Il Convivio

Celestina Vincentini

Una tragedia moderna

Primo Premio Il Convivio 2002

In una cella di un carcere femminile a Torino, una donna, Maria Pia, vive un’esperienza molto dolorosa. È stata arrestata con l’accusa di avere soppresso il figlioletto di tre anni, nella sua bella casa di S. Vincent, in Val d’Aosta. È guardata a vista con timore. Per il suo folle gesto mancano il movente e l’arma del delitto. La donna è come pietrificata, senza lacrime, ostinata a gridare la sua innocenza.
«Cucù, cucù... indovina dove sono? Cercami!
Ah, che bello, non mi trovi!!
Sono quiiiii.
Ma perché non mi cerchi?
Sono quiiiii. Basta: tu non vieni, allora io...».
La donna molto agitata:
«Basta lo dico io. Vieni subito fuori. Metti tutto a posto e poi subito a letto».
«No, mammina, voglio vedere papà. Quando torna? Voglio giocare con lui. Perché tu non vuoi giocare mai con me? Giochiamo? Io faccio il gattino e tu mamma la gatta. Miaoo, miaoo».
Emanuele esce dal nascondiglio e imitando il gatto, urta e fa cadere a terra il vasetto con i ciclamini rossi, posto sulla mensoletta vicino alla porta del soggiorno.
Il rumore si ingigantisce, rimbomba nelle orecchie di Maria Pia, già infastidita dall’idea di dover raccogliere la terra nera sparsa ovunque, i cocci del vaso, i fiori spezzati e maltrattati. Ha molta fretta: a minuti passa il pulmino e lei non è ancora pronta per accompagnarvi Silvio.
Rimugina dentro di sé:
«Che ho fatto di male per meritare un figlio così discolo? È stato un tormento continuo, ancor prima che nascesse! Mi bastava solo un figlio, non volevo averne un altro! Non sono una scrofa come mia madre che, incosciente, ha messo al mondo tanti figli. Non ricordo mai un gioco, un divertimento, sempre a pensare alle bambine. E per fortuna, i maschi erano più grandi ed andavano tutti a scuola. Io no. Io dovevo stare a casa a cullare le gemelline, a far giocare quella peste di Lalla, sempre ammalata, a ordinare le loro camerette, a spazzare il cortile».
Si sente un nodo alla gola, che caccia subito indietro.
«Dopo Silvio, eccomi in attesa di Emanuele! Che rabbia: ricominciare con le pappine, con le notti insonni, con l’incubo dei vomiti, delle bronchiti, dei febbroni!
- Matteo - quante volte l’ho supplicato, - non mi sento pronta per un’altra gravidanza. Rinviamola.
- Ma tu sei per Silvio, può essere bello crescere con un fratellino.
- Ti prego: ho il terrore di ricominciare a soffrire. Ho il terrore di vederli ammalati, di stare a casa a curarli, sacrificandomi sempre ed esclusivamente per loro».
Tornando in sé:
«Curarli, Dio mio, ho detto curarli. Ma Emanuele non c’è più e Silvio dov’è? Dov’è Silvio? E dove sono io?».
Esterrefatta si guarda attorno: uno spazio esiguo, simile alla cameretta di Emanuele, con le pareti celeste, l’armadio ed il lettino. Angosciata:
«Perché mi trovo qui? Perché mi hanno portata qui? Perché? Pensano che Emanuele sia andato via per colpa mia».
Dopo attimi di intenso dolore:
«Mamma, non è colpa mia, è stata Lalla a far cadere per le scale la gemellina. Non mi credi? Perché non mi credi? Basta con le urla! La testa mi scoppia!».
Maria Pia meccanicamente alza le mani e le stringe con forza attorno al capo. Sta immobile con gli occhi chiusi.
«Come sei carina! Come ti chiami?
Ah, Maria Pia!
Hai due nomi? Racchiudi due persone in una: Maria e Pia.
Siedi con me. C’è pure un bicchiere per te.
Brindiamo al nostro incontro: evviva, evviva!...».
Matteo puntualmente ogni giorno si reca al ristorante, dove lavora Maria Pia, per consumare con lei la colazione durante la pausa di lavoro. Si intrattiene volentieri a parlare con lei. Scopre che sono entrambi emiliani, che si trovano entrambi lì per lavoro e che, finita la stagione, rientreranno entrambi in famiglia, nei loro paesi di origine.
Lì, a S. Vincent, si sentono soli, perciò, quando possono, si incontrano per passeggiare. Stanno bene assieme, anche se per carattere molto diversi.
Maria Pia è spesso taciturna e misteriosa, schiva ed insicura. Confessa di avere accettato quel lavoro per desiderio di evadere, di sottrarsi alla sua numerosa famiglia, agli ordini della mamma, ai capricci delle sorelle, ai divieti del padre e dei fratelli, senza più doversi giustificare ed addossarsi le colpe altrui.
Matteo rimane disorientato da tali discorsi e prova una grande tenerezza ed amore per una creatura così fragile e strana.
«Non sono stata io. Sono innocente.
Sono innocente.
Perché mi guardate così?
Appena l’ho visto tutto coperto di sangue, ho chiamato subito il medico per soccorrerlo».
«Sei odioso, mi distruggi con il tuo pianto, Emanuele. Perché non sei buono e bravo come Silvio? Ti ho portato qui, nel mio letto e tu continui ancora a strillare!
Smettila o... ti ammazzo...».
Continuando.
«Matteo, mi lasci sempre sola tutto il giorno, torni a casa di sera ed hai carezze solo per i bambini, anzi solo per Emanuele! È lui che ti fa divertire, è lui che ti stimola a tornare a casa. Altrimenti non torneresti. Ma dov’è che sbaglio? Ho accettato di vivere con te qui, a S. Vincent, lontano dal mondo nella più completa solitudine per me. Mi sforzo di intrattenere i tuoi amici che hai incominciato ad invitare sempre più spesso, come se io non ti bastassi».
«Silvio, aspettami fuori.
Emanuele, tu vai dentro.
Emanuele, perché non mi ascolti?
Perché continui a strillare?
Sei un tormento!».                                             
Lo afferra con forza, lo trascina dentro, lo spinge sul letto. Ma Emanuele ha paura, non vuole restare da solo,  vuole andare anche  lui con Silvio sul pulmino.
«Emanuele, torno subito, guarda: ti accendo la TV.
Ubbidisci. Non mi ascolti?
Impara ad ascoltarmi!
Stai fermo!
Ecco: guarda come si fa!».
Nel trattenerlo, prende con impeto la statuetta di bronzo, a portata di mano sul cassettone. Ma lui si divincola. Maria Pia lo minaccia con la mano alzata che impugna la statuetta. È un istante: Emanuele per difesa o per imitazione alza anche lui la manina e la porta al viso. Viene colpito, piange ancora di più.
Maria Pia non riesce a fermarlo, a frenarlo, colpisce ancora, ancora, ancora...
Finalmente... tace!
Lo ricopre con il piumino.
Rilassata, finisce di vestirsi ed accompagna Silvio alla fermata del pulmino.
Rientra subito, si dirige verso il lettone:
«Cucù, cucù. Sono mamma gatta che mangia il suo gattino. Miaooo, miaooo... ooooo!!!».
 

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