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L'AMMAZZABAMBINI

 

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 Recensione di Andrea Scartabellati del libro di Patrizia Guarnieri <<L'ammazzabambini>>.

Novità - News

 

Foto: Patrizia Guarnieri

 

 

 

Patrizia Guarnieri,laureata in Filosofia all'Università di Firenze, ha conseguito il Perfezionamento in Filosofia all'Università di Urbino, ed ha trascorso vari anni di ricerca all'estero. Fulbright Visiting Scholar alla Harvard University, C.N.R.-NATO Fellow presso The Wellcome Trust Centre for the History of Medicine in London; Jean Monnet Fellow e Visiting Scholar all'European University Institute. Ha lavorato anche nei progetti storici dell'Istituto degl'Innocenti, e del Dipartimento di Salute Mentale di Firenze.
Dal 1982 al '93 ha insegnato a Stanford University -Overseas Program, e dal 1986 ha afferito al Dept. of Psychology, e all'History of Science Program della Stanford, Ca. Professore a contratto sostitutivo in storia della scienza nell'età contemporanea all'Università di Trieste, è professore associato di storia contemporanea all'Università di Firenze. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo:

Guarnieri P. (1985), Introduzione a James, Roma-Bari, Laterza.

Guarnieri P. (1986), Individualità difformi. La psichiatria antropologica di Enrico Morselli, Milano, F. Angeli (trad ingl. cap. 2., Between Soma and Psyche: Morselli and Psychiatry in Late-Nineteenth-Century Italy, in W.F.Bynum, R.Porter, and M.Sheperd (eds.), (1988), The Anatomy of Madness: Essays in the History of Psychiatry, London-New York, Tavistock Publ., v.3, 102-24.

Guarnieri P. (1989), L'ammazzabambini. Legge e scienza in un processo toscano di fine Ottocento Torino, Einaudi (Eng. trans., 1992, A Case of Child Murder, Cambridge, Polity Press)

Guarnieri P. (1991), Alienists on Trial: Conflict and Convergence between Psychiatry and Law (1876-1913), History of Science, 29, 393-410; trans. in F. Koenraadt (ed.),(1991) Ziek of schuldig?, Arnhem-Amsterdam, Willem Pompe Instituut Utrecht, Gouda Quint-Rodopi, 311-332.

Guarnieri P. (1991) La storia della psichiatria. Un secolo di studi in Italia, Firenze, Olschki; trad. parz. (1991), The History of Psychiatry in Italy, History of Psychiatry, 3, 289-301. Repr. in M. Micale and R. Porter (eds.), (1994), Discovering the History of Psychiatry, New York-Oxford, Oxford University Press, 248-259.

Guarnieri P.(1998), 'Dangerous Girls', Family Secrets and Incest Law in Italy 1861-1930, International Journal of Law and Psychiatry, 21, 369-383.

Guarnieri P. (2000), Per una storia della psichiatria anti-istituzionale. L'esperienza del rinnovamento psichiatrico in Umbria 1965-1995, vol. suppl. Annali di neurologia e psichiatria, 92.

Guarnieri P. (2002) Non del tutto abbandonati. Dottori, donne e neonati nel brefotrofio degli Innocenti 1850-1890, Medicina & Storia, 4, 7-51.

Guarnieri P. (2002), Inzestals 'öffentliches Ärgernis'. Gesetzeslage und Moralvorstellungen im vereinten Italien, L'Homme, 1, 68-94; vers. it. (2003) L'incesto scandaloso: legge e mentalità nell'Italia unita, Passato e Presente, 58, 45-68.

Guarnieri, P. (a cura di), (2004) Bambini e Salute in Europa 1750-2000 / Children and Health in Europe 1750-2000, Firenze, Polistampa. (fasc. mon. di Medicina & Storia, 7).
 

 

    Delitto di paese & culture alt(r)e

Recensioni dalla stampa 2003

 

    di Andrea Scartabellati

 

 

                                                        

Una lettura de L’ammazzabambini. Legge e scienza in un processo di fine Ottocento

di Patrizia Guarnieri (Editori Laterza, Roma Bari 2006, pp.245, euro 15).

