Epilogo per “Paolo il Caldo”
opera di
Carmelo Pirrera,
sulla scia di Vitaliano Brancati
È a tutti noto che Vitaliano Brancati non riuscì a
completare la sua ultima opera di narrativa “Paolo il
caldo” poiché la morte lo colse, improvvisa, proprio
allorché lo scrittore stava per completare il libro.
All’Hotel “L’Airone” di Zafferana Etnea, dove il Brancati
scrisse questo suo ultimo romanzo, gli albergatori, ancora
oggi, fanno visitare ai turisti la stanza dove alloggiò lo
scrittore negli ultimi giorni della sua vita e dove
scrisse, appunto, la sua ultima opera letteraria. Carmelo
Pirrera, poeta e narratore contemporaneo, ha avuto la
felicissima idea di completare il lavoro (rimasto
interrotto) del Brancati e con risultato ancora più
felice. Ha compiuto cioè la medesima opera che Gino Raya
compì a suo tempo per la verghiana “Duchessa di leyra”. Ma
mi sem-bra che l’esito raggiunto dal Pirrera in questo suo
“Epilogo” (ed. Intille, Messina 2002) sia superiore a
quello di Gino Raya, poiché lo stesso stile brancatiano ne
risulta surclassato. Questione di blasone!
E con quest’ultimo sostantivo entriamo subito “in
medias res”, poiché proprio di un blasonato si tratta,
anche se questo protagonista brancatiano e pirreriano non
nutre, in fondo, soverchia stima per il suo mondo
nobiliare. Ma ciò che soprattutto affascina di questo
“Epilogo” è la sottile vena umoristica che domina,
ininterrotta, tutta la narrazione. Si tratta di quell’“umorismo”
sano, percettibile solo dai palati più raffinati, che, a
partire da Orazio (quando ancora l’umorismo si chiamava
“satira”), passando attraverso Luciano, Ariosto, Cervantes,
Manzoni, Heine, Wilde, Shaw, Pirandello, (per non citare
che i sommi di questo genere) è stato forse il genere
letterario più carismatico e più “elitario” fra quanti
altri. Molto spesso in questo “Epilogo” l’umo-rismo è più
amaro che dolce, spegne cioè il sorriso ironico in una
smorfia di dolore, molto simile al dolce-amaro di
personaggi e situazioni pirandelliane. Ma l’ho sempre
detto, in ogni siciliano (scrittore o no) sonnecchia
sempre un “pirandellismo” di fondo che, tutto sommato, è
denomi-natore comune a tutti i nati e residenti in
Sicilia, anche se analfabeti, contadini, zolfatari ecc...
È una sorta di DNA originale che resiste, quale panacea,
ai mali atavici dell’isola, mali che tuttavia ogni
siciliano di buona razza sa trasformare in positività,
donde il dolce-amaro, caratteristico di questa
enigmatica terra dai mille contrasti. In uno stile
accattivante, fra l’amaro e il faceto, il racconto del
Pirrera ci dimostra anzitutto che questo “Epilogo” è solo
apparentemente un epilogo (cioè la conclusione di un libro
scritto da un altro scrittore) poiché c’è dentro tanto di
quell’impegno personale e una tale serietà di princìpi che
il testo si impone più come opera autonoma che come la
continuazione di un’altra. La tentazione di citare qualche
spunto a dimostrazione di quanto suesposto è troppo forte
e tiranna ma ci limiteremo solo a qualche flash e a
qualche sporadico esempio: «Il croupier ci deride, ride
di questi nostri giorni-fiches così malamente giocati»
(pag. 32-33), in cui il dramma della vita diventa «giorni-fiches
malamente giocati». «Forse era nato in un piccolo paese di
mare, ma anche un paese senza mare poteva andare bene»
(pag. 70) dove si parla di un libro e di un autore-poeta
«di cui la storia letteraria non dava nessuna notizia,
nemmeno un cenno». Amara constatazione che enuclea il
doloroso dramma di innumerevoli autori, i quali, quasi per
un beffardo gioco della sorte, rimangono sconosciuti per
sempre. Esempi, forse apparentemente, di ordinaria routine
se non fosse per quel demonietto di humour che spunta e
rispunta inter verba a recitare il suo mefistofelico
ruolo e a condire con il suo ghigno anche le più scontate
quotidianità. Addirittura poi quel «forse era nato in un
piccolo paese di mare ma anche un paese senza mare poteva
andar bene» ci rimanda a taluni miracoli di equilibri
sintattici di Elio Vittorini nei quali, come abbiamo più
volte sottolineato, la sintassi si fa complice di pregiati
esiti artistici. Del resto questa manfrina sul libro,
sull’autore, sulla poesia scelta a caso in lettura è
giocata tutta sul filo di così ghiotte invenzioni da
strappare il riso perfino a chi fosse affetto da paralisi
facciale. In un “mixage” di “silenzio” “cane di seta”
“ottoni di ruggine” “viole” (fiori o strumenti musicali?)
