Padre Ernesto Balducci

Coscienza politica e nuova condizione dell'uomo

Filottrano, lunedì 12 novembre 1990

(testo non corretto dall'autore)

 

Credo di non commettere nessun atto di incoerenza se, calandomi come mi è capitato stasera nell'avvicinarmi a Filottrano insieme a Filippo e ascoltando il racconto di quanto è stato già fatto dal Centro Studi "Lorenzo Milani", cioè precisamente la relazione di Trifogli sulla vita e l'opera di Lorenzo Milani, io attingerò in maniera molto estemporanea al sentimento che ho in questo momento, sia riferendomi alla memoria di Lorenzo Milani, sia riferendomi alla coraggiosa iniziativa presa da voi in questo paese, non vi offendete, in qualche modo piccolo e marginale.
Il sentimento che mi ispira è quello di non eludere il tema che vi è stato annunciato, ma di dare a quel tema un taglio che rimandi un po' alla mia memoria, alla mia esperienza, e che contribuisca quindi, come è nello spirito di una inaugurazione di un centro studi dedicato a don Lorenzo, ad arricchire la vostra presa di coscienza del significato che ha avuto questa figura del mondo civile e cristiano italiano. Ricorderò anche il modo in cui, in un clima ed in un contesto storico totalmente diversi, quell'eredità può essere fatta valere, può esser resa feconda.
Si suol dire, infatti, che Lorenzo Milani è una delle figure profetiche della Chiesa e della società italiana. Ciò è giusto, ma il pericolo, quando ci si accosta ai profeti, è di essere catturati dalla loro singolarità e nel contempo di essere sradicati dalla novità dell'era in cui si vive.
La vera fedeltà ai profeti non è quella, per usare un termine tornato di moda, fondamentalista, che aderisce ai testi o alle testimonianze storiche che i profeti hanno dato; occorre piuttosto fare la fatica creativa di trasferirle con un quoziente di inventiva, di ripensamento e di adattamento, nel contesto nuovo in cui ci avviene di vivere.
Ora, per caso, ma, potrei anche sciupare la parola, per provvidenza di Dio, dite come volete, mi trovo ad essere nel contempo testimone non secondario dell'età e dell'avventura di Lorenzo Milani, ed anche testimone impegnatissimo delle nuove esigenze che stanno maturando in questo versante inatteso della Storia umana. Allora tenterò in modo estemporaneo, ma spero non superficiale, di congiungere tra loro la memoria che ristabilisca il quadro storico-culturale della testimonianza di Lorenzo Milani e la lettura del tempo nuovo in cui ci troviamo a vivere che è, dal punto di vista esteriore, puramente formale, lontanissimo dal tempo di Lorenzo Milani.
I più giovani non se ne rendono conto, eppure noi in trent'anni abbiamo bruciato epoche storiche, abbiamo superato un versante dal quale la storia del futuro dell'umanità ci appare, forse, molto diversa da come poteva apparirci negli anni '6O.
Io spesso ritorno con la memoria a quel giorno, era un giorno del giugno del '67, quando Lorenzo Milani era già nel suo letto di morte e volle vedermi nella sua casa materna, perché lassù a Barbiana non c'era possibilità, per un medico, di arrivare. Non c'era neanche il telefono. Per la verità il telefono cominciò a squillare perché fu sua premura, di don Lorenzo, il tentare di collegare il paesino di Barbiana, anzi il cucuzzolo di Barbiana (una chiesa e qualche casa) attraverso il telefono. Ma la SIP tardò molto e il telefono squillò quando Milani era già morto. Per questo gli ultimi giorni don Lorenzo li passò in casa della madre, press'a poco nel centro di Firenze. Io lo ricordo steso sopra le coperte del lettino in cui sarebbe morto, con la sua tonaca nera, con la barba incolta. Mi domandò che cosa ne pensassi del libro che mi aveva mandato qualche giorno prima, il libro "Leffera a una professoressa" che è uno dei suoi capolavori.
Io, lo confesso, non avevo percepito in pieno la forza profetica, dirompente di quel libro che poi sarebbe diventato l'anno dopo, il famoso '68, una specie di libro simbolo della contestazione studentesca. Gli promisi che mi sarei adoperato per far giungere il suo messaggio il più possibile al Paese. Ci salutammo, ma io devo di nuovo confessarvi che non avevo percepito in pieno la qualità profetica del messaggio che in quel momento stava consegnando all'attenzione e alla responsabilità del popolo italiano.
Poi mi è capitato invece, sono le dolci vendette della Provvidenza, di dover parlare infinite volte di lui e di essere in qualche modo - certamente nel mio modo, forse discutibile - un testimone del suo messaggio, della sua eredità, nei più diversi ambienti d'ltalia. Io sono contento di essere qui con voi, per tentare, come dicevo, di coniugare una memoria ricostruita nella sua eccezionale singolarità e la novità storica in cui siamo tutti collocati.
Non si può comprendere Lorenzo Milani, come forse è stato già detto da Trifogli, se non si ricostruisce il mondo che fu il suo, un mondo - non posso certo esaurire il mio tempo solo in questa rievocazione a cui mi spinge la nostalgia, il cuore, la riconoscenza - che aveva un punto di riconoscimento emergente nel sindaco di Firenze Giorgio La Pira, un altro profeta di quella stagione singolare della mia città.
Il ricordo di La Pira mi serve per introdurre il tema di questa sera che è la nuova coscienza di fronte agli orizzonti storici in cui ci troviamo. Quando la Pira fu fatto sindaco, Lorenzo Milani era appena diventato sacerdote; era stato mandato in una parrocchia nella periferia di Firenze sulle colline dove stava morendo la civiltà contadina e stava nascendo la nuova civiltà industriale con tutte le contraddizioni di tipo culturale, sociologico e politico che ne seguirono. Fu allora che egli ebbe l'intuizione che avrebbe segnato la sua vita: quella di fondare una scuola per dare inizio ad una libera azione dei poveri che consisteva, secondo la sua famosa formula, nel dare la parola ai poveri. Mi sia permesso di sottolineare l'importanza di questa sua intuizione.