 

  

                 Rivista Frenis Zero

Perché leggere – o meglio: rileggere – a distanza di quasi due decadi L’ammazzabambini di Patrizia Guarnieri? La domanda non é certamente fuori luogo, tanto più se col pensiero andiamo ai numerosi studi che, sul tema della scienza e della cultura scientifica, non sempre hanno saputo abbinare al rigore metodologico e all’acribia ermeneutica (nell’Ammazzabambini sorprendentemente attuale) una scrittura limpida e scorrevole, in taluni punti appassionante. Solo in parte, e solo relativamente, infatti, il volume della Guarnieri risente qua e là degli acciacchi del tempo trascorso. Immutato resta, al contrario, quello che valuto il suo maggior contributo: la facilità con cui riesce a combinare una valenza propedeutica tale da far digerire nelle facoltà umanistiche categorie mediche spesso astruse, con una proposta interpretativa puntale e non ideologizzata. Senza l’ambizione di fornire risposte preconfezionate e definitive, il volume della Guarnieri coglie il duplice risultato di fornire alla discussione originali stimoli e temi, indicando sul piano euristico l’utilità di analisi differenziali dei fenomeni socio-antropologico-culturali.

Bene, quindi, ha fatto l’editore Laterza a ristampare un’opera che, come si ricorderà, fu pubblicata in prima edizione da Einaudi nella collana “Microstorie” nel lontano 1988.

Nel genere storiografico che in Edoardo Grendi, Giovanni Levi e Carlo Ginzburg ha i suoi rappresentanti più noti, L’ammazzabambini  s’inscrive a pieno titolo seppur in posizione defilata, raccogliendone molte delle suggestioni migliori. Un certo gusto per la scrittura e l’utilizzo di un registro letterario nella presentazione evenemenziale. L’opzione per una riduzione di scala degli oggetti e degli ambiti investigati che, con maggior vitalità delle grandi narrazioni, sembra sollecitare il ruolo creativo dello storico lungo percorsi genealogici che rimandano ai fruttuosi insegnamenti di Marc Bloch e delle Annales. Ancora, l’attenzione per i mutamenti e le continuità che si producono e riproducono nei contesti multiformi e dinamici di una storia colta nel proprio tempo di quotidiano e muto affaccendarsi. Qui, tratteggiato a tinte leggere, lo spaccato di un’Italia rurale dove le spaventose eppur monotone cifre della mortalità infantile sembrano anestetizzare l’allarme popolare per la ciclica scomparsa dei bambini, creduti annegati nell’Arno o, molto più verosimilmente in linea con mentalità e pregiudizi collettivi, rapiti da forestieri e zingari.

Nondimeno, anche semplicemente scorrendo i titoli della collana einaudiana e, più in generale, inscritto e comparato nel cabotaggio della storiografia nazionale, il volume della Guarnieri si segnala, nello stesso tempo, come un ibrido e come un ùnicum.

 Un ùnicum poiché le numerose sollecitazioni da esso espresse non hanno prodotto quel che, invece, era lecito attendersi. Una stagione di studi di storia sociale e culturale delle scienze umane che rivelasse – fatto di cui sono personalmente ogni giorno più convinto – le letture plurime del quotidiano storico che i cospicui patrimoni documentari degli archivi ospedalieri psichiatrici permettono e custodiscono spesso nell’indifferenza presuntuosa di troppi studiosi, di routine attratti solo da lustrini e pailletes.

Un ibrido, poiché la studiosa oggi docente di storia contemporanea presso l’università di Firenze, pur nell’ambito della strumentazione microstorica, ne mitiga alcuni voli pindarici non rinunciando a perlustrare e tracciare linee d’ intersezione tra il particolare ed il generale, lungo binari di una più tradizionale prassi del mestiere di storico. Nello specifico, tra la cronaca nera del caso esemplare ma, tutto sommato, marginale di Callisto Grandi rispetto ad un’altezzosa grande storia, e la cultura alta (giuridica e alienistica) contestuale ad una nazione da poco unificata (o quasi, si veda l’eccezione del codice penale toscano, preferito ancora nel 1875 a quello sardo). Un cultura, infine, che sul versante psichiatrico è delineata, attraverso i nomi di Carlo Livi e Francesco Bini, la sicumera di un giovanissimo Enrico Morselli e la fugace comparsa di Augusto Tamburini, in uno degli snodi esiziali della propria formazione. Nell’istante del lungo trapasso tra due diverse generazioni di alienisti (p.195, p.197), e nella fase primitiva della lunga marcia delle teorie antropologiche positiviste.

