Il lavoro clinico con bambini e adolescenti offre la
possibilità di verificare e mettere in discussione continuamente i
propri strumenti di lavoro, la prassi clinica
e le sue fondamenta teoriche. È soprattutto nel lavoro con bambini ed
adolescenti che si osserva come non sia semplicemente il passato ad
influenzare il presente ma quanto, attraverso il presente, sia
possibile descrivere un passato dotato di senso, comprensibile,
accettabile e tollerabile. È dunque necessario, per l’analista, per il
paziente e per il suo ambiente, costruire un presente in grado di
garantire un contenimento e prospettare un cambiamento
possibile rispetto alle vicende che hanno portato alla consultazione.
Se, come sosteneva Winnicott, “non
esiste una cosa come un bambino”, sottolineando così l’importanza
dell’ambiente di accudimento e spostando l’attenzione clinica sul
ruolo giocato dagli oggetti reali come elementi che plasmano il mondo
interno, risulta chiaro in che modo l’atteggiamento mentale del
terapeuta debba essere quanto mai flessibile nel focalizzarsi sui
bisogni e sulle interazioni reali. Il lavoro clinico, dunque, va oltre
la coppia analitica ed esercita la sua azione sull’intero ambiente di
accudimento del bambino. Un intervento psicoanalitico che può (e
spesso deve) estendersi al contesto allargato di vita del bambino:
genitori, nonni, tate, insegnanti ecc.
Questo nuovo modo di intendere
l’intervento ha le sue basi teoriche nelle scoperte dell’infant
research, che hanno evidenziato l’importanza dell’ambiente
esterno, convalidando così le brillanti intuizioni di Anna Freud.
È necessario, quindi, all’interno di un
intervento psicoanalitico su di un bambino, saper rivitalizzare le
competenze dei genitori. Ma quali competenze? Abbiamo molto spesso a
che fare con l’assenza di competenze, nel senso di competenze
“implicite”, procedurali. Spesso il vissuto portato dai genitori alle
prese con una situazione problematica relativa al loro bambino è “non
so più cosa fare”. È un vuoto procedurale, oltre che psichico, che
emerge, un vuoto del non saper “fare”. Oltre ai classici interventi
volti a favorire una maggiore consapevolezza di sé, è necessario
dedicarsi all’acquisizione di competenze relazionali che, per qualche
motivo, non sono mai state apprese dai membri della coppia genitoriale.
Soprattutto nei primi anni di età il cambiamento non avviene tramite
una comprensione esclusivamente simbolica, ma anche e soprattutto
attraverso un’acquisizione procedurale delle competenze. Poter
utilizzare allo stesso tempo interventi verbali/simbolici e interventi
“procedurali” ha lo scopo di “far accadere” qualcosa in seduta
(Barbieri).
Spesso lo scopo finale è quello di
portare il genitore ad una immedesimazione col bambino, in modo tale
da poter cogliere nel figlio aspetti di sé, spesso negati.
Winnicott,
precedendo i tempi della ricerca infantile delle neuroscienze e delle
scienze cognitive, già nel 1941 descrive l’esperienza reale che offre
ad una bambina in presenza della sua mamma: le permette di mordergli
concretamente il dito. La bambina, dopo assaggi esitanti in sedute
precedenti, osa affondare i propri dentini nel dito di Winnicott. Dopo
questa esperienza il quadro sintomatico si risolve. La bambina
esperisce la propria aggressività come esprimibile e non distruttiva e
Winnicott, a proposito della possibilità concreta di mordere o, come
per altri bambini, di prendere l’abbassalingua, commenta: “l’esperienza
di osare desiderare e prendere
l’abbassalingua, ed impossessarsene, senza in realtà alterare la
stabilità dell’ambiente immediatamente circostante rappresenta una
specie di lezione oggettuale che ha un valore terapeutico per il
bambino. [...] per tutto il periodo dell’infanzia, questo genere di
esperienza non conduce semplicemente ad una rassicurazione temporanea:
un’esperienza felice che si somma ad un’atmosfera stabile ed
amichevole ha per effetto l’instaurarsi nel bambino della fiducia
nelle persone del mondo esterno, e del suo sentimento generale di
sicurezza. Si rafforza pure la fiducia del bambino nella bontà delle
cose e dei rapporti dentro di sé. Questi piccoli passi verso la
soluzione dei problemi centrali si compiono nella vita quotidiana del
bambino di pochi mesi e di pochi anni, ed, ogni volta che il problema
viene risolto, qualcosa si aggiunge alla stabilità generale del
bambino, e si rafforza la base del suo sviluppo emozionale”.
