- Remigio
s’ingegnava a fare di tutto in collegio. Un piccolo uomo grigio
di capelli, in perenne movimento. Mezzo bonetto da convittore in
capo, un vestito sempre uguale e scuro per la dignità del luogo.
Dava retta a chiunque, cercava di accontentare ogni richiesta.
Se provavi a stare fermo per poco tempo, te lo vedevi saltellare
tra i piedi almeno un paio di volte. Proveniva da direzioni
sempre diverse e con gli attrezzi più disparati in mano. A volte
lo vedevi su una scala, dedito a lavori d’imbianchino.
- «... Oh,
che si fa Remigio, si batte la fiacca?».
- Le solite
domande inventate per le diverse occasioni. I convittori se le
passavano per gioco. Ma lui non si faceva smontare. Stava sempre
allo scherzo.
- «... Eh,
oggi diamo una sporcatina a questa parete», rispondeva. In
effetti, non sempre alla buona volontà conseguiva altrettanta
qualità, ma il suo affannarsi animava ininterrottamente la vita
del collegio dalla mattina alla sera.
- Altre volte
replicava con maggiore filosofia.
- «... E che
si fa... si fa quel che vuole Dio».
- Intanto si
fermava per dare una tirata da una preadamitica pipa. Diceva che
era stata del suo bisnonno. Da quella frase piena di
rassegnazione si capiva che, quel giorno, rimetteva alla
provvidenza qualche avversità. Allora lo si lasciava esente da
ulteriori lazzi o frizzi.
- In fondo
quel rinviare a Dio ogni contrarietà, per un uomo semplice, non
era soluzione di vita da poco. Lo esimeva da qualsiasi
risentimento nei confronti di chiunque fosse la concreta causa
umana delle tante misere avversità giornaliere. E così restavano
fuori dalla sua logica modesta, ma ineccepibile, reazioni che
potessero turbare il clima sereno delle sue circoscritte
relazioni interpersonali.
- Sin dal
1875 correva da uno stanzone all’altro del collegio. Ora
accomodava un comodino ora sistemava un tubo ora lui stesso
s’inventava qualche altro, più insolito, lavoro. Ogni
ripostiglio, ogni angolo dell’immenso caseggiato non avevano
segreti per i suoi passetti rapidi.
- Era sempre
pronto a piantare la faccenda in corso per seguire l’invito ad
eseguire una seconda commissione e poi una terza e una quarta.
Capitava anche che ad un certo punto le urla di chi gli aveva
commissionato il primo lavoro lo richiamassero al teatro della
iniziale impresa. Era allora tanto lesto a scusarsi quanto
altrettanto rapidamente pronto a riprendere, poco dopo, il suo
saltellare da un impegno all’altro.
- Il collegio
di Monfalcone sembrava essere tutto il suo mondo. Non si
allontanava quasi mai per scendere in paese. Quelle poche volte
in cui lo faceva non mancavano le battute di qualcuno.
-
«Dove si va Remigio così in ghingheri?».
- «Oggi si
va a fare un bicchiere di rosso», rispondeva con malcelata
malizia che sollecitava la facile immaginazione dei ragazzi.
-
A un certo punto le passeggiate di Remigio verso
il paese divennero più frequenti. Questa novità allertò
ulteriormente la fantasia dei convittori. Ad alcuni di essi
venne l’idea di seguirlo. Circolava con insistenza un
pettegolezzo. Uno dei ragazzi si era recato in paese per
eseguire un incarico e lo aveva visto uscire dalla casa di una
vedova, che, ogni tanto, veniva a Monfalcone per rifornire il
collegio di varie provviste.
- Una sera
gli andarono dietro di soppiatto. Lo videro entrare in quella
casa con misteriosi pacchetti in mano. Restarono dietro una
finestra a sbirciare.
- Pensavano di scrutare scene maliziose, ma intravidero
soltanto un semplice spettacolo di tranquillo clima familiare.
Remigio a tavola elargiva la mitezza del proprio sguardo alla
vedova e a due bambini che pendevano dalle sue labbra. Lo
chiamavano zio Remigio.
- La loro
allegria scanzonata e burlesca svanì di colpo. Si sentirono
quasi in colpa per avere violato quell’oasi incontaminata di
sentimenti delicati e di riservatezza. Erano scesi in paese
certi di ritornarvi con un rinnovato tesoro di pettegolezzi.
Risalendo la strada verso il collegio di Monfalcone ognuno di
loro avvertiva un inspiegabile turbamento. Non parlarono con
nessuno di quella sera. I pettegolezzi su Remigio, da allora, si
dissolsero in una nuova mescola di sentimenti.
