ma per ciò stesso intensamente grottesco.

Savina Caminiti: La fenice
(II Parte)

Torniamo all’insorgenza dell’’esistere’ che impone leggi non poco severe. Nessuno, in nessuna plaga del mon-do, nasce per vivere invano. A ciascuno è affidato un compito da svolgere che si impone come ‘diktat’ inesorabile e senza miraggi di sconti. Tale uguaglianza di destini ci accomuna come il leopardiano «entro covile o cuna». Ma qui la comunanza esistenziale non si esprime come fatale dolore del vivere bensì come universalità di trasparenze leggere che si contrappongono anche al montaliano «male di vivere» quale realtà di un «bene di vivere», di vivere cioè la vita con gioia, con felicità, con profonda gratitudine verso Chi ci ha gratificati di questo dono ineffabile qual è appunto la vita. Né ha importanza se si debba vivere lontano dal luogo natio: la vita è sempre e comunque vita, benedizione, dono sublime.
Naturalmente di questa vita fanno parte anzitutto le figure più care: i familiari, gli amici, le amiche, i maestri, tutti parte integrante di questa giostra scintillante e melodiosa. Ma c’è di più: poiché Dio ci ha concesso non solo il bene della vita ma anche la facoltà di valutare e ammirare le bellezze del Creato, dobbiamo essere doppiamente grati a Lui. E di questa duplice riconoscenza fa parte l’arte del poeta che riesce a cantare la bellezza e la grandezza della Creazione.
A questo punto la liricità assurge ad orizzonti più vasti e, come molto opportunamente osserva il prefatore alla silloge di Savina Caminiti, Rosario Calabrese, ci rimanda al concetto agrodolce di Benedetto Croce: «La poesia ci vendica di non essere Dio». Non a caso il lavoro dell’artista-poeta, dell’artista-narratore, dell’artista-pittore e di qualsiasi altro artista, si definisce «lavoro creativo», poiché, creando dal nulla o con la penna o con il pennello o con uno strumento musicale o con lo scalpello ecc., ci si avvicina al cosmico lavoro della Creazione di Dio.
Il  “divino” si sprigiona da questa poesia come segno onnisciente e onnipresente e la creatura umana ne attin-ge l’efficacia con devozione e riverenza. Così il colloquio fra Creatore e creatura si fa più intimo, più coinvolgente. Anche qualche leggera distrazione, come il comprensibile sguardo allo Xanto, che serve a colmare l’animo con la potenza creativa della grecità classica, altro non è che un coefficiente di spicco nell’ambito di un sogno poetico di elevata prosapia.
Le conseguenze più gratificanti di questa recuperata certezza sono: amore, felicità e bellezza, doni ineffa-bili, è vero, ma troppo precari, in preda come sono alla volubilità della fortuna, alla inesorabilità dell’ora che incombe e di cui si ignora sempre il punto di impatto, come predica appunto il verso di pagina 39: «Affiora il silenzio dall’a-nima segreta delle cose». Ed è proprio in questo miracolo di trasfusione tra attimo ed eterno, tra vita e morte che il cuore del poeta ritrova la sua pace sconfinata e il regno imperituro della Bellezza, una bellezza con la maiuscola, affinché non si cada nell’errore che si tratti di bellezza effimera, cioè di una realtà caduca e terrestre, bensì di una Bellezza superiore che scaturisce dal Divino, quindi imperitura.
Tuttavia (anche per associazione di idee) il concetto di bellezza ci catapulta verso il simbolo più immanente del suo concetto pagano, a quella dea Venere, che rimane in sottofondo, anche a distanza di millenni, come un subconscio intramontabile del binomio bellezza-amore, poiché in buona sostanza, è il concetto stesso della perpetuazione della specie e può di conseguenza coesistere con qualsiasi professione di fede. Qui ne sono testimonianza le dolci figure femminili, strette all’autrice da vincoli di amicizia: Ileana, Giuliana, Olivia, Marcella, che travalicano i tempi diegetici, per diventare simboli perenni del fascino femminile: «l’anima della terra», «la bruna bellezza ondosa dai riflessi blu», la mano che, sollevando la polvere del tempo ridona all’attimo «l’onnipotenza della eternità» e «l’ebbrezza della Verità». Qui, come in tutto il testo, il riferimento a Venere è concepito in un’atmosfera evane-scente e rarefatta, quasi impalpabile, coerente del resto con tutti gli altri significati e significanti di questa poesia.
