Sito dell'Anfim, Associazione nazionale famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria

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IL NUMERO DELLE VITTIME

Il giorno successivo, il 25 marzo, il Cap. Schutz e il Cap. Priebke riferivano al Kappler che da un riesame delle liste, risultava che i fucilati erano 335. Il secondo di quegli ufficiali spiegava che la fucilazione di cinque persone in più del numero stabilito dal Kappler era dovuto al fatto che nella lista del Questore Caruso le vittime non erano segnate con un numero progressivo ed erano cinquantacinque invece di cinquanta. (lnterr. Kappler ud. del 5-6-1948). lI 25 marzo i giornali italiani, che in quel tempo venivano pubblicati alle ore 12, recavano la notizia dell’attentato di Via Rasella e della fucilazone di dieci “comunisti badogliani” per ciascuno dei 32 soldati tedeschi morti. I fatti esposti succintamente circa l’attentato di Via Rasella e della fucilazione effettuata alle Cave Ardeatine risultano provati dalle dichiarazioni dei testi Moellhansen Presti, Galloni, Frigenti, Amon Coffler, Alianello, Usai, Delle Moracce, Pars, Feliciangeli, D’Annibale, i quali presenziarono ciascuno ad alcuni degli avvenimenti narrati e dalle confessioni degli stessi imputati.

La descrizione dell’attentato

In merito alla preparazione ed alle modalità di esecuzione dell’attentato del 23 marzo 1944 si accertava (dich. Bentivegna, Salinari, Calamandrei) ciò che ormai era noto per le notizie pubblicate dai giornali dopo la liberazione di Roma, e cioè che in quel giorno una squadra di partigiani comandata da Carlo Salinari aveva avuto affidato il compito, in base ad ordine del capo della formazione militare di cui faceva parte quella squadra, di attaccare una compagnia tedesca che da diversi giorni era solita fare un uguale percorso attraverso il centro di Roma. Alle ore 14 del detto giorno il partigiano Rosario Bentivegna, travestito da spazzino, percorreva Via Rasella spingendo una carretta carica di 12 chilogrammi di esplosivo ed attorno a questa altri sei chilogrammi di esplosivo. Giunto a metà circa della strada, all’altezza del palazzo Tittoni, il Bentivegna si fermava, in attesa che giungesse la compagnia tedesca, che soleva passare per quella strada alle ore 14,30 circa. Un po’ in giù del posto in cui era stata fermata la carretta, all’angolo di Via Boccaccio, si trovavano altri partigiani compagni di squadra di Bentìvegna. Con essi era anche il comandante della squadra Salinari ed il V. Comandante Calamandrei. Alle ore 15 circa quest’ultimo si toglieva il cappello per indicare al Bentivegna che la compagnia aveva imboccato Via Rasella e che la miccia per l’esplosione doveva essere accesa. Quest’ultimo accendeva la miccia, chiudeva il coperchio della carretta e si allontanava verso Via Quattro Fontane. Appena egli imboccava questa strada avveniva lo scoppio dell’esplosivo contenuto nella carretta. La compagnia veniva investita dallo scoppio dell’esplosivo: molti soldati morivano immediatamente altri rimanevano più o meno gravemente feriti. Intanto i partigiani che si trovavano in Via del Boccaccio attaccavano con lancio di bombe a mano la compagnia quanto mai disordinata e, quindi, si allontanavano. Risultava poi (dich. Amendola, Pertini, Bauer) che l’attentato rientrava in quelle direttive di carattere generale della Giunta Militare tendenti a costringere i tedeschi a rispettare la posizione di città aperta di questa capitale, direttive che ciascun componente della Giunta era chiamato a fare attuare alla formazione da lui dipendente. Un punto di grande rilievo, che va chiarito nei suoi giusti termini per le conseguenze giuridiche che ne derivano, è quello del numero delle vittime e del modo come si giunse ad esso.