- Vennero
giorni in cui pareva che Remigio corresse più del solito. Forse
lui sentiva il traguardo vicino e faceva il suo sprint finale. E
la sua corsa si fermò in una gelida giornata d’inverno. Il
primo, freddo, inverno del nuovo secolo.
- Erano i
giorni della neve. Si era preoccupati per l’assenza,
inconsueta a quell’ora, del suo ansioso affaccendarsi. Un
evento incredibile. Ogni alba lo aveva sempre visto all’opera.
- Sembrava
quasi che il tempo si fosse dimenticato di albeggiare, non
segnato dalle corse di quel piccolo uomo. Solo a mattino
inoltrato si pensò di andarlo a cercare nella sua stanzetta,
nella parte più alta del caseggiato. Lo stupore colse padre
Carlo Pediconi quando ne aprì la porta. Ancora a quell’ora e
nella penombra delle imposte semichiuse, le coperte segnavano un
avvallamento a tutti sconosciuto. Non lo si era mai visto a
letto e nessuno avrebbe saputo immaginare il riposo notturno di
quel continuo sgambettìo.
- «Ehi
Remigio, sveglia... Sono le nove e mezza e padre Ottavio
Procacci ti cerca, ti deve parlare». E lo scuoteva.
- «Ma che ti
è preso stamattina...». Poi lo lasciò di colpo, trasalendo,
quando, giratolo con uno strattone, scorse nel viso, già
pallido, di Remigio una immobile e definitiva espressione di
silenziose ed ultime scuse.
- I ragazzi
commemorarono Remigio nel loro inaccessibile rifugio
sull’impervio costone del monte Falcone. Lì si riunivano tutti
quelli della classe che facevano parte dell’associazione segreta
degli “Irriducibili”.
- Una buia
grotta. L’ingresso lo occultavano con cespugli di rovi.
Rischiaravano l’interno con tante candele. Il loro baluginare
incerto dava alle riunioni un alone di mistero. Era, ogni volta,
una forte suggestione.
- Un’antica
nenia apriva l’inizio dei lavori delle loro riunioni. La
mormoravano in piedi, a capo chino e con le braccia incrociate
sul petto.
- «...La
pietra rotola sulle acque del lago...
- ...la
pietra corre verso il centro del lago...
- ...la
pietra grezza, la pietra rozza, la pietra
- scivola, la
pietra affonda.
- ...ma
mentre scivola... ma mentre affonda,
- diventa
liscia, diventa tonda...».
- Non si era
mai recato da solo in quell’inquietante luogo di riunione. Il
giorno dopo la commemorazione di Remigio da parte della
Associazione aveva voluto farlo. Era difficile accettare la sua
perdita definitiva. Sembrava che da ognuno degli angoli più bui
delle vaste sale o dai lunghi corridoi del collegio dovesse fare
capolino d’improvviso per riprendere una delle tante faccende
interrotte.
- Dario
sentiva particolarmente quella presenza impalpabile. Remigio lo
aveva vegliato giorno e notte nei lunghi deliri della malaria.
Era la malattia che imperversava maggiormente a quei tempi.
L’aveva presa in una gita dalle parti delle paludi. I genitori
erano in viaggio. Poterono avere notizie delle sue gravi
condizioni solo al loro rientro nella casa del lago. Era
trascorso un lungo mese.
- Tra un
accesso e un altro di febbre quello sguardo buono lo richiamava
alla realtà. Con mani delicate gli stendeva pezze di refrigerio
sulla fronte. Nei momenti di coscienza sentiva le sue parole di
conforto. Da allora se l’era raffigurato così il suo angelo
custode.
- Nella sua
fantasia infantile immaginava che se mai Remigio avesse voluto
scegliere un posto per avere un contatto con loro da quel suo
nuovo ed arcano mondo, avrebbe puntato proprio sul mistero del
rifugio.
- Si sentiva
lui l’eletto per quell’incontro. Non sapeva spiegarsi il perché,
ma ne era certo. Conosceva un passaggio sotterraneo per sfuggire
al rigore dei guardiani del collegio. A quell’ora di notte il
bosco attorno al costone del monte era denso di fruscii e di
stridori inspiegabili. Ogni tanto qualche verso di animale
notturno lo faceva soprassaltare. Temeva di perdersi. Riusciva a
seguire a stento il viottolo scosceso e circondato da un lato e
dall’altro da grandi piante.
