Sammichele di Bari — Centro Studi di Storia Cultura e Territorio

GLI ANTICHI MESTIERI

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Disegno di Peppino Lerario

Testo di Giacomo Spinelli

 

IL BRACCIANTE

 

“In capo a tutto c'è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi il nulla, poi ancora il nulla, poi ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito.” (Ignazio Silone, Fontamara, 1933)

Questa  era la considerazione in cui erano tenuti i nostri braccianti, i cafoni, sino a non molti decenni fa.

La sera, per il bracciante, c’era un atto di estrema importanza da compiere: trovare lavoro per il giorno successivo. Il luogo deputato per simile attività era la piazza, era lì che avveniva l’incontro tra il bracciante ed il proprietario o il suo uomo di fiducia. La trattativa, in genere, era estremamente rapida; bastavano poche parole perché il bracciante dichiarasse la sua disponibilità a lavorare, accettasse il compenso propostogli ed effettuasse la promessa di andare a lavorare il mattino seguente. A premètte, a promettere, era definita, infatti, questa operazione. Una volta effettuata la “promessa”, raramente il bracciante mancava alla parola data; anche se dopo pochi minuti gli veniva fatta una proposta più conveniente, in genere, manteneva sempre la prima parola data. Si sarebbe fatto, altrimenti, un cattivo nome. Spesso, poi, si accettava una paga più bassa a fronte della possibilità di lavorare per più giornate consecutive. Non molti erano i cosiddetti “abituali”; quelli, cioè, che lavoravano sempre per lo stesso padrone. Se i braccianti arrivavano, per “promettere”, da un altro paese, dovendo recarsi nei campi prima dell’alba, spesso, specialmente d’estate, si fermavano a dormire sul sagrato della chiesa. Così li rappresenta Peppino Lerario nel suo disegno.