I poveri, che dalla cultura contadina - voi marchigiani lo sapete bene - si inoltrano nella cultura della civiltà industriale, rischiano di essere addottrinati dalla nuova realtà sociale industriale, di imparare le parole che vengono imposte da questa società industriale e di perdere così, in un sol tempo, la propria autonomia culturale e la propria libertà di tipo sociale e politico.
Milani si accorse cli questo assorbimento repressivo e alienante della società industriale e pensò che il vero modo di dare ai poveri, ai figli dei poveri, le condizioni della libertà era quello di dare ad essi lo strumento della parola.
In quel tempo La Pira aveva lanciato un messaggio, che è un messaggio politico che toccherà a me questa sera trasferire nel nuovo quadro storico in cui ci troviamo.
Un sindaco di una città come Firenze aveva il compito di costruire una città a misura d'uomo e questo era possibile solo attraverso un impegno che liberasse l'uomo dai mali che in quel tempo erano i mali fondamentali. Mentre rievoco quel tempo io sto immaginando il tempo nostro con orizzonti così diversi...
Secondo La Pira una città è una città di pace, questo era il termine che usava, solo quando l'uomo è liberato dalla piaga della disoccupazione, quando è liberato dalla mancanza di un'abitazione, di una casa, e quando viene liberato dalla mancanza di libertà civile e religiosa.
La Pira portò avanti il suo impegno di sindaco, sconvolgendo in gran parte le leggi e la mentalità del tempo non solo nel suo partito, la Democrazia Cristiana, che non sapeva come tollerare un uomo così indocile, ma anche nella Chiesa che allora era sotto la disciplina piuttosto ferrea di Pio Xll, e più in generale La Pira agì sconvolgendo anche la società civile. Egli allora iniziò la sua avventura di sindaco, ad esempio, solidarizzando con gli operai che occupavano le fabbriche e sostenendo, contro i grandi maestri dell'economia nazionale come Luigi Einaudi il diritto che hanno gli operai di considerarsi nella fabbrica a casa propria, mentre essi erano stati denunciati alle pubbliche autorità per occupazione indebita.
La Pira sosteneva invece che l'operaio nella fabbrica non è mai fuori di casa sua e solidarizzò nei modi allora possibili, ad esempio partecipando ad una messa celebrata dentro il recinto della "Pignone" e avviò, sul piano della pubblicistica economica, un dibattito con Luigi Einaudi e con gli altri rappresentanti dell'economia liberista, secondo me ricchissimo anche oggi di insegnamenti.
Cosi La Pira, per quanto riguarda la casa, osò fare qualcosa che provocò alcuni interventi privati e discreti, ma altri pubblici, di papa Pio Xll perché, a giudizio del papa, La Pira stava violando le leggi. Per poter sistemare gli sfrattati, infatti, pensò di occupare, con i vigili urbani a sua disposizione, le ville della periferia di Firenze non abitate dai padroni. Fece occupare le ville e ci mandò gli sfrattati, provocando un dibattito nazionale estremamente vivo ed anche passionale.
Però l'obiettivo di La Pira era quello di creare una città di pace in cui fosse viva nei cittadini la coscienza che la città non è soltanto un aggregato di abitazioni e di abitanti: è anche un'eredità di valori che il passato ha elaborato e trasmesso perché fossero tramandati alle generazioni future.
Nel suo famoso discorso fatto a Ginevra nel '54 in un convegno indetto dalla Croce Rossa Internazionale sul problema della città nell'era atomica, La Pira sostenne che, nel declino degli Stati (egli già lo sentiva...) le città assumevano la responsabilità di difendere l'eredità culturale del passato di fronte alla minaccia del disastro atomico.
Le città dovevano unirsi fra di loro nel mondo, mentre gli Stati erano in lotta fra di loro, per creare un tessuto di pace planetario perché l'umanità si trovava su di un crinale apocalittico, così diceva La Pira, utilizzando un'espressione presa dall'americano Thomas Merton, un grande maestro di spiritualità trappista che allora aveva molta udienza in tutta la cristianità.
Questo è stato il discorso di La Pira negli anni '60 quando appunto Milani entrò in campo, come ora dirò subito. Diceva La Pira allora: "Siamo su un crinale apocalittico", per questo tutte le cose andavano ripensate in modo radicalmente nuovo.
In questo ripensamento il primo problema da affrontare era quello del rifiuto della guerra come strumento di giustizia ormai inaccettabile. E' finita, diceva La Pira, l'epoca delle guerre giuste. Nell'era atomica nessuna guerra è giusta e allora si deve entrare nell'età della non violenza, come ripeterà anni dopo, precisamente nel '69 a Budapest commemorando il Mahatma Gandhi: "l'età nostra è l'età della non violenza".
La Pira nel '61 osò, contravvenendo alle leggi allora vigenti che proibivano la proiezione nelle sale pubbliche di certi film non approvati dalla commissione del Ministero degli Interni, far proiettare ufficialmente in forma privata il film "Tu non ucciderai". Questa proiezione provocò un dibattito nazionale in cui entrò l'intramontabile Andreotti che allora era Ministro degli Interni. Egli mandò a La Pira un telegramma per incitarlo a non fare questa proiezione, ma La Pira andò avanti lo stesso, fu incriminato, ed ebbe un processo che però si esaurì nella fase istruttoria. Due anni dopo capitò a me di difendere l'obiezione di coscienza di un cattolico che fu giudicato a Firenze e condannato; io ebbi un'incriminazione e dovetti subire un processo che si concluse con la mia condanna nell'ottobre del '63.
Due anni dopo Lorenzo Milani scese in campo con una lettera ai cappellani militari per deplorare una loro pubblica dichiarazione nella quale gli obiettori di coscienza venivano qualificati come vigliacchi. Questa lettera provocò un processo contro Lorenzo Milani che era già minato dal male che l'avrebbe condotto alla morte. Nella celebrazione del processo, a Roma, Milani non poté essere presente e inviò quel meraviglioso pomphlet profetico che è "Leltera ai giudici", in cui mette in luce la novità dell'epoca in cui siamo e la necessità di respingere la guerra come strumento di giustizia; abbinava a questo un'esaltazione della non-violenza.
