Racconto
Il Convivio

Placido Petino

Remigio


Remigio s’ingegnava a fare di tutto in collegio. Un piccolo uomo grigio di capelli, in perenne movimento. Mezzo bonetto da convittore in capo, un vestito sempre uguale e scuro per la dignità del luogo. Dava retta a chiunque, cercava di accontentare ogni richiesta. Se provavi a stare fermo per poco tempo, te lo vedevi saltellare tra i piedi almeno un paio di volte. Proveniva da direzioni sempre diverse e con gli attrezzi più disparati in mano. A volte lo vedevi su una scala, dedito a lavori d’imbianchino.
«... Oh, che si fa Remigio, si batte la fiacca?».
Le solite domande inventate per le diverse occasioni. I convittori se le passavano per gioco. Ma lui non si faceva smontare. Stava sempre allo scherzo.
«... Eh, oggi diamo una sporcatina a questa parete», rispondeva. In effetti, non sempre alla buona volontà conseguiva altrettanta qualità, ma il suo affannarsi animava ininterrottamente la vita del collegio dalla mattina alla sera.
Altre volte replicava con maggiore filosofia.
 «... E che si fa... si fa quel che vuole Dio».
Intanto si fermava per dare una tirata da una preadamitica pipa. Diceva che era stata del suo bisnonno. Da quella frase piena di rassegnazione si capiva che, quel giorno, rimetteva alla provvidenza qualche avversità. Allora lo si lasciava esente da ulteriori lazzi o frizzi.
In fondo quel rinviare a Dio ogni contrarietà, per un uomo semplice, non era soluzione di vita da poco. Lo esimeva da qualsiasi risentimento nei confronti di chiunque fosse la concreta causa umana delle tante misere avversità giornaliere. E così restavano fuori dalla sua logica modesta, ma ineccepibile, reazioni che potessero turbare il clima sereno delle sue circoscritte relazioni interpersonali.
Sin dal 1875 correva da uno stanzone all’altro del collegio. Ora accomo­dava un comodino ora sistemava un tubo ora lui stesso s’inventava qualche altro, più insolito, lavoro. Ogni ripostiglio, ogni angolo dell’immenso caseggiato non avevano segreti per i suoi passetti rapidi.
Era sempre pronto a piantare la faccenda in corso per seguire l’invito ad eseguire una seconda commissione e poi una terza e una quarta. Capitava anche che ad un certo punto le urla di chi gli aveva commis­sionato il primo lavoro lo richiamassero al teatro della iniziale impresa. Era allora tanto lesto a scusarsi quanto altret­tanto rapidamente pronto a riprendere, poco dopo, il suo saltellare da un impegno all’altro.
Il collegio di Monfalcone sembrava essere tutto il suo mondo. Non si allontanava quasi mai per scendere in paese. Quelle poche volte in cui lo faceva non mancavano le battute di qualcuno.
                «Dove si va Remigio così in ghingheri?».
 «Oggi si va a fare un bicchiere di rosso», rispondeva con malcelata malizia che sollecitava la facile immaginazione dei ragazzi.
                A un certo punto le passeggiate di Remigio verso il paese divennero più frequenti. Questa novità allertò ulteriormente la fantasia dei convittori. Ad alcuni di essi venne l’idea di seguirlo. Circolava con insistenza un pettegolezzo. Uno dei ragazzi si era recato in paese per eseguire un incarico e lo aveva visto uscire dalla casa di una vedova, che, ogni tanto, veniva a Monfalcone per rifornire il collegio di varie provviste.
Una sera gli andarono dietro  di soppiatto. Lo videro entrare in quella casa con misteriosi pacchetti in mano. Restarono dietro una finestra a sbirciare.
Pensavano di scrutare scene maliziose, ma intravidero soltanto un semplice spettacolo di tranquillo clima familiare. Remigio a tavola elargiva la mitezza del proprio sguardo alla vedova e a due bambini che pendevano dalle sue labbra. Lo chiamavano zio Remigio.
La loro allegria scanzonata e burlesca svanì di colpo. Si sentirono quasi in colpa per avere violato quell’oasi incontaminata di sentimenti delicati e di riservatezza. Erano scesi in paese certi di ritornarvi con un rinnovato tesoro di pettegolezzi. Risalendo la strada verso il collegio di Monfalcone ognuno di loro avvertiva un inspiegabile turbamento. Non parlarono con nessuno di quella sera. I pettegolezzi su Remigio, da allora, si dissolsero in una nuova mescola di sentimenti.
