Gianni
Rescigno,
poeta del nostro tempo
Scrivevano da qualche parte: «Amiamo i poeti che, parchi e
appartati, distillano con cautela i propri versi (non esiste del resto
una poesia alla spina): osservatene le pause fra un comporre e
l’altro. Può essere già un indizio: quantomeno di serietà. A loro
sentiamo di dovere più grata attenzione». Gianni Rescigno appartiene a
quest’amabile specie. Lo incontrammo per la prima volta, in una
estate lontana, a Santa Maria di Castellabate. Qui viveva la sua
condizione di poeta, di uomo, di insegnante. In quest’angolo del
Cilento era approdato per la sua missione di insegnante e di questa
terra avvertì le ansie, i problemi sociali, il fascino del mare: e
della riviera cilentana mostrò un’appartenenza filiale quasi a
sigillare un rapporto che, nel nostro tempo sempre più forte, si
sarebbe cementato con tremori amorevoli.
Ci mostrò i suoi primi versi che
celava con pudore infantile. Li leggemmo, senza alcuna distrazione.
Fummo attratti dalla evidente tendenza a cogliere il tempo, delle sue
problematiche, una sequenza ch'era percorso di vita. E infatti, poi,
la caratteristica della poesia di Gianni Rescigno è stata quella di
una continuità di un discorso dalla tendenza narrativa o più spesso
meditativa: e la discorsività è stata sempre scavata nella interiorità
della pagina: e l’oggetto narrabile non è stato mai diverso dal
narratore e, quindi, ne sono scaturiti, negli anni, perciò versi in
sorprendente equilibrio lirico/narrativo.
Tale aspetto apparve nella silloge
“Credere” (1969) che segna il vero esordio di un poeta sconosciuto.
Un’opera pubblicata da un editore di provincia: Gugnali di Modica. E
Gianni Rescigno subito scavò un solco tutto personale nel quale
riversava il suo entusiasmo: con una volitività alienata da
incrinature, che testimoniava di una poesia come rifugio e
consolazione, in un dialogo sospeso fra epoca re cronaca. In questa
volontà di riscatto c’è tutto Rescigno. Poesia scarna, tiratissima.
Poesia che rivela un suo segreto nel dipanarsi del tempo, con stagioni
che si susseguono, attese di tempi nuovi, speranze di un futuro che
non può mancare: «Mi ritroverai / nell’azzurro riflesso / delle
concave foglie / e di capelli scenderanno / acquemarine di freschi
abeti».
Scriveva Giuseppe De Mauro che
«Credere è il primo slancio dell’esistenza per questo poeta. L’uomo
ascolta voci che s’odono in alto, ed interroga se stesso, alla ricerca
di una verità eterna, dello stesso significato e ruolo; E' un continuo
tendere verso l’infinito che l’umano viene messo come un contrapposto
al divino, il finito all’infinito». Spoglia di ogni termine sonoro, di
ogni indulgenza alle vibrazioni esasperate, la poesia di Gianni
Rescigno conquistò subito i «graffiti del vivere» con un profondo
retroterra umano e sociale. Ed il suo ‘volo’ apparve ricco di un’ampia
seduzione con un sogno a cui il poeta anelava: fare del suo messaggio
la coscienza efficace di un'infinita ombra del vero.
Da quel lontano 1969 Gianni Rescigno
ha offerto una sua continua e viva testimonianza poetica. I volumi si
sono succeduti nell’arco dell’esistenza con una continuità di vita e
d’amore; non sono mancate le attenzioni critiche da parte di illustri
uomini di cultura. I libri: Con le dita di un vecchio (1970),
Quest’elemosina (1972), Torri di silenzio (1976), I
saliciI vitigni (1983), Le ore dell’uomo (1985), Tutto e
niente (1987), Un passo lontano (1988), Il segno
dell’uomo (1991), Angeli di luna (1994), Un altro
viaggio (1995), Le strade di settembre (1997), Farfalla
(2000), Io e la Signora del Tempo (in corso di stampa). I
critici: Fabio Tombari, Giorgio Caproni, Maria Luisa Spaziani, Elio
Filippo Accrocca, Francesco Bruno, Giorgio Barberi Squarotti, Stefano
Jacomuzzi, Walter Mauro, Alberto Frattini, Giuseppe Giacalone,
Francesco D’Episcopo, Ferruccio Ulivi, Alberto Mario Moriconi, Renata
Giambene, Vittorio Vettori, Luciano Luisi, Maria Grazia Lenisa,
Domenico Cara, Dante Maffia e tanti altri ancora.
Tutti hanno posto in risalto che la
sua poesia nasce dalla riflessione, dall’equilibrio, dalla pazienza.
Che è rigorosa e severa, così come il suo verso, e come è il
linguaggio di cui si sostanzia, denso di pensiero e forte di
intellettuale lucidità. Che la parola di Rescigno non cerca
l'avventura linguistica, ma si offre, anzi, nuda, senza orpelli di
sorta, subito affabile e comunicativa, alla ricerca, semmai, di una
perentoria verità. Che la sua poesia è suadente e piana, scende in
profondo e convince, per intensità di linguaggio e lindore di Parola;
che si trasmette e coinvolge.
