Il Convivio

Antonio Piromalli

Vincenzo Padula, il Bruzio, il brigantaggio


L’unità d’Italia rinnova in Padula le speranze del ’48 quando egli rivendica «i diritti conculcati, intima agli usurpatori del Demanio che lasciano le terre usurpate» (Vincenzo Julia). Allora, nel ’48, gli uccisero il fratello Giacomo: Padula era il campione della lotta alla vanificazione dell’eversione feudale e alla ricostruzione della grande proprietà. Dopo il ’60 Padula è nel moto storico della lotta contro i baroni nuovi, ladri di terre. Il brigantaggio postunitario fu anche tentativo di modificare lo stato politico, economico e sociale da parte di contadini emarginati e sottoproletari e lo Stato unitario compì una scelta politica incorporandosi elementi del vecchio potere dirigente: il compromesso garantiva la repressione dei contadini, impediva la saldatura delle opposizioni, apriva la via alla militarizzazione delle città e delle compagne. Giuseppe Massari nella sua relazione (1863) alla Camera dei Deputati sulle cause sociali del brigantaggio nel Mezzogiorno sosteneva che miseria e squallore erano «naturale apparecchio al brigantaggio» e che l’eredità del sistema feudale aveva lasciato reliquie di ingiu-stizie secolari e la perpetuazione delle prepotenze baronali. «I baroni non sono più» diceva il Massari il quale riscontrava una «tradizione di soprusi e prepotenze» ma non la ricostituzione del blocco agrario-feudale per opera dei nuovi proprietari con l’aiuto, in molti casi, di briganti e manuten-goli al loro servizio(1). La lealtà unitaria, la passione unitaria sono estreme in Padula che nel 1861 abbandona Napoli e il giornale “Il Progresso”  dopo essersi accorto che perseguiva intenti di restaurazione murattiana, ritorna a Cosenza dove il Settembrini lo aiuta perché insegni nel Liceo. Nel 1864 fonda “Il Bruzio”, periodico sul quale egli pubblica i geniali studi sullo stato delle persone, sulla questione silana, sul brigantaggio, sulla religione moderna. Il primo numero uscì il primo marzo, l’ultimo il 28 luglio 1865. Nella condizione, in Calabria, di torpore politico e morale determinato anche dal potere conservato da borbo-nici, reazionari, da parte del clero Padula intende «aiutare il governo in tempi difficili», fare intendere il carattere più moderno (di quello borbonico) del governo monarchico costituzionale, la necessità delle riforme. Padula diventa un apostolo del riformismo e della  modernità, combatte una dura battaglia per le ragioni di fondo con ironia e sarcasmo, con una forma linguistica personalissima, concreta e metafo-rica, che costituisce una sintesi di verità e di arte. Il “Bruzio” nasceva per una battaglia politico-sociale contro le «classi inferme di sonnambulismo», le «feudali prepotenze», le «chiusure egoistiche dell’«ognuno per sé e Dio per tutti», contro l’«indifferenza al bene e alla comune prosperità: e perché questa vita rinasca, bisogna studiare le nostre condizioni, e lo stato delle persone». Le polemiche di Padula miravano a sostenere l’opera del governo e dell’amministrazione locale con una linea politica vicina a quella della napoletana associazione Unitaria Costituzionale. Egli intendeva rendere concreta - come il De Sanctis - l’idea di Risorgimento politico e sociale, che la vita circolasse in tutti i luoghi della sua terra, a costo di lottare contro parassiti, riesumati, riciclati, trasformisti, reazionari. Perciò egli appoggiava l’opera del prefetto di Cosenza, Enrico Guicciardi, che aveva l’occhio ben fermo sulla «quotizzazione delle terre demaniali». Nello stato delle persone in Calabria per Padula «il galantuomo è un panurgo, eguale al re, superiore alle leggi, e che si tiene i magistrati legati al calcagno: parla, e il popolo cade col viso per terra(...). In questa condizione di cose le nostre plebi sono retrive, credule, nemiche del progresso, abiette» e «le questioni di proprietà finiscono a fucilate». Era convinzione di Padula che i manutengoli sostenevano i briganti e li informavano per conto dei galantuomini. Padula scrisse le cronache del brigantaggio con un realismo politico mai più da lui raggiunto, anche perché derivante dalla fiducia di potere essere utile alla democrazia dell’Italia unita, una fiducia battagliera messa al servizio della verità. Denunzie, esortazioni, inviti alle auto-rità fatti da Padula hanno il calore del sentimento popolare. La tensione stilistica dello scrittore corrisponde alla personalità dell’uomo che si riversava nel giornale, che col giornale raggiungeva i briganti nei boschi, i proprietari nei palazzi, i politicanti  in mezzo alle loro faccende.