Allorché la parabola è compiuta e i ricordi si fanno sempre più affollati e pressanti, affiorano quelli che maggiormente hanno sottolineato le stagioni della vita, quelli che, come si legge a pagina 64 «rimbalzano sui frutti della vita». Il solito dilemma esistenziale si sostanzia di valori più assoluti e - perché no? - maggiormente contrastanti, quali terre d’esilio-patria cielo e di conseguenza diventa ancora più appagante, più gratificante, più denso di certezze anziché  di interrogativi, al punto che il connubio fra vita terrestre e patria celeste si fa quasi reale. L’ansietà del de-siderio trasforma il sogno in realtà e, attraverso le non poco esaltanti lezioni del Vangelo, si attinge l’attimo fuggente di questa realtà levitata in sogno e, del medesimo sogno (già inafferrabile), divenuto ora realtà: «Muoio in Te / per offrirmi alla vita» si legge a pagina 71. Si riaccende cioè l’affascinante mito della Fenice, come indica il titolo, attra-verso l’incendio della vita che si spegne nelle ceneri, dalle quali nuovamente si rinnova la vita, in perenne alternanza.
A questo punto entra di prepotenza, nell’ambito di questa professione di fede, la bellissima certezza cristiana del recupero materia-spirito nel Giudizio Finale, per l’altissima dignità che la materia ha assunto con la Incarnazione del Cristo, il mistero più affascinante e il più pregnante di amore nei confronti della creatura umana, poiché è appunto per le grandiose realtà di questa Incarnazione che Dio ha offerto all’uomo la possibilità di usare la materia al servizio dello spirito per glorificare Dio e se stesso nella duplicità spirito-materia, resa sacra dal passaggio di Cristo in terra. La resurrezione dei corpi, alla fine dei Tempi, renderà eterna la materia al pari dello spirito.
Ma per tornare al libro in oggetto, che avevamo appena sottolineato nella simbiosi realtà-sogno, c’è da evidenziare subito che il cantico sublime di questa simbiosi attinge le vette più singolari della originalità, allorché innalza un inno di benedizione al giorno della nascita a questa vita, che è l’unico sicuro itinerario verso le porte del Cielo, dell’Infinito e dell’Eterno ma anche perché il dono stesso della vita, proprio attraverso la pienezza delle grazie, dei benefici, delle gioie da godere non come possesso o proprietà bensì solo come privilegio, ancor più gratificante, di poter semplicemente accarezzare tali doni e ancora  - perché no ? - con tutto ciò che di negativo, di avverso e di male la vita stessa ci offre, è la più sicura prova del nove del nostro passaggio tra i beni e i mali del mondo con la conseguente nostra libera scelta fra salvezza e morte.
Come ben si vede, c’è tutto un esaltante discorso poetico , imperniato rigorosamente sulla guida del Vangelo, interpretato nella accettazione più totale delle sue leggi divine e della sua etica nei rapporti umani. L’involucro poe-tico entro cui l’autrice avvolge morbidamente questa sua fonte di ispirazione è volutamente ammiccante e accatti-vante, quasi anticipazione del Paradiso sulla terra, ricco com’è di positività, soggettive ed oggettive, simultanea-mente, che aprono il cuore a certezze pressoché scontate e inalienabili. E così la parabola misteriosa che scaturisce da un’origine celeste, si dipana attraverso una dimensione temporale e approda infine al medesimo punto di partenza, non abdica mai alla essenza di luce e di beatitudine, in un “continuum” ininterrotto, pur se indecifrabile, perfino attraverso l’angusto itinerario terrestre.
A questo punto mi sembra fin troppo opportuno concludere con un luminoso e illuminante pensiero si Arthur Schopenauer: «È profondamente stolto respingere da sé una buona ora presente e guastarsela di proposito col rammarico del passato o con l’ansia del futuro». Siamo sul medesimo allineamento di Savina Caminiti, la quale, scartate tutte le scorie del negativo, punta all’assunzione globale del Bene e del Male, dopo aver accettato quest’ultimo come motivo di rinnovamento e di rinascita, sulla scorta della Passione e Resurrezione del Cristo e come messaggio universale di pace e di amore.
 

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