La Pira due anni dopo scrisse, ormai non più sindaco, un saggio. Io ne sono testimone perché fui io a chiederglielo e fui in qual che modo anche parte diretta della sua elaborazione. In esso La Pira parlò con entusiasmo e commozione della germinazione fiorentina che era la germinazione della non-violenza; Milani aveva avuto il merito incomparabile di diffondere questo messaggio attraverso un'appassionata perorazione alla quale avevano collaborato i suoi stessi ragazzi di Barbiana; giustamente si può dire che in Italia sia legato al nome di Lorenzo Milani il problema dell'obiezione di coscienza, del rifiuto della guerra e delle prospettive della risoluzione non violenta dei conflitti.
La legge sull'obiezione di coscienza che fu approvata nel '72, anche se non si riferisce a lui, secondo me, è un frutto postumo della sua testimonianza.
Perché ho ricordato questo periodo? Non solo perché come è giusto, trovandomi in questa fase inaugurale di un Centro Studi dedicato a Lorenzo Milani devo ricordare momenti di cui fui testimone diretto e direi in qualche modo partecipe, ma anche perché ho voluto subito ritagliare davanti ai vostri occhi la diversità del tempo in cui siamo. Milani è morto nel '67; nel '68 avvenne quella contestazione rimasta un evento che ha segnato un cambiamento di qualità della nostra storia; abbiamo avuto i terribili anni '70 in cui è esplosa la violenza del terrorismo, anni, ora lo sappiamo meglio che furono gli anni di Gladio, gli anni dei servizi segreti, dei golpe sognati e non realizzati, quindi anni attraversati da un'oscura febbre di disgregazione e di repressione. Però furono anche gli anni in cui l'umanità, nel suo insieme, e il nostro Paese in modo più specifico, avvertirono che il modello di civiltà in cui entrammo con la rivoluzione industriale aveva toccato un suo punto limite. In alcuni grandi centri culturali del tempo, penso al Mit (Massachussets Institute of Tecnology) e penso al Club cli Roma, si inaugurarono, nel '72, una serie di rapporti, così si chiamavano allora, tutti legati fra loro dalla percezione che lo sviluppo era diventato mortale per l'umanità.
Si entrò allora nel pessimismo epocale che, ridotto in parole semplici, consiste nella percezione che questo tipo di civiltà in cui siamo inseriti, non può svilupparsi indefinitamente perché la sua qualità intrinseca significa la morte della vita del pianeta. Si è rotto l'incantesimo dell'ottimismo tecnologico: abbiamo capito da allora, con forza crescente, che quello che è necessario alla nostra società per far fronte ai problemi posti dalle trasformazioni introdotte dalla tecnica è una nuova coscienza e una nuova politica. Noi siamo nel punto acuto di questa nuova, direi amara, conoscenza. Ecco il cambiamento che è avvenuto.
Io amo dire nel mio linguaggio - ed io sono il sopravvissuto di questo meraviglioso consorzio di figure fiorentine, le più eminenti delle quali sono La Pira e Milani - che mi riconosco un obbligo dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini: quello di far valere un messaggio di pace, di solidarietà con gli ultimi, con gli umili, con tutte le Barbiane di questo mondo che si trovano in un mondo e in una situazione storica diversi.
Allora ho pensato di condensare questa mia responsabilità in una iniziativa che ho messo sotto il segno della "Cultura della Pace". Noi siamo nella necessità storica di inaugurare una cultura della pace che si sostituisca alla cultura della guerra che è il termine emblematico della cultura del passato di cui siamo tutti figli, anche i più giovani qui presenti.
Sono sicuro che Milani mi darebbe ragione. Del resto la sua "Leltera ai giudici" in maniera esplicita qua e là afferma queste cose.
Noi siamo vissuti in una cultura di guerra. Uso il termine cultura non in senso scolastico e quindi nel senso di cultura letteraria, cultura intellettualistica; uso invece il termine in senso antropologico, come modo del vivere collettivo, come insieme di regole, di simboli e di principi che fanno di un gruppo umano un organismo unitario.
Hanno cultura anche i popoli illetterati, quelli che vivono ancora oggi nell'età della pietra; essi hanno una cultura perché vivono all'interno di una rappresentazione simbolica del mondo, obbedienti ad alcune regole comuni, con la premura di trasmettere il passato custodito nella loro memoria alle nuove generazioni. Quindi ogni popolo ha una sua cultura.
Però tutti i popoli del passato sono tutti interni ad un principio che è il principio della competizione come legge della Storia, per ripetere una parola famosa del filosofo Eraclito, della guerra "madre" di tutte le cose. Noi siamo vissuti dentro questa cultura che ha partorito non solo le guerre; voi sapete come la guerra nella cultura del passato non era considerata un incidente di percorso, un'imprevista anomalia: era un momento fisiologico alto, al punto tale che anche nelle scuole si educava per quello scopo.
Nel liceo "Michelangelo" di Firenze, dove io presi la maturità, c'è ancora una scritta che, come ho visto di recente non è stata cancellata, che riporta il famoso, oserei dire famigerato, verso di Orazio, mi sembra suo, non vorrei sbagliare..."DULCE ET DECORUM EST PRO PATRIA MORI": "e' ben dolce morir per la patria". Lo scopo della pedagogia è stato sempre quello di creare il soldato pronto a morire per la patria.
Naturalmente noi dobbiamo avere, lo dico tra parentesi perché le mie parole non siano fraintese, un grande rispetto per le culture, sia quelle diciamo...in senso sincronico, che sono al presente nel mondo; sia quelle in senso diacronico, che sono nel passato. Dobbiamo, per giudicare un comportamento, collocarci dentro la cultura in cui quel comportamento ha trovato origine e senso.
Quindi il mio discorso non è un discorso di "tabula rasa"; dico che quel principio che esalta il momento della guerra come il momento della massima espressione di un popolo, ha perso ogni validità storica nel momento in cui la guerra, per l'acquisizione da parte dell'umanità di uno strumento inatteso e spaventoso come l'arma atomica, non è più strumento di giustizia.