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Adesso Giuseppe Abbruzzi pubblica il processo subìto da Padula in séguito a querela da parte di Francesco Martire ed è bene perché si vede chiaramente che le direttive moderate del governo relativamente a usurpazioni e  quotizzazioni di terre e della questione silana erano veramente moderate “ope rei pubblicate”, per natura politica, che nes-sun prefetto poteva oltrepassare il moderatismo congruente al ceto dei proprietari (soprattutto di quelli usurpatori), che nessun giornale poteva condurre battaglie infiammatrici in nome della giustizia che andasse oltre gli intenti dei proprietari. La parte di Padula (prefetti, amministratori dello stato) non doveva dimenticare che la volontà politica della Destra non poteva accettare rivendicazioni e attuazioni di riforme che fossero in contrasto con gli interessi  predominanti in coloro che governavano: anche quando le rivendicazioni fossero congruenti con la giustizia, con l’ethos, con l’etnos essenziali del popolo.
Carlo Muscetta a proposito della fine del “Bruzio” ipotizza minacce subite da Padula (come nel ’48) o lusinghe corruttrici. Giuseppe Julia scrisse, errando completamente, che quando il prefetto Guicciardi, già deputato, fu nominato Commissario a Mantova nel 1866 (dopo la fine del “Bruzio”) e senatore dal 1868. Le qualità artistiche e morali di Padula consentono al direttore di trasformare il giornale in un coro di voci e di echi, di oltrepassare la battaglia politica come singolo. Il processo intentatogli dal Martire (sostenitore del blocco agrario) gli toglie la terra sotto i piedi, insieme con lui è accusato il suo sostenitore Guicciardi (volontario nel ’48, col corpo Cacciatori delle Alpi nel ’59, uomo onesto di destra e patriota), lo Stato non si impegna con lui nella lotta contro gli usurpatori. Non si tratta, come è stato scritto, di arretramento di Padula, di arretramento delle idee: si tratta di una imboscata giudiziaria a fine politico (fare trionfare il rappresentante del blocco agrario e averlo – come è avvenuto – deputato dei proprietari in Parlamento), affinché il “Bruzio”, alla vigila delle elezioni politiche, non influenzasse gli elettori di Spezzano Grande continuando ad occuparsi delle usurpazioni delle terre demaniali: «Voi mai poi mai, finché non sia giuridicamente dileguato sospetto di essere usurpatore – scriveva Padula – riuscirete deputato nelle prossime elezioni ché le nostre popolazioni cominciano ad aver senso politico...». Non lo ebbero il senso politico per gli appoggi di cui Martire godeva e che concorsero fortemente a portarlo in Parlamento. Giuseppe Abbruzzi presenta i documenti del fascicolo contro Padula conservati nell’Archivio di Stato di Cosenza e li commenta facendo parlare i fatti che sono, nella fattispecie, crudi: giustamente Abbruzzi osserva che la polemica giornalistica antipaduliana era un pretesto o uno strumento per fare tacere una voce di giustizia e fare prevalere il mantenimento delle usurpazioni. È grande l’amarezza nel considerare che tale finalità di sopraffazione civile e sociale emerge «all’indomani dell’Unità d’Italia», quando, cioè, il sentimento e l’idea di nazione che vince sulle divisioni avrebbero dovuto essere anche sinonimi di sconfitta del “particulare” di guicciardiniana memoria. Il querelante Francesco Martire, prestanome e portavoce degli agrari, dopo essere stato eletto deputato fu nominato presidente della Sottocommissione per la discussione della legge sulla Sila. Del Martire i documenti pubblicati fanno vedere il sentimento di vendetta, il borbonismo, lo zelo nel far privare il “Bruzio” del sussidio della Provincia, l’odio contro un collaboratore di giustizia (un pentito coadiuvante), l’accusa al “Bruzio” di essere «organo officioso della Prefettura», il suo schierarsi col barone Berlingieri e contro il prefetto oppositore delle aste a cui concorresse un solo, gli interessi privati prevalenti su quelli pubblici, i collegamenti col Creso-Berlingieri. Il Padula lo accusa di manutengolismo, di aiuti al brigantaggio in quanto intendeva mettere in disaccordo le autorità antibrigantaggio, di avere trascorso vari mesi fra i briganti senza averne riportato danni, minacce o pericoli. La sentenza del Tribunale di Cosenza fu sfavorevole a Padula che venne condannato, ma la Corte di Appello di Catanzaro ha saputo intendere la posizione culturale e mentale di Padula e le provocazioni di cui egli è stato oggetto e ha dichiarato il non luogo a procedere penalmente contro l’appellante. Il Bruzio era un ostacolo e un pericolo per l’elezione di Martire il quale doveva entrare in Parlamento per difendere gli usurpatori delle terre. Il problema era ancora quello della terra e Padula si trovò spiazzato e non sorretto dalle forze rinnovatrici. Le vicende di questo processo edito da Abruzzi dimostrano quale uso è stato fatto dei veleni per impedire l’evoluzione della società e il trionfo delle idee unitarie qualora queste fossero collegate con il mutamento sociale: la sconfitta di Padula – che viene ridotto al silenzio – rende più umana la figura di un patriota che, come altri, viene sconfessato e represso quando cerca di operare per il bene pubblico. Anche gli avvenimenti epici e gloriosi sono spesso contornati da uomini e fatti lutulenti e vergognosi.
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(1) Per il problema del brigantaggio cfr. A. Piromalli in V. Padula, Cronache del brigantaggio in Calabria. 1864-1865, Napoli, Athena 1974 e A. Piromalli, in Terre e briganti, Messina –Firenze, D’Anna 1977.
 

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