In una sorta di
intervista-questionario Gianni Rescigno, come autoritratto schietto,
aveva affermato: «Fin da ragazzo sentivo in me qualcosa che si
muoveva: avevo bisogno di fuoriuscire attraverso la parola; e dedicavo
ardenti lettere d’amore alle mie innamorate. La poesia nacque più
tardi: quando mi allontanai da casa per motivi di lavoro (1959). Ero
nato a Roccapiemonte, terra dell’agro nocerino in provincia di
Salerno. Nel Cilento trovai terreno fertile e vi piantai parole. La
condizione umana e sociale di quella gente mi colpì particolarmente.
Troppo lavoro sulle barche e nei campi e troppa miseria. Ma la natura
stupenda, intatta, diventava sempre più possessiva. Mi prese l'anima e
vi restai».
Tale affermazione o tali sortilegi
emergono nella produzione lirica del poeta. Fanno da sfondo a un
discorso che si innerva in una terra assolata e verdeggiante, con un
mare azzurro e cieli stupendi; e l’impronta della parole appare
attraverso persone, paesaggi di costa o di collina, stagioni di magra
o di crescita, tra le rughe del tempo e il rinnovarsi perenne delle
acque e dei venti, dei passi che hanno i connotati del presente. Ecco
che Rescigno si chiede: Cosa sono il sorriso e il dolore, se non il
simbolo irrelato di due distinti momenti della vita, quasi gli emblemi
di alterne stagioni che scandiscono il ritmo dell’esistere?
Con una poesia, poi, che si
caratterizza per il garbo della pronuncia e per la gentilezza schiva e
discreta, il poeta registra la realtà autobiografica in un clima di
gradevole coordinazione semantica, significativa, dove l’allusione
poggia su metafore. Le trame stagionali della vita, gli eventi
biografici e domestici sono così legati tra loro in una sorta di
palpitante trascrizione che ha la delicata favolosità di un paesaggio
dell’anima, come in una segreta confessione in quell’alternarsi di
impazienze, di attimi sfuggenti di gioie e di segrete altalene di cui
è costellato il percorso della vita: «I pini della costa / incensano
venti / diretti alle montagne».
La realtà fenomenica con la serie dei
suoi diversi aspetti e con la varietà delle sue percezioni è sempre
alle soglie della sua capacità intuitiva, la quale sempre effettua una
fedele registrazione dei movimenti della realtà stessa che non si
esaurisce in una piatta ed infeconda elegia, perché con una resa
serenamente e quietamente mitica, la originaria verità esistenziale si
fa carica di un clima di fantasmi e realtà, linee e figure
emblematiche della soggettiva vita segreta, vengono riplasmati e
trasfigurati. Allora si coglie il bel preciso rapporto tra quella che
è la vicenda umana del poeta con le sue sommesse e solitarie avventure
dello spirito e della verità delle cose nel loro inesausto riproporsi
al di là dell'ordito dei sensi. Tale rapporto lo aveva anche colto
Renzo Barsacchi allorquando scriveva che Gianni Rescigno gli era
piaciuto veramente «per l’intensa serietà e spesso per l’intensa
drammaticità del vissuto e reso con immagini forti e sempre adeguate
al fermento che le agita». Ed in più Tommaso Pisanti rilevò pure «una
evocatività di memoria e di natura che passa fino a un’accentuazione
più drasticamente coinvolgente, più situazionale».
Di tutta la precisa esperienza poetica
di Gianni Rescigno si è interessata Marina Caracciolo col suo ampio
saggio “Gianni Rescigno: dall’Essere all’Infinito” pubblicato dalla
Genesi Editrice di Torino con una bella nota introduttiva di Giorgio
Barberi Squarotti. Una profonda analisi del mito, della storia e dei
simboli della poesia di Gianni Rescigno. Un’analisi che colloca Gianni
Rescigno nel solco di quella poesia mediterranea che tra il mare e le
colline, le pianure e le valli, si permea di sapori e di colori
agresti e marini, che non ignorano, però, «la pianta della
sofferenza».