Possiamo anche riconoscere, con realismo storiografico, che la guerra, in epoche lontane, quale prolungamento del principio evolutivo di Darwin della lotta per la vita, ha avuto una funzione evolutiva, quale che ne sia il giudizio morale al riguardo.
Però è certo, la "Pacem in terris" del '63 lo dice chiaramente e Milani lo ricorda nella sua "Lettera ai giudici", che è assolutamente fuori dalla ragione credere che la guerra possa essere lo strumento per risolvere i conflitti fra i popoli; che poi, è la stessa frase che troviamo nell'articolo 11 della nostra Costituzione, così spudoratamente dimenticato in mille occasioni dai nostri parlamentari, e così come è detto dalla Carta Atlantica del 1941, che io considero come il momento germinale di questa nuova cultura della pace. Dice la Carta Atlantica, al comma 8, - eravamo solo nel '41 - che le nazioni avrebbero dovuto abbandonare la guerra come lo strumento per risolvere i conflitti fra i popoli, e questo non solo per ragioni spirituali, ma di opportunità. Diciamo per ragioni realistiche. Infatti, e questo Milani lo ha affermato con forza nella sua lettera, noi ci troviamo in un tempo in cui la guerra non è più uno strumento di giustizia. Ecco, dobbiamo dire qual è la novità rispetto agli anni in cui io fui condannato ad otto mesi di prigione per aver difeso l'obiezione di coscienza.
L'obiezione di coscienza oggi non è più un'iniziativa individuale; oggi si può essere obiettori innocui, allora si andava in prigione. Innocui significa senza portarne le conseguenze... Innocuo spero di no, perché un obiettore dovrebbe essere un contestatore per professione perché la violenza non è solo quella delle armi: la violenza è un sistema organico della società in cui siamo.
Avercela con le armi senza avercela con la violenze di altro tipo che ci aggrediscono significa avere una visione molto unilaterale e insufficiente della violenza che si vuole combattere.
Noi oggi ci troviamo in un tempo in cui non solo la guerra va respinta, ma va respinta la violenza nel suo insieme.
Io son convinto che la cultura della pace è la grande alternativa storica che abbiamo davanti, e se dovessi dare un consiglio credo di avere il diritto di farlo - al neonato Centro Studi "Lorenzo Milani", vorrei consigliargli di estendere le sue analisi sull'obiezione di coscienza, che hanno reso particolarmente noto il nome di Lorenzo Milani, a tutti gli aspetti della nostra vita associata.
Del resto, quando Lorenzo Milani si propose per la prima volta, Calenzano di San Donato era in un paesino di poche case con contadini e bambini, in confronto al quale Filottrano è una metropoli! Barbiana, addirittura, era una specie di binario morto della società!
Anzi, i superiori ecclesiastici non sapendo di rendere onore a Dio anche quando volevano punire un religioso, un sacerdote un po' troppo indomito, lo avevano mandato a Barbiana, una parrocchia che era destinata ad essere cancellata dalla mappa ecclesiastica perché non c'era quasi più nessuno: "Lo mandiamo lì così sta zitto". Andò lì e trovò i poveri e piccoli rampolli del mondo contadino in via d'estinzione e con quei poveri ragazzi fece un gruppo, un collettivo di intellettuali di eccezionale valore.
Egli fece questo perché partì dall'idea che i poveri subiscono violenza e perciò, per renderli uomini di pace, occorre dar loro la parola; non dare a loro, come faranno magari i loro analoghi del '70, le bombe delle Brigate Rosse; dare la parola, che è lo strumento pacifico dell'uomo.
Dare la parola ai poveri significa metterli in condizione di difendere i propri diritti perché... sono le famose semplificazioni di per sé, se volete, abbastanza inaccettabili, ma molto eloquenti di Milani: "I signori hanno mille parole, i poveri ne han trecento; diamo mille parole al povero e il povero si fa ragione da sé, perché la verità è dalla parte sua".
Milani aveva inaugurato una lotta pacifica, perché non è che nella società umana finalmente pacificata manchino i conflitti, perché il conflitto è il modo di essere dell'uomo. Solo che c'è un modo umano di risolvere un conflitto, che è quello di risolverlo con la ragione, con la parola; e c'è un modo pre-umano di risolverlo con la forza. Noi siamo dei Centauri, mezze bestie e mezi uomini, perché noi i conflitti li abbiamo risolti con la forza, come adesso sta capitando nel Golfo Persico. Chi ha ragione? Lo deciderà la forza. Ma questo non è un modo umano, è un modo pre-umano di comportarsi: la lotta della giungla!
Milani credeva nella potenza della parola, che è poi la potenza della ragione. In questo senso egli ha anticipato quest'epoca in cui noi dobbiamo affrontare i conflitti che ci sono e ci saranno nell'unico modo veramente umano: quello della ragione, del dibattito, delle istituzioni e non quello della forza. Allora se io mi colloco con questo spirito nel nuovo orizzonte storico, devo dire che ci sono dei fatti, delle emergenze, delle modificazioni di fondo della società, che non c'erano negli anni '60. Tra l'altro gli anni '60 erano - qualche amico qui me ne potrà dare testimonianza - anni illuminati da una singolare luce di ottimismo. Erano cominciati sotto la luce di una costellazione inattesa. C'erano tre stelle: una era Kennedy, l'altra era papa Giovanni e l'ultima Kruscev. Oggi magari Kruscev non ci dice più molto, ma allora voleva dir molto perché aveva fatto la critica dello Stalinismo e aveva inaugurato un certo disgelo. Comunque erano tre uomini che singolarmente apparvero nello stesso momento. Gli astrologi mi permetteranno l'analogia, erano sotto un segno zodiacale molto positivo.
Cominciò allora l'età del dialogo. Per i più giovani sembra davvero una cosa curiosa, come se raccontassi l'invenzione dell'ombrello. In realtà fu una cosa molto ardimentosa. Parlarsi pubblicamente fra noi uomini appartenenti a giurisdizioni ideologiche diverse era una cosa coraggiosissima. Mi viene in mente una folla di memorie, ma lasciamo stare.