Callisto Grandi, si è detto. In breve, ecco il succo della vicenda.

Tra la primavera del 1873 e l’estate del 1875 quattro bambini mancano all’appello nel borgo dell’Incisa, nella Valdarno. Fuori casa per giocare, non hanno fatto più ritorno senza esser scorti dai compaesani allontanarsi o inoltrarsi per le mulattiere delle colline attigue. Con un crescendo da lasciar senza fiato poi, nello spazio di sole poche ore, tra il 21 ed il 22 agosto ‘75, a svanire nel nulla saranno ben due giovinetti, Fortunato Paladini e Angiolo Martelli. Le ricerche di popolani, guardie municipali e carabinieri non hanno esito. Soprattutto per i maschietti scomparsi da ultimi, l’ipotesi dell’annegamento non regge, si dimostra inconsistente. Nell’afoso mese, il grande fiume, l’Arno, è in secca. Eppure ciò non invoglia autorità ed incisani a porsi ulteriori interrogativi. Se le quattro scomparse non sono tra loro collegate, la pista del forestiero o dello zingaro appare sufficiente a spiegare l’inquietante sequenza della sparizione dei ragazzetti. Del resto, l’urgenza e la fatica dell’esistenza non lasciano campo a troppe fantasticherie: “Nessun sospetto – medita ad alta voce la Guarnieri - solo congetture le quali rivelano in quali forme potesse esprimersi la paura dell’ignoto e quali meccanismi di difesa sorgessero davanti a un male inspiegabile, all’interno di una piccola comunità dove gli individui conducevano esistenze difficili ma sapendone già, in genere, le durezze che li aspettavano, i dolori, le miserie e le perdite” (p.11).

L’inspiegabile si delucida, per una serie di fortunate coincidenze, una settimana dopo la scomparsa di Fortunato Paladini e Angiolo Martelli. Il tentativo, fallito, di assassinare l’ennesima giovane vittima dà un volto all’ignoto, e rivela ai borghigiani e alle autorità inquirenti la drammatica realtà. Il carradore Callisto Grandi detto Carlino, scemo della contrada con bottega sulla strada maestra, “vicino alla chiesa e al municipio” (p.7), è l’assassinio seriale, l’ammazzabambini, dei quali ha celato i cadaveri sotto una manciata di terriccio in una buca poco profonda scavata nella propria officina.

“Non tutti nella capitale crescono i fiori del male, qualche omicidio senza pretese l’abbiamo anche noi qui in paese”: ferita, la comunità incisana non avrebbe potuto, a questo punto del racconto, dir meglio delle strofe di Brassens-De Andrè. E tuttavia i delitti di Callisto Grandi, nella loro inaccessibile atrocità, nell’apparente insondabilità del movente, qualche pretesa promettevano pur d’averla, con smaccato eco fin anche nella ex capitale del regno d’Italia, Firenze.

L’ammazzamento di 4 bambini tra i quattro ed i nove anni d’età, l’occultamento di così misere spoglie, il tentato omicidio di un quinto: tutto ciò non poteva naturalmente mantenersi nel perimetro del mero interesse locale. Il caso-Grandi cessava allora, dal giorno della pubblica rivelazione, di rappresentare l’imprevedibile e spaventoso dramma di una comunità rurale toscana, per sconvolgere l’opinione benpensante e solleticare con la spettacolarità del dibattimento processuale e la perturbante figura dell’assassino l’interesse di una stampa più o meno cronista imparziale degli avvenimenti. Soprattutto, si trasformava nell’attimo fuggente da non mancare, nel banco di prova dove giudici e alienisti avrebbero giocato un loro, personalissimo, finale di partita: non sempre lineare nel suo esplicarsi, non sempre comprensibile alla luce sia delle Leggi (con la  elle maiuscola) annotate dei codici, sia dei paradigmi della Scienza (con la esse maiuscola) ammessi dalla comunità degli studiosi.