Ciò è giovevole come chiave di lettura
del sintomo umorale dal quale Rescigno proviene. Il linguaggio cui
egli è pervenuto in tutte le sue raccolte di liriche, è frutto di una
ricerca studiatamente personalizzata per aguzze geometriche della
parola; per fulminee alternanze dell'incanto e del disincanto della
verità; per folgorazioni mitico-storiche. Immagini smaterializzate in
essenze (l’amore, la verità o la vita.), migranti da forma a forma, da
misura a misura, da passione a passione. E la storia come mito e il
mito come storia: crepuscoli del cercare, del perdere, del trovare,
del visibile dentro l'invisibile, di uno svariare di forme dentro una
microforma, del suono perso nell'ultrasuono per memorie furtive, e per
audaci recuperi. Tutto nel simbolo-segno dell’occhio-poesia
rivelazione, appunto, fantasioso e sapiente. Marina Caracciolo nella
sua disamina analitica, minuziosa e appassionata, non sposta mai le
sue intuizioni verso sfere surreali, ma reperisce la bellezza del
canto in ogni forma per cui la parola assume sempre valore di simbolo,
nucleo essenziale e dinamico (e favoloso) delle determinatezze dove si
contrappongono le ipotesi del circuito esistenziale: e la storia di
una terra diventa mito e il mito si fa storia. (*****)Crepuscoli del
cercare, del perdere, del trovare, del visibile dentro l'invisibile, e
uno svariare di forme per una microforma, per memorie furtive, e per
audaci recuperi. (*****) In questa caleidoscopica geografia della
pagina Gianni Rescigno riassume in spazio essenziale infinite
latitudini: e l’occhio-poesia-rivelazione diventa fantasioso e
sapiente.
Ed è proprio in questa misura
mitico-epifanica che gli isolati sentimenti del poeta vengono a fare
parte di un contesto affettivo-umorale paradigmatico, memoria di un
eden frammentato che si ricompone tessere per tessera in un quadro
unitario.
Orbene, Maria Luisa Spaziani annotava
ch’era stata «colpita dalla straordinaria nettezza del suo discorso
poetico, la strenua economia della sua prosodia»; Angelo Mundula
aggiungeva che per Rescigno «la parola ha acquistato una limpidezza
straordinaria, quasi toccata dalla grazia e dalla bellezza delle
verità ultime!»; Salvatore Arcidiacono stigmatizzava di «una poesia in
cui l’invenzione è fervida, il lessico equilibrato, non scevro di
forza lirica». Ancora scriveva che si era in presenza di una «poesia
originale, dignitosa, virile, che si distacca nettamente dai giochi
combinatori, dalle futili sgombrature e che tuttavia si snoda
evidenziando musica antica e nuova e ritmo mai slabbrato».
Se si ripercorre tutto il cammino
artistico di Gianni Rescigno, attraverso i suoi tanti volumi di versi
che hanno segnato, poi, il destino di un uomo, si nota che fatti,
richiami, miti, personaggi, immagini vengono sempre rigenerati con una
struttura stilizzata per approdare a un tema entro cui ritrovi il
Cilento, il mare, le colline, il padre, la madre, la famiglia e tutto
un mondo che il poeta lascia vivere nel profondo dell'anima sua. Così
tutte le storie minime non hanno un ruolo esemplificativo, ma occupano
in un piano di rappresentanza di altre storie ed emozioni la
testimonianza fervida di un repertorio degli assoluti sentimenti di
ogni storia, di ogni umanità, di ogni tempo. E l'individuale diventa
universale col sentimento carico di tempo e di immagini poetiche
convertibili in diario di vita. Le stagioni, il trascorrere degli
anni, il paese natale, gli affetti più cari, il mare, i colli
cilentani, i pescatori: qui si tuffa Rescigno e qui ritrova il senso
lineare della vita: e la continuità tematica si congiunge con indagini
a tutto campo ed il poeta, poi, definisce il ‘suo’ tempo come ritorno
a stagioni lontane per magnificare, tra realtà e surreale, in una
dimensione temporale, con ritmi estesi e lineari, le radici di una
vita, con un canto dolente che bene esprime i segni ed i sogni di un
percorso esistenziale: «Sento che l’andare è ritorno. / Alla terra che
non vidi (e che avrò) si dirige il mio passo».
Nella magia che Gianni Rescigno sa
creare con i suoi versi egli spicca un volo intuitivo e fantastico,
per proiettarsi nei riverberi marini, nel volo di uno stormo di
uccelli e svela il senso meraviglioso della vita, per quanto dolente
essa possa essere stata per lui. Nella parvenza di fragilità, di
lievità paragonabile a un battito di ciglia, anche noi avvertiamo il
calore che egli interiormente avverte, grazie a quell’afflato umano
che egli sa creare con la sua cartografia di polline, un polline che
vivifica e dà speranza.
Ecco, allora, bagliori e scaglie di
luce-parola che tentano di ricostruire con termini originali, nudi,
anche l’essenza del linguaggio, come controcanto dell'essere.
Gianni Rescigno meritava uno studio
monografico. Per la sua trentennale attività e per la sua costante
presenza nel mondo della poesia contemporanea. Bene ha fatto Marina
Caracciolo a studiarselo ed a esaminarlo quasi con pedanteria. Ne ha
tracciato un profilo profondo, umano soprattutto. Ed anche se fior di
critici ne avevano scritto in termini più che lusinghieri, nessuno ne
aveva seguito il percorso lirico con razionalità, ed oggi, tutta la
sua produzione, è stata oggetto di uno studio che ha evidenziato, tra
le righe, la figura di Gianni Rescigno che davvero è un testimone del
nostro tempo precario e turbinoso.
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