La Pira fu l'uomo del dialogo perché era andato a Mosca nel '59; roba dell'altro mondo perché oltrepassare la Cortina di ferro in atteggiamento pacifico voleva dire essere nella pura follia; fare quello che fece Francesco d'Assisi quando, in una situazione analoga a quella del Golfo Persico di oggi, andò a parlare senza armi con il SadUam Hussein di allora, il sultano di Damietta, con i crociati, i marines di allora, che dicevano: "T'ammazzerà". Invece andò, parlò e diventò amico.
La Pira andò al Cremlino, parlò e inaugurò una stagione di clialogo. Noi, ricordo bene, ci buttammo nell'avventura del dialogo con tutta la nostra passione. Venne poi il Concilio Vaticano 11 che, in qualche modo, ratificò questa scelta storica.
Mi rendo conto adesso che anche il Concilio ha un vizio, che non è certo dovuto alla imperizia dei suoi straordinari artefici, ma al clima del tempo. E' tutto sommato ottimista, perché chiede alla Chiesa di stabilire un rapporto di servizio con il mondo moderno.
Noi invece, oggi, nel 1990, siamo qui a fare 1'analisi della fine del mondo moderno. Dal punto di vista culturale la situazione storica che viviamo viene qualificata - io sono d'accordo - come crisi della modernità. La modernità come forma sociale, politica e culturale, voleva dire accettazione di alcuni punti di arrivo della Storia umana considerati validi per tutti gli uomini; ad esempio credere nel progresso tecnologico. Esso era considerato un elemento fondamentale della civiltà a cui dovevano avere accesso tutti i popoli della terra. Noi oggi siamo qui a dire che il progresso tecnologico è di per sé un elemento mortale, perché produce un grave esaurimento delle risorse energetiche del pianeta, un eccesso di rifiuti tale da rappresentare un fattore di grande pericolo. Noi siamo qui a parlare del buco dell'ozono, dell'effetto serra, della morte dei mari, della deforestazione dell'Amazzonia. Noi non facciamo che un inventario di morte in questi anni; è che non ce ne accorgiamo.
Queste cose negli anni '60 erano impensabili.
Noi invece oggi vediamo che il modello di sviluppo che consideravamo adatto ad essere esteso a tutti i popoli, è un modello mortale. Quando Kennedy - ricordo quel momento alto della mia commozione, si era all'inizio degli anni dell'ottimismo, nel'60 - parlò rivolgendosi ai Paesi dell'America latina proponendo l'alleanza per il progresso, egli non aveva alcun dubbio che il progresso fosse quello rappresentato dagli Stati Uniti.
Oggi nei Paesi del Nord sappiamo che se i Paesi del Sud vivessero al nostro livello, la terra finirebbe per implosione perché le risorse energetiche non sono sufficienti a mantenere lo sperpero che noi, piccola parte del mondo, un quinto del mondo, stiamo realizzando. Se gli altri quattro quinti facessero come noi, sarebbe la fine della vita.
Questo l'abbiamo capito ora.
C'è quindi un'evenienza nuova, l'orizzonte della nostra responsabilità politica è caratterizzato da questo segno apocalittico. Noi oggi abbiamo vissuto quel che allora non era stato ancora vissuto. Certo noi eravamo contro la bomba atomica; io fui incriminato perché sostenni, con parole molto categoriche, che in caso di guerra atomica, i Cristiani dovevano disertare. La parola disertare mandò in irritazione tutto l'apparato militare e quindi fui condannato.
Oggi noi sappiamo bene: abbiamo vissuto l'escalation atomica, abbiamo vissuto il buio del terrore fino ai punti alti dell'epoca di R. Reogan e questa verità è stata riconosciuta: noi siamo di fronte ad un'esperienza che allora era impensabile.
Io lo dico anche a partire dalle lezioni che ci sono venute dalla crisi del Golfo, perché su questo punto gli uomini di pace, a mio giudizio, non hanno ancora riflettuto abbastanza. Da agosto in poi, sono successe molte cose terribili che ci hanno obbligato ad un ripensamento.
Io sono convinto che a questo punto noi dobbiamo tentare la sicurezza comune. Questo termine non esisteva ai tempi di La Pira e Milani; la sicureza comune è il grande frutto degli accordi di Helsinki che Milani nemmeno poteva presentire e che invece La Pira, alla vigilia della sua morte, salutò come un grande fatto. Eravamo nel 1975.
Gli accordi di Helsinki prevedono il passaggio dalla sicurezza armata alla sicurezza disarmata. E' un passaggio importante, lo disse un uomo senza grandi vocazioni profetiche - voi lo ammetterete! - che si chiama Ronald Reagan. Lo disse a Gorbaciov nel famoso giorno che è una data grande della Storia umana, 1'8 dicembre del 1987, quando affermò: "Noi sediamo su montagne di armi che possono distruggerci in un solo momento, dobbiamo disarmare". Gorbaciov che è un artefice di straordinaria forza in questo tempo nuovo ha portato avanti le intuizioni di Helsinki promuovendo la sicurezza comune.
Sono caduti il muro di Berlino e la linea di Yalta. Noi siamo in un panorama diverso. Nell'orizzonte della nostra vita politica c'è la creazione di un sistema di sicurezza comune.
Le sferzanti polemiche sull'esercito nella "Lettera ai giuclici" di Milani trovano quindi un adempimento, perché io dico in tutta tranquillità interiore e con limpidezza intellettuale che l'esercito è una struttura sopravvissuta. Dobbiamo dare all'esercito una funzione diversa perché i nemici che ci insidiano non sono più i nemici che si affacciano sulle Alpi, come qualche vecchio militare immagina nei suoi deliri. I nemici sono quelli che conoscete: gli incendi, i mari che muoiono... Noi dobbiamo trasformare in un organismo pacifico un esercito che sogna le guerre; come nel film ispirato all'opera di Buzzati "I1 deserto dei tartari", i militari stanno ad aspettare un nemico che non viene mai. Noi invece abbiamo nemici che vengono sempre.