Questo, come molti altri passaggi nei
lavori di Winnicott, è particolarmente interessante perché apre ad una
dimensione della mente, intuita allora clinicamente e confermata ora
dalle neuroscienze, che consente alla psicoanalisi di intervenire e
favorire cambiamenti non solo attraverso il piano simbolico delle
parole, ma anche attraverso il piano procedurale delle esperienze.
L’intervento psicoanalitico contestuale si avvale di tutti questi
contributi e si propone come una modalità di lavoro che contestualizza
l’intervento psicoanalitico direttamente all’interno della matrice
relazionale bambino-genitori, che lavora anche con il contesto
allargato di vita del bambino collaborando con le figure per lui
significative e cerca di mettere continuamente in dialogo i contributi
della psicoanalisi con i contributi delle discipline limitrofe.
Allo stesso modo, anche nel lavoro
terapeutico con gli adolescenti, l’analista deve cercare di mantenere
un assetto flessibile e spontaneamente controllato, per potersi
permettere di alternare interventi di contenimento, supporto e
chiarimenti insieme a caute ricostruzioni della storia (sin troppo
recente o addirittura attuale) personale del paziente. Nulla può
essere dato per scontato, nessun assetto terapeutico o modello teorico
può essere considerato a-priori quello più efficace.
Come porsi quindi nei confronti di un
adolescente? L’immedesimazione è il concetto chiave, come
movimento psichico nettamente distinto da una inconscia
identificazione o una conscia - ma non sempre immediata possibile
e disponibile - empatia. L’immedesimazione è
un’operazione mentale conscia e preconscia, transitoria, il più delle
volte concordante con parti del Sé, e presuppone nell’analista il
riconoscimento e la protezione dell’individualità e della separatezza
dell’oggetto, il quale viene prima introiettato e poi restituito. In
definitiva essa è la parte attiva e intenzionale di un processo più
articolato e complesso il cui esito finale ed armonico è l’empatia,
raggiungibile solo dopo aver sperimentato la più ampia disponibilità
osservativa. Qualcosa di totalmente differente, ovviamente, sia dall’analista
sospettoso (Nissim Momigliano), che dal caricaturale analista che
pretende di essere empatico a tutti i costi, al di là del livello del
suo coinvolgimento inconscio nelle vicissitudini di transfert e
controtransfert, rischiando così di perdere libertà associativa,
assetto neutrale e capacità di sospensione e di attesa riguardo agli
sviluppi naturali della sua relazione interna ed esterna con il
paziente, e con il processo psicoanalitico nel suo complesso.
<<È del tutto naturale e opportuno cercare di
comprendere l’esperienza del paziente e di stabilire un rapporto di
buon lavoro psicoanalitico con lui anche attraverso tentativi attivi e
intenzionali di immedesimazione, ma la vera empatia non è una marcia
che si può ingranare a comando, è una condizione complessa che
richiede spazio e sospensione per immedesimazioni articolate con le
varie aree i vari livelli interni del paziente>>
(Bolognini).
Si tratta quindi di essere disposti ad
affrontare insieme all’adolescente un viaggio affettivo condiviso
(Stern) oltrepassando una semplice (inconscia) identificazione ma non
dirigendosi necessariamente e frettolosamente verso una “empatia a
tutti i costi” che, in particolare nel caso di pazienti adolescenti,
potrebbe far vivere, senza una possibile elaborazione, fantasie di
sopraffazione, soffocamento e impossibilità di trovare la propria
unicità ed il proprio spazio affettivo nella mente dell’altro e nel
mondo.
Dunque nuove riflessioni e nuove
aperture a strumenti clinici, utili a far crescere bambini,
adolescenti e... psicoanalisti, poiché è spesso dall’analisi di
bambini ed adolescenti che si apprende il funzionamento della mente.
Gli ingredienti specifici della terapia con bambini e con adolescenti,
il ruolo della realtà esterna e dell’agire, la relazione reale, la
posizione soggettiva dell’analista, la duttilità del setting che, nei
casi gravi, impone scelte diverse dall’usuale stanza d’analisi, non
sono più considerate un ostacolo all’instaurarsi di un processo
psicoanalitico inteso come un processo di soggettivizzazione. Si
configurano invece come strumenti squisitamente psicoanalitici se
vengono scelti (e non semplicemente agiti) dall’analista nell’ambito
di una teoria metapsicologicamente fondata. Strumenti clinici che
stanno diventando, teoricamente e tecnicamente, sempre più importanti
anche per le terapie degli adulti.