Le conseguenze giuridiche

La popolazione attraverso il citato comunicato del 25 marzo e la propagan­da della stampa, sapeva che il numero delle vittime era di 320 e di esse, qualche mese dopo l’esecuzione, conosceva i nomi a mezzo di elenchi compilati da funzionari italiani molto vicini al comando di polizia tedesco. Solo a seguito del dissotterramento delle vittime effettuato vari mesi dopo la liberazio­ne di Roma, si scopriva che il numero di esse era di 335. Si è esposto come si giunse a questo numero, occorre ora determinare I’esatta causa che condusse alla fucilazione di 15 persone, di cui si è sempre taciuto da parte delle autorità tedesche. Il Kappler dichiara, come si è visto di avere ordinato la fucilazione di dieci persone in aggiunta alle 320 perché aveva saputo, dopo aver dato le disposizioni per l’esecuzione, che era morto un altro soldato tedesco fra quelli rimasti feriti in Via Rasella. Accertata questa versione. è necessario stabilire se egli aveva la facoltà di ordinare questa ulteriore fucilazione. Dal complesso degli elementi scaturiti dal giudizio risulta che il Kappler non aveva quella facoltà. Invero, il Gen. Maeltzer gli disse che l’ordine ricevuto, il cui contenuto relativo alla proporzione era stato notificato al Kappler dal maggiore perché avesse modo di preparare la lista delle vittime, proveniva da Hitler e, quindi, gli diede ordine di provvedere alla fucilazione delle persone delle quali si era discusso. Quest’ordine fu dato al Kappler, come si è visto, dopo che quel generale era stato informato circa i criteri adottati nella compilazione delle due liste e dopo che era stata scartata l’idea di fare eseguire la fucilazione da militari del Battaglione “Bozen” o dalla 14ma armata, L’ordine generico ricevuto dai Maeltzer si trasformò nei confronti del Kappler in un ordine concreto di fucilare le 320 persone comprese nelle due liste. Ciò trova una conferma nel fatto che la competenza di approvare la scelta dei fucilandi era del Gen. Maeitzer, al quale fu portata la lista di duecentosettanta persone e fu detto che entro un’ora si sarebbe ricevuta l’altra di cinquanta persone, compilata con gli stessi criteri adottati per la prima. Inoltre, posto che il compilatore della lista poteva essere diverso da quello che provvedeva all’esecuzione (il che sarebbe avvenuto se l’esecuzione fosse stata effettuata dal Battaglione “Bozen” o da un reparto della 14ma armata come era intenzione primitiva del Generale Maeltzer) è logico dedurre che l’esecutore aveva la soda facoltà di fucilare il numero di persone ordinatogli dal comandante della Città di Roma e messogli a disposizione. Il che, d’altra parte, risponde alla pratica degli esercizi nei quali gli ordini possono essere generici per gli organi di Comando o direttivi, mentre sono sempre tassativi per gli organi meramente esecutivi. Altra prova contraria alla facoltà assuntasi dal Kappler è data dal comunicato del 25 marzo, nel quale il numero dei fucilati è dato come decuplo a quello del 32 soldati tedeschi morti. L’imputato afferma che dopo aver ordinato la fucilazione delle dieci persone in questione si dimenticò di informare l’ufficio stampa dell’Ambasciata per una rettifica del comunicato, che nella mattinata era stato completato in base ai dati da lui forniti. Ma questa giustificazione è un ripiego difensivo assai fragile, sia perché il fatto nuovo era di una tale importanza da non potere essere dimenticato come una qualsiasi banale pratica burocratica, sia perché l’imputato, sempre ordinato e preciso nell’espletamento delle sue funzioni, non era l’uomo che tralasciava di segnalare un episodio di grande importanza. L’imputato ha dichiarato che, alle ore 11 del 24 marzo, su richiesta dell’Ufficio stampa dell’Ambasciata tedesca, aveva informato che il numero dei soldati tedeschi morti era di 32. Ma questa affermazione che vuole costituire iI sostrato per fare reggere in parte la mancata rettifica, è illogica ed infondata. È noto, difatti, che i comunicati relativi all’attività militare nella città dì Roma venivano passati alla stampa dal Comando Militare tedesco di questa città. Di conseguenza se l’Ufficio stampa dell’Ambasciata intervenne in tale questione, sicuramente lo fece sulla scorta dei dati forniti dal Comando Militare della Città di Roma. Una prova della ingerenza di questo comando sui resoconti della stampa romana è data da un convegno di direttori di giornali romani che, qualche giorno dopo l’esecuzione delle Fosse Ardeatine, si tenne presso quel comando, alla presenza del generale Maeltzer, onde discutere dell’attentato di Via Rasella, delle misure adottate e dell’opportunità di esortare la popolazione a reagire contro gli attentatori. Va poi messo in rilievo che nei giorni successivi al 25 marzo la stampa romana (per esempio Messaggero del 28 marzo, prima pagina); seguendo le direttive impartite in tale convegno dal generale Maeltzer continuò a parlare della fucilazione di 320 persone in relazione alla morte di 32 soldati tedeschi. Eppure era noto a quel comando militare che il numero delle vittime era di 335 e i militari tedeschi morti erano aumentati di una unità. Perché questo silenzio? Se la fucilazione delle Cave Ardeatine aveva avuto lo scopo, come dice il Kappler, di prevenire altri attentati, con una durissima esecuzione in massa, non contrastava con questa finalità il rendere noto alla popolazione in numero inferiore a quello effettivo? Gli è che il comando militare di Roma non aveva condiviso l’azione arbitraria del Kappler, che si aggiungeva ad un atto di guerra di per se stesso inumano, e non aveva voluto rettificare le cifre date in precedenza per il completamento del comunicato. È bene notare che anche lo stesso Kappler alcuni giorni dopo il 24 marzo parlava della fucilazione di 320 persone. “Qualche giorno dopo (il 25 marzo) -dichiara il teste Alianello (vol. VIII f. 33)-in mia presenza e potendo io sentire, Kappler disse che lui e tutti i suoi ufficiali come pure i suoi uomini, avevano preso parte alla rappresaglia contro 320 uomini civili alle Fosse Ardeatine”. Non è esatto, difatti, che le cinque persone fucilate in più siano fra quelle che erano a disposizione della polizia italiana e che esse siano sfuggite al controllo perché la lista di accompagnamento del Caruso indicava le persone senza numeri progressivi. In base al riconoscimento delle salme, che finora si riferisce a 332 persone, è risultato che 49 di esse sono di detenuti che erano a disposizione della polizia italiana e corrispondono a 49 nominativi della lista Caruso. Per il completamento di questa lista manca un nominativo, quello di De Micco Cosimo, la cui salma non è stata ancora riconosciuta ed è da presumere sia una delle tre non identificate. Devesi ritenere, pertanto, che le cinque persone in più provengono dai detenuti a disposizione dei tedeschi. Va poi osservato che non è esatto che la lista dì accompagnamento dei 50 detenuti a disposizione della polizia italiana provenisse dall’ufficio del Caruso, essendo risultato che il commissario Alianello portò due copie della lista Caruso e di esse una la diede al direttore del Carcere, l’altra la trattenne.