Una modificazione di questo genere è nello spirito di Lorenzo Milani e rappresenta una prospettiva della coscienza politica. Secondo me un Centro Studi come il vostro deve farsi carico dell'attuazione di questa intuizione fondamentale in Lorenzo Milani. Del resto, se vi è stata raccontata la sua esperienza singolarissima a Barbiana, voi sapete come le sue opere erano quelle di creare una diga o di fare un pozzo. . .
Oggi abbiamo l'evenienza del collasso ecologico, l'evenienza della crisi dell'equilibrio del terrore con la prospettiva apertasi della sicurezza comune. Mi fa molto piacere in questo momento ricordare Gandhi, di cui ho scritto una biografia, perché sulla base delle suggestioni che ebbi sia da La Pira che da Milani, sono convinto, che insieme a loro, Gandhi è il profeta del tempo nuovo.
Noi siamo arrivati davanti al bivio: essere o non essere, perché guerra atomica o no vuol dire proprio stare di fronte a questo bivio. La scelta della non guerra significa non la scelta dell'inerzia, ma la scelta di una nuova soluzione dei conflitti: quella attraverso la sicurezza comune che implica il mutuo controllo, la collaborazione, l'informazione reciproca e così via.
Tutti questi valori stanno inaugurando in Europa l'epoca per la quale non siamo pronti. Chiunque di voi abbia una minima conoscenza della Storia, sa che in Europa non c'è mai stato un tempo - il nostro è questo tempo - in cui un Paese non abbia potuto pensare ad un altro come ad un nemico. Ogni Paese ha avuto sempre un nemico. Oggi non ci sono più.
Vi assicuro, nonostante la mia sembri una battuta agrodolce, che è molto difficile vivere senza nemici, perché tutta la nostra educazione ha basato lo sviluppo della nostra identità individuale e collettiva sull'idea del nemico da sconfiggere. Io da piccolo avevo avuto il babbo che aveva fatto la guerra sul Carso e pensavo che ogni Italiano dovesse odiare gli Austriaci. Sotto il Duce poi ci fu insegnato a odiare gli Inglesi. Dopo la guerra di odiare i Russi. Insomma noi siamo vissuti odiando. Come si fa a vivere senza odiare? E' difficile, occorre una cultura diversa: è la cultura della comprensione delle culture diverse dalla nostra.
I tempi si aprono in maniera del tutto inedita con la presenza fra di noi di gruppi etnici che vengono dal Sud, comunità culturali del tutto estranee a noi, religioni diverse; le avremo sempre di più in casa nostra, nonostante tutte le leggi Martelli, perché questo è un travaso epocale. La specie umana ha operato sempre cosi, ha riempito i vuoti con i pieni, con gli eccessi. Noi siamo, noi del Nord, in declino. Noi Europei eravamo il 16% dell'umanità nel 1950; saremo il 6% fra dieci anni. Tutti capiscono che ormai i nostri vuoti saranno riempiti dalle altre razze.
Aprirsi ad una cultura della pace significa aprirsi alla comprensione e al dialogo.
Se ci fosse stato Milani nella Firenze che è stata vergognosamente macchiata da crimini ma forse esagero: il termine non è preciso per definire gli atti razzistici del Carnevale di questo 1990 avrebbe fatto la scuola di Barbiana per i figli dei Senegalesi e degli Eritrei. Credo che Barbiana non sia più qui e sia ormai integrata nella società evoluta. Le Barbiane del mondo sono nel Sud, non dimentichiamocelo. Questo è un insegnamento fondamentale di Milani.
Nel linguaggio di Lorenzo Milani non c'è mai stata la cruda e netta analisi classista di tipo marxista. Milani usa ancora le categorie di tipo etico, proprie del linguaggio cristiano: ricchi e poveri. Però non c'è dubbio che Milani giudicava il mondo dei ricchi, lui veniva dal mondo dei ricchi...
Mi ricordo che una volta - permettetemi, questo del resto è anche il senso della mia presenza qui - gli dissi: "Vedi, tu non sai capire i poveri perché sei nato ricco". Milani è nato ricco; lui crebbe avendo le nurse, una inglese e una francese. Insomma, era di alta società borghese. Si è fatto, come vi è stato spiegato, sacerdote in un colpo solo; da ateo ha deciso di farsi prete, era tipo...dalle scelte secche!
Andava verso i poveri con un'immaginazione da ricco.
Voi sapete che io conosco molto i ricchi perché ci sto, purtroppo, insieme. I ricchi pensano i poveri, quando sono buoni, con grande commozione: "Poverini; infelici". Ma i poveri, non dico i miseri, hanno delle felicità straordinarie. Io sono nato fra i poveri e vi assicuro che i poveri hanno delle felicità che voi non immaginate: le tradizioni familiari, le veglie, la capacità di sognare, la Befana...l'attesa del 6 gennaio. Insomma, io ringrazio Iddio di essere nato povero anche per questo, perché ho conosciuto una qualità della vita che i ricchi nemmeno si sognano.
Allora Milani era come un Kamikaze, un ricco che andava verso i poveri e li immaginava infelici, disperati e voleva liberarli dai vizi dei ricchi, per cui proibiva il gioco.
Una volta portai uno dei suoi ragazzi, non so se era Francuccio, con il mio gruppo. Ero entrato nel mondo dei ricchi, perché poi questi sono i paradossi della vita e anche della Chiesa. Io non sono mai stato così bene come quando ho fatto il voto di povertà: mi sono fatto povero, religioso, e sono stato benissimo e sono nel mondo dei ricchi. Però il mio compito, non è che mi lascio imbrogliare, è quello di essere la quinta colonna dei poveri in mezzo ai ricchi, di inquietare le coscienze, di rompere le scatole, di perorare la causa dei poveri .
Allora in queste mie villeggiature estive, con il mio gruppo di giovani, ci fu qualche alunno di Milani. Milani non concepiva il gioco: erano le sue forme di rigorismo che dimostrano, secondo me, questo suo modo radicale di stare con i poveri, tenendoli lontani dal vizio dei ricchi.