Chi era Callisto Grandi?

Non è una esagerazione leggere nelle locuzioni, nelle sfumature delle risposte al quesito di magistrati e alienisti l’incipit di un dialogo cacofonico che si propalerà ben oltre le aule del caso dell’Ammazzabambini. Concordi nel disarmarne inequivocabilmente la figura morale, attraverso presupposti filosofici ed urgenze logico-pratiche contrastanti, magistrati e medici parlavano idiomi antitetici. Il contorno di viltà, astuzia, ferocia e prepotenza tratteggiato dal pubblico ministero – sottoscritto successivamente da giudice istruttore e procuratore del Re – si fondava su cadenze afone per un codice scientifico che, letteralmente tastato nell’assassino il tipo animalesco, “frantumandone la fisionomia e l’aspetto di dettaglio in dettaglio” (p.95), ne descriveva la singolare sagoma con i lemmi della degenerazione moreliana. Individuo al confine della teratologia, della subumanità, un orango, “un buldog o una tigre” (p.85), ecco Callisto Grandi: “nano, costituzione debole, muscoli flosci, colorito pallidissimo, strabismo e nistagmo. Su tutta la superficie cutanea, non un pelo; neanche sulle ascelle, neppure sul pube. Colonna vertebrale scoliotica, convessità a sinistra nella regione dorso-lombare, deviazione al bacino, natica destra rialzata e sporgente, ginocchio destro rialzato, zoppicamento. Tronco troppo lungo rispetto agli arti inferiori, arcate costali asimmetriche, piede sinistro un po’ varo con un sesto dito grosso quasi come l’alluce sfornito di unghia (…) organi genitali atrachici: membro esile, glande completamente coperto dal prepuzio, testicoli piccoli, scroto contratto” (p.95).

Scostate le comode apparenze delle superficie documentaria, è grande merito dello sforzo analitico di Patrizia Guarnieri introdurci in una sorta di esplorazione al quadrato della genesi criptica dell’istruttoria, del processo, della strategia avvocatizia a discolpa del reo e delle perizie dell’accusa e della difesa. Metaforicamente, con l’Ammazzabambini l’autrice ci offre la possibilità di sedere in un teatro di cristallo dove, con il palco, la trama, gli attori e la regia, è data agli spettatori anche la facoltà d’intendere quei meccanismi scenici che permettono alla macchina teatrale, sub conditione, di girare a pieno regime.

Tempestivamente la Guarnieri mostra a chi legge, volta per volta, le possibilità di manovra, i margini di discrezionalità e le variabili soggettive che, al di là delle rigidità dei meccanismi procedurali e a lato dei determinismi nosografici, si proponevano a chi era chiamato ad intervenire. A stabilire, in ultimo grado, il destino di Callisto Grandi e sciogliere l’enigma del perché tali efferati delitti.

In questo sforzo analitico che lambisce l’antitesi libertà/necessità, è pregio del volume non limitarsi a sottolineare le aporie delle formazioni discorsive mediche e giudiziarie. La Guarnieri è abile nell’inquadrare, nei differenti momenti e contesti, tali formazioni, nel vivisezionarne gli antecedenti speculativi. Né l’autrice si nega il piacere dell’esplorazione battendo le piste mediante le quali il verdetto della giustizia umana ed il verdetto della scienza si ripromettevano d’inseguire la meta di una coerenza artificiale traballante sì, sorda all’autocritica pure, ma idonea a rigor di logica e prospettiva, a convalidare la piena colpevolezza del Grandi oppure rivendicarne il difetto d’imputabilità per vizio di mente.

Era un pazzo Callisto Grandi detto Carlino?