Vennero giorni in cui pareva che Remigio corresse più del solito. Forse lui sentiva il traguardo vicino e faceva il suo sprint finale. E la sua corsa si fermò in una gelida giornata d’inverno. Il primo, freddo, inverno del nuovo secolo.
Erano i giorni della neve. Si era preoccupati per l’assenza, in­con­sueta a quell’ora, del suo ansioso affaccendarsi. Un evento incredibile. Ogni alba lo aveva sempre visto all’opera.
Sembrava quasi che il tempo si fosse dimenticato di albeggiare, non segnato dalle corse di quel piccolo uomo. Solo a mattino inoltrato si pensò di andarlo a cercare nella sua stanzetta, nella parte più alta del caseggiato. Lo stupore colse padre Carlo Pediconi quando ne aprì la porta. Ancora a quell’ora e nella penombra delle imposte semichiuse, le coperte segnavano un avvallamento a tutti sconosciuto. Non lo si era mai visto a letto e nessuno avrebbe saputo immaginare il riposo notturno di quel continuo sgambettìo.
«Ehi Remigio, sveglia... Sono le nove e mezza e padre Ottavio Procacci ti cerca, ti deve parlare». E lo scuoteva.
«Ma che ti è preso stamattina...». Poi lo lasciò di colpo, trasalendo, quando, giratolo con uno strattone, scorse nel viso, già pallido, di Remigio una immobile e definitiva espressione di silenziose ed ultime scuse.
I ragazzi commemorarono Remigio nel loro inaccessibile rifugio sull’impervio costone del monte Falcone. Lì si riunivano tutti quelli della classe che facevano parte dell’associazione segreta degli “Irriducibili”.
Una buia grotta. L’ingresso lo occultavano con cespugli di rovi. Rischiaravano l’interno con tante candele. Il loro baluginare incerto dava alle riunioni un alone di mistero. Era, ogni volta, una forte suggestione.
Un’antica nenia apriva l’inizio dei lavori delle loro riunioni. La mormoravano in piedi, a capo chino e con le braccia incrociate sul petto.
«...La pietra rotola sulle acque del lago...
...la pietra corre verso il centro del lago...
...la pietra grezza, la pietra rozza, la pietra
scivola, la pietra affonda.
...ma mentre scivola... ma mentre affonda,
diventa liscia, diventa tonda...».
Non si era mai recato da solo in quell’inquietante luogo di riunione. Il giorno do­po la commemorazione di Remigio da parte della  Associazione aveva voluto farlo. Era difficile accettare la sua perdita definitiva. Sembrava che da ognuno degli angoli più bui delle vaste sale o dai lunghi corridoi del collegio dovesse fare capolino d’improvviso per riprendere una delle tante faccende interrotte.
Dario sentiva particolarmente quella presenza impalpabile. Remigio lo aveva vegliato giorno e notte nei lunghi deliri della malaria. Era la malattia che imperversava maggiormente a quei tempi. L’aveva presa in una gita dalle parti delle paludi. I genitori erano in viaggio. Poterono avere notizie delle sue gravi condizioni solo al loro rientro nella casa del lago. Era trascorso un lungo mese.
Tra un accesso e un altro di febbre quello sguardo buono lo richiamava alla realtà. Con mani delicate gli stendeva pezze di refrigerio sulla fronte. Nei momenti di coscienza sentiva le sue parole di conforto. Da allora se l’era raffigurato così il suo angelo custode.
Nella sua fantasia infantile immaginava che se mai Remigio avesse voluto scegliere un posto per avere un contatto con loro da quel suo nuovo ed arcano mondo, avrebbe puntato  proprio sul mistero del rifugio.
Si sentiva lui l’eletto per quell’incontro. Non sapeva spiegarsi il perché, ma ne era certo. Conosceva un passaggio sotterraneo per sfuggire al rigore dei guardiani del collegio. A quell’ora di notte il bosco attorno al costone del monte era denso di fruscii e di stridori inspiegabili. Ogni tanto qualche verso di animale notturno lo faceva soprassaltare. Temeva di perdersi. Riusciva a seguire a stento il viottolo scosceso e circondato da un lato e dall’altro da grandi piante.