e simili facezie, il tutto concorre a far esplodere il
sorriso in una ilarità a tutto tondo, senza confini di
intensità e di misura. Anche le mutrie, i malumori (fin
troppo spesso del tutto giustificati), i nervosismi, i
sospetti, gli amari soliloqui del protagonista ci danno,
anche della figura (oltre che dei gesti e delle parole)
un’immagine itterica, acidula, a volte perfino bizzosa,
che ne sfaccetta la caratteristiche in luci-ombre
molteplici, come di un brillante falso sotto il monocolo
dell’esperto gemmologo. Impagabile, a questo proposito, il
forzato rifugio in una sala cinematografica dove si
accende subito un tête-à-tête con i personaggi dello
schermo in un coinvolgimento del tutto anomalo, ma per ciò
stesso intensamente grottesco.
Savina
Caminiti: La fenice
(II Parte)
Torniamo all’insorgenza
dell’’esistere’ che impone leggi non poco severe. Nessuno, in
nessuna plaga del mon-do, nasce per vivere invano. A ciascuno è
affidato un compito da svolgere che si impone come ‘diktat’
inesorabile e senza miraggi di sconti. Tale uguaglianza di destini
ci accomuna come il leopardiano «entro covile o cuna». Ma qui la
comunanza esistenziale non si esprime come fatale dolore del vivere
bensì come universalità di trasparenze leggere che si contrappongono
anche al montaliano «male di vivere» quale realtà di un «bene di
vivere», di vivere cioè la vita con gioia, con felicità, con
profonda gratitudine verso Chi ci ha gratificati di questo dono
ineffabile qual è appunto la vita. Né ha importanza se si debba
vivere lontano dal luogo natio: la vita è sempre e comunque vita,
benedizione, dono sublime.
Naturalmente di questa vita fanno
parte anzitutto le figure più care: i familiari, gli amici, le amiche,
i maestri, tutti parte integrante di questa giostra scintillante e
melodiosa. Ma c’è di più: poiché Dio ci ha concesso non solo il bene
della vita ma anche la facoltà di valutare e ammirare le bellezze del
Creato, dobbiamo essere doppiamente grati a Lui. E di questa duplice
riconoscenza fa parte l’arte del poeta che riesce a cantare la
bellezza e la grandezza della Creazione.
A questo punto la liricità assurge ad
orizzonti più vasti e, come molto opportunamente osserva il prefatore
alla silloge di Savina Caminiti, Rosario Calabrese, ci rimanda al
concetto agrodolce di Benedetto Croce: «La poesia ci vendica di non
essere Dio». Non a caso il lavoro dell’artista-poeta,
dell’artista-narratore, dell’artista-pittore e di qualsiasi altro
artista, si definisce «lavoro creativo», poiché, creando dal nulla o
con la penna o con il pennello o con uno strumento musicale o con lo
scalpello ecc., ci si avvicina al cosmico lavoro della Creazione di
Dio.
Il “divino” si sprigiona da questa
poesia come segno onnisciente e onnipresente e la creatura umana ne
attin-ge l’efficacia con devozione e riverenza. Così il colloquio fra
Creatore e creatura si fa più intimo, più coinvolgente. Anche qualche
leggera distrazione, come il comprensibile sguardo allo Xanto, che
serve a colmare l’animo con la potenza creativa della grecità
classica, altro non è che un coefficiente di spicco nell’ambito di un
sogno poetico di elevata prosapia.
Le conseguenze più gratificanti di
questa recuperata certezza sono: amore, felicità e bellezza, doni
ineffa-bili, è vero, ma troppo precari, in preda come sono alla
volubilità della fortuna, alla inesorabilità dell’ora che incombe e di
cui si ignora sempre il punto di impatto, come predica appunto il
verso di pagina 39: «Affiora il silenzio dall’a-nima segreta delle
cose». Ed è proprio in questo miracolo di trasfusione tra attimo ed
eterno, tra vita e morte che il cuore del poeta ritrova la sua pace
sconfinata e il regno imperituro della Bellezza, una bellezza con la
maiuscola, affinché non si cada nell’errore che si tratti di bellezza
effimera, cioè di una realtà caduca e terrestre, bensì di una Bellezza
superiore che scaturisce dal Divino, quindi imperitura.
Tuttavia (anche per associazione di
idee) il concetto di bellezza ci catapulta verso il simbolo più
immanente del suo concetto pagano, a quella dea Venere, che rimane in
sottofondo, anche a distanza di millenni, come un subconscio
intramontabile del binomio bellezza-amore, poiché in buona sostanza, è
il concetto stesso della perpetuazione della specie e può di
conseguenza coesistere con qualsiasi professione di fede. Qui ne sono
testimonianza le dolci figure femminili, strette all’autrice da
vincoli di amicizia: Ileana, Giuliana, Olivia, Marcella, che
travalicano i tempi diegetici, per diventare simboli perenni del
fascino femminile: «l’anima della terra», «la bruna bellezza ondosa
dai riflessi blu», la mano che, sollevando la polvere del tempo ridona
all’attimo «l’onnipotenza della eternità» e «l’ebbrezza della Verità».