Convocati ad interrogarsi sul quesito non erano solo eminenti psichiatri e autorevoli giudici. Nella grande arena processuale un copione, seppur di secondo piano in quanto ad attendibilità, spettava anche alla variegata umanità di un’Italia villica al limite della macchietta. Con i campagnoli incisani dagli stravaganti abbigliamenti – almeno così contemplavano i raffinati cittadini fiorentini (p.61) - ecco il medico condotto, ecco il maestro di paese. Ecco la guardia municipale, l’immancabile curato, i carabinieri e, su su nella scala sociale, il mercante ed il tenutario agricolo, tutti impegnati a dar conto nelle proprie testimonianze – per parafrasare Pirandello e Sciascia – di un personale e selettivo teatro della memoria speso a contenere l’effetto-sorpresa per l’identità dell’assassino, e sbrogliare la matassa della travagliata vicenda occorsa, certo ricordando un po’ di questo e men di quello, persuasi a giochi fatti da quel tal discorso o da quella tal stranezza del Carlino.

Senza scoprir troppo le carte di Patrizia Guarnieri, è da aggiungere che il processo marcherà una sonora sconfitta per il collegio peritale assoldato dalla difesa. “Non erano la fisionomia e le anomalie sul corpo a rivelare di per sé, la malvagità o la follia dell’omicida” (p.184). D’altro canto, l’inevitabilità dell’esito era in nuce nelle disposizioni originarie dell’istruttoria: “Il responso era scontato – chiosa la Guarnieri – Solo da una radicale autocritica avrebbe potuto sortire una decisione opposta alla linea che la corte aveva sempre difeso” (p.155).

Per le magnifiche e progressive sorti della scienza, in realtà, l’esito del processo non fu così traumatico come, in un primo momento, Livi, Bini e Morselli – il collegio peritale difensivo – ritennero. Per la medicina positivista doveva trattarsi di uno scacco per nulla definitivo; per la giovane generazione psichiatrica di una semplice battuta d’arresto (p.168, p.175).

Per quanto cruciale, infatti, l’episodio–Grandi non deve essere sopravvalutato nella sua attitudine a prefigurare il destino futuro dell’alienismo italiano. La sconfitta dibattimentale non indusse affatto ad ammainare la bandiera dell’organicismo, né ad aggiornarne la pretesa lezione omni-esplicativa. A scanso di un linguaggio ambiguo che in sede di esegesi si presta a differenti letture – come l’opera di una vita di Enrico Morselli testimonia quasi ad ogni rigo – soprattutto non indusse ad abbandonare un certo modo d’intendere l’antropologia, l’evoluzionismo ed il parallelismo psico/fisico. Un contegno naturalistico riflesso nella pratica peritale della medicina delle alienazioni mentali che, avulso dalle pagine più criticamente innovative dei manuali di psicopatologia, ma gelosamente coltivato nel cuore stesso dell’universo asilare, non si sarebbe limitato a quella “forza di cancellazione” della storia e delle ragioni del paziente di cui tratta la Guarnieri (p.193). Al contrario, tale modalità (pars costruens) avrebbe rivelato nella capacità di immaginare e ascrivere al paziente una storia soggettiva naturale inscindibile dalle più ampie ed oggettive maglie dell’evoluzionismo umano e del solidismo biologico, uno dei motivi del proprio successo, se ancora nel 1917 uno psichiatra per scelta estraneo al milieu lombrosiano come Renato Rebizzi, già allievo di Eugenio Tanzi ed Ernesto Lugaro, poteva stendere anamnesi e diagnosi sulla base delle “stigme antropologiche classiche del degenerato”.

In parte dissentendo dalla valutazione della Guarnieri, considero non esaustivo ciò che osserva a p.198 a proposito della vexata questio delle ragioni della popolarità della scuola antropologica positivista: “Un motivo essenziale (…) non solo non contrastava con la sua debolezza teorica, ma anzi la presupponeva: si radicava appunto nella incapacità, o nel rifiuto, di cogliere e spiegare contestualmente i significati del vissuto di malattie e violenze. Dipingere il tipo pericoloso delinquente oppure folle, entro una devianza tanto ineluttabile quanto immotivata, consentiva di rimuovere qualsiasi responsabilità per esiti così tragici della miseria e della sofferenza. Più a fondo una società avesse interrogato se stessa per capire perché, nonostante il celebrato progresso, generasse tanti e talvolta peggiori delitti, e malattie e offese, meno si sarebbe potuto ricorrere a semplici diagnosi deterministiche. Il successo delle quali va oltre la loro credibilità scientifica (…)”.