Siccome nelle pause estive si giocava al calcio, io partecipoi a quel momento di svago giocando a Scopone. Questo ragazzo, Francuccio, lo raccontò a Milani. Si scandalizzò tantissimo che avessi giocato, non gli pareva possibile. Gli dissi: "Ma i poveri giocano a Scopone! E si ubriacano quando possono: una festa enorme la sbornia, la domenica. Non va tolta al povero!".
Beh! Lui non immaginava il mondo dei poveri. Calava fra i poveri scendendo dall'alto. Questo non vuol dire, naturalmente, che poi non abbia compiuto cose straordinarie. Questo lo dico perché si capisca, a chi leggesse scritto il paradosso di Milani, dei suoi tagli troppo netti. Derivava da un bisogno autopunitivo. Lui era nato privilegiato e voleva punirsi. Per esempio, a Barbiana, dormiva su una branda tra una miseria incredibile. Io non lo avrei accettato, ma lui voleva punirsi, per così dire, dell'essere nato ricco. Anche certe sue frasi polemiche rivelano questo meccanismo freudiano dell'autopunizione.
Chiusa la parentesi.
Però Milani vide bene che il discorso serio della politica è la divisione fra ricchi e poveri. Ora noi siamo in un'epoca, in questi anni Novanta che ci portano verso il terzo Millennio, nella quale abbiamo sotto gli occhi dei conti che Milani non poteva fare, perché non dimentichiamoci che nell'epoca di Milani eravamo tutti convinti che, pian piano, i Paesi del Nord avrebbero sollevato quelli del Sud ad un livello di vita sviluppato - "Alleanza per il Progresso...", lo diceva Kennedy ed era credibile. Noi siamo qui a tirar le somme e diciamo che, in gran parte, i Paesi del Sud stanno peggio che nel 1960.
Invece di chiudersi, la forbice della diversità si allarga. La vita e il livello medio di ricchezza dei Paesi dell'Africa, per esempio, sono molto inferiori rispetto a quelli degli anni '60. Poi, per tradurre tutto in cifre, noi sappiamo che nel 1973, quando fu presa da un legittimo senso di responsabilità, l'O.N.U. decise di inaugurare un nuovo ordine economico internazionale che prevedeva un aiuto dei Paesi ricchi verso i Paesi poveri in via di sviluppo, pari a certe percentuali di bilancio. Però nel 1974 i Paesi del Sud avevano un debito verso i Paesi del Nord di 130 miliardi di dollari e, dopo questo programma, il debito nel 1990 è salito a 1400 miliardi di dollari; ciò vuol dire che la lontananza tra Nord e Sud è aumentata.
Noi abbiamo questo orizzonte della politica e siamo in un momento in cui, ormai (questo è un tema che Milani aveva accennato) vige la legge dell'interdipendenza, noi siamo interdipendenti. Tant'è vero che noi la ritroviamo sia nei discorsi sulla perestrojka di Gorbaciov sia nell'enciclica di Giovanni Paolo 11 "Sollecitudo rei socialis ".
Anzi, come scrisse in un memorabile libro dal titolo "Nord-Sud", Willy Brandt nel 1980, i Paesi del Nord, cioè noi, dipendiamo dal Sud perché dipendiamo dallo sfruttamento del Sud, perché se il Sud del mondo richiedesse il suo, noi cadremmo nella più squallida rovina.
Mi ricordo quella pagina di Willy Brandt in cui egli racconta che un ministro della Repubblica Federale Tedesca incaricò degli esperti affinché rispondessero al problema: "Che cosa avverrebbe in Germania se non potessimo importare, dall'Africa, questi minerali?". La risposta fu "Avremmo nel giro di un mese 18 milioni di disoccupati!".
Il che vuol dire che l'occupazione ruggente del Nord e la produzione, dipendono dallo sfruttamento del Sud; allora, in realtà, noi dipendiomo dal Sud. Noi siamo in una interdipendenza: noi dipendiamo dal Sud del mondo e il Sud del mondo dipende da noi. Cosa significa tutto questo?
Significa che oggi non possiamo avere una coscienza politica in regola con la consapevolezza morale se non ci proponiamo, come obiettivo, il superamento di questo divario.
Questo divario non è una cosa astratta, vi assicuro, perché anche la crisi del Golfo Persico nasce da questo divario ed è l'avvio della nostra crisi; avremo cento Saddam Hussein nel futuro e li avremo prodotti noi non solo perché, tutti lo sanno, finché Saddam Hussein è stato nostro amico l'abbiamo caricato di soldi e di armi e poi ci si è rivoltato... Saddam Hussein è un mafioso che ha sgarrato da furbo, fa parte della stessa mafia nostra, niente di più.
Ma noi non possiamo vivere in un mondo siffatto senza assumerci la responsabilità del superamento del divario. Barbiana è il Sud del mondo; quel che Milani ha fatto con quel piccolo gruppo di ragazzi noi lo dobbiamo fare con il Sud del mondo.
Questo è il senso della realtà politica in cui siamo.
Finalmente voglio chiudere: Milani, come ho scritto e detto procurandomi qualche rimprovero, ma son convinto di quello che ho scritto e detto -, Milani è colui che ha avviato, non direi che è l'artefice, ma è colui che ha avviato fra di noi quella che poi sarebbe stata chiamata la "Teologia della liberazione".
Anche le date sono importanti. Qualcuno di voi che un po' frequenta questi problemi, questa letteratura cattolica, sa che la "Teologia della liberazione" è cominciata ufficialmente a Medellìn (in Colombia) nel 1968 quando i vescovi dell'America Latina riuniti insieme compirono una rivoluzione dalla portata incredibile, direi in qualche modo più importante del Concilio Vaticano secondo. Perché? Perché essi dissero, con parole che sarebbero piaciute infinitamente a Lorenzo Milani, noi siamo qui come Chiesa a liberare l'umanità dal peccato.
Che cos'è il peccato in America Latina?