- Il cuore
gli batteva forte. Giunto alla grotta, dopo avere acceso le
decine di candele che vi si trovavano, spense la torcia che lo
aveva aiutato a seguire il difficile percorso. Cercava,
tuttavia, di non guardare nel buio impenetrabile del fondo. Da
lì uno stretto passaggio s’inoltrava lungo incredibili cunicoli
all’interno del monte. In quelle inesplorate oscurità si
annidavano le più inquietanti forze del male. Il lucore delle
candele non riusciva a rischiarare quel varco di mistero.
- Erano
convinti che da lì si sarebbe materializzato uno spaventoso
mostro: “il terribile”. Sarebbe avvenuto nel giorno segreto del
millennio, il giorno della coincidenza misterica dovuta a un
insolito disegno degli astri che avrebbe fatto esplodere una
travolgente ondata di male sulla terra. Ma loro, gl’irriducibili
cavalieri del bene, avrebbero potuto frenare il dilagare
definitivo dell’impero degl’inferi.
- Quello
sarebbe stato il giorno della “grande prova” necessaria per la
salvezza del mondo. Gli “irriducibili” avrebbero lottato
strenuamente contro il “terribile” e, forse, sarebbero riusciti
a sconfiggerlo. Vincere l’avvento del male avrebbe fatto
conseguire all’Associazione il grado della perfezione suprema.
Allora, nell’attesa del “giorno del millennio”, avrebbero
svolto il ruolo di inflessibili guardiani di quel passaggio
inquietante, presidiando la salvaguardia dell’ultima trincea
contro l’invasiva soglia terrestre dell’inferno.
- La loro
benefica e vigile presenza, le loro nenie evocatrici e gli
antichi riti propiziatori di tutte le forze del bene, avrebbero
indebolito la forza maligna che nel giorno del millennio sarebbe
esplosa da quel varco. Solo così avrebbero potuto volgere in
loro favore l’incerto esito di quella che sarebbe stata l’ultima
e definitiva battaglia per la salvezza del mondo.
- Entrando
nella grotta si era fatto coraggio mormorando la nenia
dell’inizio dei lavori, poi si era seduto al posto consueto,
alla destra di quello del potentissimo e Grande Inflessibile.
Aveva reclinato il capo. Non voleva guardarsi intorno. La luce
guizzante delle candele disegnava ombre terrorizzanti sulle
pareti della caverna. Avrebbe voluto tornare indietro, fuggire
verso la sicurezza del collegio. Ma non poteva, non doveva
mancare all’ultimo appuntamento con Remigio. Sentiva che lui non
sarebbe potuto tornare un’altra volta. Doveva resistere a quella
paura che gli squassava il petto con irresistibili tremiti
d’ansia.
-
Circondatesi le ginocchia con le braccia e ad occhi chiusi si
era lasciato cullare dalla loro magica filastrocca. La
sussurrava lentamente, come a se stesso, per trarne forza,
serenità.
- «...La
pietra rotola sulle acque del lago...
- ...la
pietra corre verso il centro del lago...
- ...la
pietra grezza, la pietra rozza,
- la pietra
scivola, la pietra affonda.
- ...ma
mentre scivola...ma mentre affonda,
- diventa
liscia, diventa tonda...».
- Lentamente
quel sussurro diventò una musicale sinfonia della mente. Iniziò
a crescergli dentro pervadendo ogni parte del corpo. E la
penetrante melodia faceva tacere il battito-ticchettio che
scandiva tutte le paure del suo cuore. Poi sentì come se da lui
quella magia di suono si spandesse verso tutto l’universo
vivente.
- Gli venne
allora di pensare intensamente a Remigio. Ne immaginava ogni
gesto ed ogni particolare del viso. In quello sforzo di
fantasia, a poco a poco, anche l’ultima inquietudine scomparve
per dare luogo a una sensazione di grande pace. Chiuse gli occhi
e s’immerse definitivamente nella nenia che lo cullava.
- Preso dalla
sonnolenza della notte si sdraiò sul terreno umido della grotta.
Sentì che lentamente si assopiva. Fu d’improvviso che il rifugio
gli parve liberarsi dalla penombra. Lentamente veniva invaso da
una nebbia densa di luce lattea. Quella caligine opalescente non
lo spaventava. L’avvertiva come una presenza rassicurante. Era
una ritrovata aura di protezione. In essa sentì che poteva
abbandonarsi e vi si affidò provando a poco a poco una
sensazione di estasi fino ad allora mai conosciuta.
- Poco più tardi sognò di avanzare
attratto irresistibilmente dalla sorgente abbagliante di quella
luce. Vedeva se stesso varcare una porta trapunta di pelle e di
bottoni dorati. Qualcuno lo conduceva tenendolo per mano, ma non
c’era nessuno attorno a lui.
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