A mio modo d’interpretare le carte dell’archivio della follia, non solo indubitabili esigenze di rimozione (p.198) dei detriti del consorzio sociale, degli inutili alla vita, convalidarono il successo di lungo periodo dell’ordinario modus operandi della scienza delle patologie mentali. Se mi si concede l’approssimazione analitica, direi che, sulle fondamenta di un evoluzionismo spinto oltre le semplificazioni del divulgatore Canestrini, la spiccata e spiccia vocazione sociologistica - che ben si accordava con il tentativo autoreferenziale alienistico di conferirsi “legittimità ed esclusività (…) come medici specialisti” (p.177) - ed idee-guida propositive caratteristiche al discorso della psichiatria antropologica - più complesse dell’innocua articolazione ontogenetica/filogenetica di haeckeliana memoria – giustificarono l’innalzamento sugli scudi di un determinismo naturalistico progressivamente aggiornato ma, raramente, fatto segno di irrevocabili denunzie.

Altrove la Guarnieri l’ha mostrato. Se cancellazioni e rimozioni vi furono (e ve ne furono!), il gioco di prestigio degli psichiatri non mancò di una certa raffinatezza. Inoltre, circoscrivere la ragione sociale della psichiatria alla predominante funzione di negazione dall’orizzonte comunitario di folli, criminali nati, degeneri e quant’altro la circumnavigazione antropologica si trovava sott’occhio, comporta il palpabile rischio di svalutare la dimensione pubblica degli uomini di scienza, a tutto tondo intellettuali partecipi dei problemi del proprio tempo, come per altro l’affaire-Grandi lascia intuire. Una dimensione di maitre à pensée la quale, prima della prolungata eclissi novecentesca (1920-1960/70), rinvia ad una delle cifre dominanti dell’agire globale di alienisti, psicologi e antropologi.

A non credere alle coincidenze, che la sconfitta nel caso dell’Ammazzabambini fosse stato un incidente di percorso lo si poté appurare nel 1895, allorquando l’imputato, dopo vent’anni di galera scarcerato, non trovò altra accoglienza se non nel manicomio fiorentino di San Salvi, allora diretto da un giovane Eugenio Tanzi.

La psichiatria battuta sul campo nel 1875, nelle vesti indossate al processo dal giovane Enrico Morselli, coglieva la sua rivincita nella turbata Italia fin de siècle. Era un tale paradigma a suscitare consenso oltre i gabinetti specialistici, ispirando la pratica dei medici generici, intersecando – più che contraddicendo - il senso comune in un gioco di conferme à rebours quanto mai significativo, e suggestionando gli avversari di un tempo, i magistrati. Ricorda in conclusione la Guarnieri: “Durante questa frenetica ricerca [di una qualsiasi ospitalità], l’incomodo ex detenuto era sempre stato rinchiuso in una cella di sicurezza. Lo stesso giorno passò a vederlo un medico fiscale; costui certificò che il Grandi si trovava ‘in condizioni psichiatriche tutt’altro che normali, tanto che da un momento all’altro potrebbe riuscire di pericolo alla Società’. Era diventata quella ormai, nel linguaggio dei periti e dei giudici, la nuova definizione da stabilire per tipi come lui: se fosse o no socialmente pericoloso” (p.206). 

Dopo ulteriori sedici anni di reclusione manicomiale, l’imbecille paranoico (p.238) Callisto Grandi morì il 01 marzo 1911.