Noi siamo abituati ai peccati dei nostri libretti di pietà: primo comandamento, secondo comandamento, che hai fatto ecc.; è un modo di trasformare una responsabilità globale che invece è molto più profonda e molto più insuperabile che non le infrazioni riscoperte attraverso il parametro dei dieci comandamenti. Dissero i vescovi dell'America Latina: il peccato in America Latina è lo stato di dipendenza da altri, dal Nord, dagli Stati Uniti precisamente. Vivere in uno stato di dipendenza, senza autonomia economica, senza autonomia mentale, significa essere nel peccato. Perché essere nel peccato significa vivere in condizioni di disumanità, diremmo con C. Marx, di alienazione. Il continente latino-americano è in stato di peccato. Che si deve fare noi, apostoli di Cristo? Liberare dal peccato, cioè liberare dallo stato di dipendenza.
Parole che, naturalmente, risuonarono come un tuono nel Nord del mondo, specialmente negli Stati Uniti, perché rompere un rapporto di dipendenza significa eliminare le zone di riserva, di safari del capitalismo del Nord. Lo vediamo ancora oggi: la foresta dell'Amazzonia sta bruciando per nostri vantaggi.
Allora teologia che significa? Non significa insegnare che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo, bensì significa mettere a fuoco la responsabiġità che ha l'uomo dinanzi alla creazione e in particolar modo dinanzi a queste creature che sono fatte a immagine e somiglianza di Dio: gli altri uomini.
L'annuncio evangelico significa annuncio di liberazione dalla dipendenza. E' la grande parola cristiana di questo secolo, nonostante i tentativi del Sant'Uffizio di soffocare il fuoco; questo fuoco non lo soffoca più nessuno.
Lo vediamo persino in Italia. Se ci sono in Italia schiavitù dolorose, come quelle della droga, dei poveri immigrati ormai consegnati in mano alla discriminazione poliziesca, quali sono i gruppi che si occupano di questi emarginati? Sono soprattutto gruppi di ispirazione cristiana. Oggi un sacerdote sa bene che il suo compito non è di fare il direttore spirituale, di curare l'amministrazione del sacro, il self-service dei bisogni spirituali...toccate un bottone e vi do un sacramento. Un sacerdote è il testimone incomodo del Vangelo, è colui che per statuto rompe le scatole a tutti: agli egoisti, ai ricchi, al potere politico; non colui che fa il cappellano del potere che va dal carcerato e dice: "Sii paziente e buono, in Paradiso ti rifarai ecc." L'uomo del Vangelo è colui che illumina con luce fredda, direi inesorabile, lo stato di ingiustizia in cui si vive in questo mondo, perché il regno di Dio comincia ora.
Milani queste cose le ha sentite con passione fino a struggersi di esse; a volte lui amava il paradosso, ma io credo, presumo, di averlo capito.
Ricordo un conflitto che il mio gruppo di giovani ebbe con lui in una discussione del '65 di cui parla in una sua lettera, mi pare. Da un punto di vista formale aveva torto lui. Io dicevo: "Questi giovani che fanno? Si occupano dei poveri di Firenze, della periferia di Firenze e poi si occupano dei problemi del Terzo Mondo". E lui disse: "No! lo mi occupo solo di quelli che sono accanto a me; trecento metri più in là a me non importa nulla" I miei giovani amici rimasero scandalizzati.
Vi spiego cosa disse don Milani, perché don Milani non nacque cattolico come me.
Io conosco la manfrina. Milani era un miscredente; entrato in questo mondo cattolico, si accorge che esso trasforma, con una capacità incredibile, le grandi parole del Vangelo in parole sonanti e senza senso. Per esempio: nel mondo siamo tutti fratelli in Cristo; noi uomini siamo davanti a Dio tutti uguali. Però queste affermazioni non cambiano nulla. C'è un universalismo a buon mercato per cui un buon cristiano ama tutti gli uomini. Però non cambia nulla, come ben vide Marx. Questo significa alienazione.
Milani era un ebreo per cromosomi materni, e ateo; diventato cristiano si accorse di questo e disse: "No, no; io amo quelli che sono accanto a me". Quello è il problema, perché voi sapete e anche noi preti lo sappiamo: "Io amo tutti gli uomini... ", però il poveraccio che è accanto a me stia fuori; lo zingaro che passa? Manco per sogno.
Noi copriamo con un universalismo retorico l'insensibilità concreta quotidiana. Milani capovolse, come faceva lui, con paradossi, questo modo di fare: ogni uomo geniale va decifrato, altrimenti non possiamo comprenderlo e Milani aveva questi suoi aspetti. Però Milani sentiva il Terzo Mondo, lo sentiva, lo aveva vicino, lo aveva accanto e allora reagiva contro il paternalisrno cattolico che ama molto tutti gli uomini, però non si preoccupa del basso salario, della disoccupazione, della mancanza di alloggi: ama tutti gli uomini.
Questo piglio realistico di Milani mi torna spesso in mente, adesso che davvero il mondo, più che allora, è un villaggio. Noi lo vediamo; noi abbiamo visto un anno fa i ragazzi di Tienanmen, con la loro faccia infantile, piena di luce, come se fossero a Filottrano. I mass-media introducono tutti i Paesi del mondo in casa nostra; noi siamo prossimi gli uni agli altri. Questo è un elemento nuovo e provvidenziale di una struttura, per altri versi così distruttiva, che è quella dei mass-media. Noi dobbiamo vivere in solidarietà con tutti gli emarginati, ma facendo di questa solidarietà, che è un principio etico importante, un orientamento politico fondamentale.
Detto questo, mi resterebbe da dire ma non posso stasera esaurire un argomento così allettante e così ricco di implicazioni - come si fa ad assolvere a questa responsabilità nuova, come si fa a far fronte a questi orizzonti inediti della Storia, a che servono i partiti e lo Stato. Qui mi devo fermare, è quello che ho detto questo pomeriggio ad Ancona.
Ma, calato come ho creduto di poter fare nel clima di Lorenzo Milani, questa sera mi basta di aver detto quel che ho cletto, di aver rievocato il tempo incomparabile degli anni Sessanta in cui si chiuse la grande avventura di Lorenzo Milani. Ho comparato quel tempo con il nostro, così diverso, per mostrare come, in un orizzonte nuovo, quegli imperativi che allora cercammo di attestare, di affermare nella società fiorentina e italiana, devono essere affermati in moclo più radicale per questa unica città dell'uomo che è il pianeta terra.
Vi ringrazio. (Applausi).