Il cuore gli batteva forte. Giunto alla grotta, dopo avere acceso le decine di candele che vi si trovavano, spense la torcia che lo aveva aiutato a seguire il difficile percorso. Cercava, tuttavia, di non guardare nel buio impenetrabile del fondo. Da lì uno stretto passaggio s’inoltrava lungo incredibili cunicoli all’interno del monte. In quelle inesplorate oscurità si annidavano le più inquietanti forze del male. Il lucore delle candele non riusciva a rischiarare quel varco di mistero.
Erano convinti che da lì si sa­rebbe materializzato uno spaventoso mostro: “il terribile”. Sarebbe avvenuto nel giorno segreto del millennio, il giorno della coincidenza misterica dovuta a un insolito disegno degli astri che avrebbe fatto esplodere una travolgente ondata di male sulla terra. Ma loro, gl’irriducibili cavalieri del bene, avrebbero potuto frenare il dilagare definitivo dell’impero degl’inferi.
Quello sarebbe stato il giorno della “grande prova” necessaria per la salvezza del mondo. Gli “irriducibili” avrebbero lottato strenuamente contro il “terribile” e, forse, sarebbero riusciti a sconfiggerlo. Vincere l’avvento del male  avrebbe fatto conseguire all’Associazione il grado della perfezione suprema. Allora, nell’attesa del “giorno del millennio”,  avrebbero svolto il ruolo di inflessibili guardiani di quel passaggio inquietante, presidiando la salvaguardia dell’ultima trincea contro l’invasiva soglia terrestre dell’inferno.
La loro benefica e vigile presenza, le loro nenie evocatrici e gli antichi riti propiziatori di tutte le forze del bene, avrebbero indebolito la forza maligna che nel giorno del millennio sarebbe esplosa da quel varco. Solo così avrebbero potuto volgere in loro favore l’incerto esito di quella che sarebbe stata l’ultima e definitiva battaglia per la salvezza del mondo.  
Entrando nella grotta si era fatto coraggio mormorando la nenia dell’inizio dei lavori, poi si era seduto al posto consueto, alla destra di quello del potentissimo e Grande Inflessibile. Aveva reclinato il capo. Non voleva guardarsi intorno. La luce guizzante delle candele disegnava ombre terrorizzanti sulle pareti della caverna. Avrebbe voluto tornare indietro, fuggire verso la sicurezza del collegio. Ma non poteva, non doveva mancare all’ultimo appuntamento con Remigio. Sentiva che lui non sarebbe potuto tornare un’altra volta. Doveva resistere a quella paura che gli squassava il petto con irresistibili tremiti d’ansia.
Circondatesi le ginocchia con le braccia e ad occhi chiusi si era lasciato cullare dalla loro magica filastrocca. La sussurrava lentamente, come a se stesso, per trarne forza, serenità.
«...La pietra rotola sulle acque del lago...
...la pietra corre verso il centro del lago...
...la pietra grezza, la pietra rozza,
la pietra scivola, la pietra affonda.
...ma mentre scivola...ma mentre affonda,
diventa liscia, diventa tonda...».
Lentamente quel sussurro diventò una musicale sinfonia della mente. Iniziò a crescergli dentro pervadendo ogni parte del corpo. E la penetrante  melodia faceva tacere il battito-ticchettio che scandiva tut­te le paure del suo cuore. Poi sentì come se da lui quella magia di suono si spandesse verso tutto l’universo vivente.
Gli venne allora di pensare intensamente a Remigio. Ne immaginava ogni gesto ed ogni particolare del viso. In quello sforzo di fantasia, a poco a poco, anche l’ultima inquietudine scomparve per dare luogo a una sensazione di grande pace. Chiuse gli occhi e s’immerse definitivamente nella  nenia che lo cullava.
Preso dalla sonnolenza della notte si sdraiò sul terreno umido della grotta. Sentì che lentamente si assopiva. Fu d’improvviso che il rifugio gli parve liberarsi dalla penombra. Lentamente veniva invaso da una nebbia densa di luce lattea. Quella caligine opalescente non lo spaventava. L’avvertiva come una presenza rassicurante. Era una ritrovata aura di protezione. In essa sentì che poteva abbandonarsi e vi si affidò provando a poco a poco una sensazione di estasi fino ad allora mai conosciuta.
Poco più tardi sognò di avanzare attratto irresistibilmente dalla sorgente abbagliante di quella luce. Vedeva se stesso varcare una porta trapunta di pelle e di bottoni dorati. Qualcuno lo conduceva tenendolo per mano, ma non c’era nessuno attorno a lui.
 

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