Qui, come in tutto il testo, il riferimento a Venere è concepito in
un’atmosfera evane-scente e rarefatta, quasi impalpabile, coerente del
resto con tutti gli altri significati e significanti di questa poesia.
Allorché la parabola è compiuta e i
ricordi si fanno sempre più affollati e pressanti, affiorano quelli
che maggiormente hanno sottolineato le stagioni della vita, quelli
che, come si legge a pagina 64 «rimbalzano sui frutti della vita». Il
solito dilemma esistenziale si sostanzia di valori più assoluti e -
perché no? - maggiormente contrastanti, quali terre d’esilio-patria
cielo e di conseguenza diventa ancora più appagante, più gratificante,
più denso di certezze anziché di interrogativi, al punto che il
connubio fra vita terrestre e patria celeste si fa quasi reale.
L’ansietà del de-siderio trasforma il sogno in realtà e, attraverso le
non poco esaltanti lezioni del Vangelo, si attinge l’attimo fuggente
di questa realtà levitata in sogno e, del medesimo sogno (già
inafferrabile), divenuto ora realtà: «Muoio in Te / per offrirmi alla
vita» si legge a pagina 71. Si riaccende cioè l’affascinante mito
della Fenice, come indica il titolo, attra-verso l’incendio della vita
che si spegne nelle ceneri, dalle quali nuovamente si rinnova la vita,
in perenne alternanza.
A questo punto entra di prepotenza,
nell’ambito di questa professione di fede, la bellissima certezza
cristiana del recupero materia-spirito nel Giudizio Finale, per
l’altissima dignità che la materia ha assunto con la Incarnazione del
Cristo, il mistero più affascinante e il più pregnante di amore nei
confronti della creatura umana, poiché è appunto per le grandiose
realtà di questa Incarnazione che Dio ha offerto all’uomo la
possibilità di usare la materia al servizio dello spirito per
glorificare Dio e se stesso nella duplicità spirito-materia, resa
sacra dal passaggio di Cristo in terra. La resurrezione dei corpi,
alla fine dei Tempi, renderà eterna la materia al pari dello spirito.
Ma per tornare al libro in oggetto,
che avevamo appena sottolineato nella simbiosi realtà-sogno, c’è da
evidenziare subito che il cantico sublime di questa simbiosi attinge
le vette più singolari della originalità, allorché innalza un inno di
benedizione al giorno della nascita a questa vita, che è l’unico
sicuro itinerario verso le porte del Cielo, dell’Infinito e
dell’Eterno ma anche perché il dono stesso della vita, proprio
attraverso la pienezza delle grazie, dei benefici, delle gioie da
godere non come possesso o proprietà bensì solo come privilegio, ancor
più gratificante, di poter semplicemente accarezzare tali doni e
ancora - perché no ? - con tutto ciò che di negativo, di avverso e di
male la vita stessa ci offre, è la più sicura prova del nove del
nostro passaggio tra i beni e i mali del mondo con la conseguente
nostra libera scelta fra salvezza e morte.
Come ben si vede, c’è tutto un
esaltante discorso poetico , imperniato rigorosamente sulla guida del
Vangelo, interpretato nella accettazione più totale delle sue leggi
divine e della sua etica nei rapporti umani. L’involucro poe-tico
entro cui l’autrice avvolge morbidamente questa sua fonte di
ispirazione è volutamente ammiccante e accatti-vante, quasi
anticipazione del Paradiso sulla terra, ricco com’è di positività,
soggettive ed oggettive, simultanea-mente, che aprono il cuore a
certezze pressoché scontate e inalienabili. E così la parabola
misteriosa che scaturisce da un’origine celeste, si dipana attraverso
una dimensione temporale e approda infine al medesimo punto di
partenza, non abdica mai alla essenza di luce e di beatitudine, in un
“continuum” ininterrotto, pur se indecifrabile, perfino attraverso
l’angusto itinerario terrestre.
A questo punto mi sembra fin troppo opportuno concludere con un
luminoso e illuminante pensiero si Arthur Schopenauer: «È
profondamente stolto respingere da sé una buona ora presente e
guastarsela di proposito col rammarico del passato o con l’ansia del
futuro». Siamo sul medesimo allineamento di Savina Caminiti, la
quale, scartate tutte le scorie del negativo, punta all’assunzione
globale del Bene e del Male, dopo aver accettato quest’ultimo come
motivo di rinnovamento e di rinascita, sulla scorta della Passione e
Resurrezione del Cristo e come messaggio universale di pace e di
amore.
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