Allo stesso modo delle sue esperienze e dei suoi stati d’animo, quasi mai la sua voce meritò l’onore di un interesse non strumentale da parte di periti, giudici e giornalisti. Eppure, le considerazioni trasmesse a futura memoria ad un gruppo di giovani allievi del corso di diritto penale dell’Università di Pisa in visita d’istruzione al San Salvi, possiedono ancora oggi un’intrinseca problematicità che non può lasciare indifferenti. “Questa storia per cui lo prendevano, lo sbattevano nelle prigioni, poi lo mandavano fuori e lo rinchiudevano in manicomio - rifletteva il Grandi congedandosi dagli studenti pisani – [lui] non era riuscito veramente a spiegarsela. Se era pazzo, non dovevano metterlo in galera né tenercelo tanto; e se non lo era, come avevano detto i giudici al processo, allora dovevano lasciarlo in libertà appena espiata la pena: disse proprio così agli  studenti” (p.208). E come l’appassionante volume della Guarnieri, questo personale epitaffio esistenziale di Callisto Grandi, uccisore di giovinetti, ci invoglia a terminare la lettura dell’ultima pagina, posare il libro sulla scrivania e, non di  meno, ancora riflettere sui “fatti dell’oscuro vivere quotidiano” (p.106).

                  Maitres à dispenser                                        

NOTA alla LETTURA

 

Nel testo ho accennato ad alcuni contributi.

Brevemente segnalo: di Patrizia Guarnieri la monografia Individualità difformi. La psichiatria antropologica di Enrico Morselli, Milano 1986, ed il saggio Madri che uccidono. Diritto, psicologia e mentalità sull’infanticidio dal 1810 ad oggi, in M. Bresciani Califano, a cura di,  Sapere & Narrare. Figure della follia, Firenze 2005, pp.145-74.

Nulla più che introduttiva ma utilissima è la voce Microstoria di Ida Fazio all’indirizzo internet http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/microstoria_b.html.

La citazione relativa a Renato Rebizzi fa riferimento alle diagnosi e anamnesi trascritte nelle cartelle cliniche conservate presso l’archivio di Stato di Cremona, fondo Ospedale Psichiatrico Provinciale, anno 1917, b.110, 111, 112 e 113. Un breve ricordo biografico dello stesso Rebizzi in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, LXVI, 1942, p.187.

Il Pirandello di Come tu mi vuoi è l’occasione per le riflessioni di Leonardo Sciascia in Il teatro della memoria. La sentenza memorabile, Milano 2004.

Apro una parentesi. Sulla valutazione del successo delle teorie antropologiche e della fama del loro massimo divulgatore, Cesare Lombroso, rimando per la serietà e la caratura degli studi a due differenti letture – che immagino scaturiscano da un percorso interpretativo preciso - di Renzo Villa. Nel noto Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Milano 1985, Villa scriveva: “Una tale rapida fortuna fu seguita da un ben rapido declino (…). Eppure, nel pieno della sua attività giungevano alla sua biblioteca e nel suo Museo dell’Istituto di medicina legale, omaggi, scritti ed oggetti che testimoniano da ogni parte del mondo, della sua fama, del suo esser punto di riferimento incontrastato nell’ambito dello studio di ciò che fuori dalla norma si pone”. Diversamente nel recente saggio Un album riservato, in Locus Solus, 2, Lombroso e la fotografia, Milano 2005, p. 37, lo stesso Villa annota: “Quando poi fu chiaro che l’asserzione della pericolosità (…) non avrebbe trovato spazio nel nuovo codice penale italiano, Lombroso si appoggiò sempre più ad Enrico Ferri, ai suoi ‘sostituti penali’ (…). La Scuola positiva di diritto penale utilizzerà ancora in parte l’indirizzo lombrosiano, ma sempre più marginalizzandolo, mentre Ferri organizzava, insieme a una ‘scuola’, anche alcuni miti di singolare durate ed efficacia: il più diffuso, trappola ancora efficace, è quello dell’ ‘unico prodotto scientifico d’esportazione’, la favola dello ‘scienziato celebre in tutto il mondo’, una fede che egli stesso officia in centinaia di conferenze in Sud America e in giro per l’Italia (…). Il mito non regge, a meno che non si scambi la fama con la notorietà dei gazzettieri, ma la questione ha un suo interesse (…)”.

Infine, per l’approfondimento di alcune tematiche solo accennate nel testo, mi permetto molto modestamente di rinviare ad un mio precedente intervento: Culture psichiatriche & cultura nazionale. Per una storia sociale (1909-1929), in “Frenis Zero. Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività”, n.5, a.III, gennaio 2006 – http://web.tiscali.it/freniszero/scartabellati.htm.