Prima di iniziare un trattamento
psicoterapeutico od un’analisi, le varie scuole prevedono sempre un
primo colloquio oppure la raccolta di un’anamnesi. E’ importante
decidere se il trattamento analitico possa risultare veramente idoneo
o meno per il tipo di problema o patologia che il paziente presenta.
Per tale ragione secondo Dieckmann (2003) è indispensabile distinguere
in modo netto il momento del primo colloquio da quello della
eventuale introduzione del paziente alla metodica analitica e
differenziare queste due circostanze come ambiti distinti.
A questo punto verrebbe da chiederci se
una determinata strutturazione del primo incontro tra terapeuta e
paziente non sia in fondo in contrasto con il cosiddetto “spirito”
dell’analisi junghiana, la cui essenza dovrebbe consistere nella
evoluzione libera e creativa e nella riscoperta di sé da parte
dell’individuo. Lo stesso Autore ritiene che un tale atteggiamento sia
più che altro da attribuire al timore diffuso tra gli junghiani di
essere vincolati a tecniche codificate e ad un sistema rigido, con la
supposizione che tecniche standardizzate e generalizzabili invece di
promuovere il processo di individuazione lo impedirebbero
realizzandosi con esse una situazione riduttiva e vincolante.
Egli afferma che, comunque, tutti i
colleghi analisti in realtà mettono in atto una forma di primo
colloquio per individuare gli elementi diagnostici e le indicazioni
necessarie per l’eventuale processo analitico.
A tal punto mi sembra opportuno
procedere con una sintetica esposizione del pensiero dei vari
autori che
si sono interessati all’argomento.
Thoma e Kachele (1996) fanno notare che
di solito il paziente e l’analista si incontrano per la prima volta di
persona nella sala d’attesa, al momento del saluto e sostengono che
prima del loro incontro, quando paziente e terapeuta hanno avuto solo
un contatto telefonico per fissare l’appuntamento, si sono già messi
in moto i processi di transfert, controtranfert e resistenza. Il
paziente è già pieno di dubbi e speranze sul fatto che la decisione a
lungo rinviata possa sfociare, finalmente, in un trattamento efficace
dei suoi disturbi e che venga accettato in terapia. L’analista, da
parte sua, ha già appreso alcuni elementi sul conto del suo potenziale
paziente sia dal suo modo di annunciarsi, che da come è stato
indirizzato a lui o dal tipo di telefonata ricevuta.
I due psicoanalisti tedeschi
sostengono che solo con alcuni pochi pazienti cosiddetti “ideali“ può
essere omessa la prima intervista o persino una fase più lunga di
chiarimento, ma, per la maggior parte dei casi, il primo colloquio ha
una funzione decisiva per stabilire la possibilità o meno di una
terapia analitica in quanto rappresenta la prima opportunità di
utilizzare in maniera flessibile il metodo psicoanalitico, adattandolo
alle condizioni specifiche di ogni singolo paziente. Sono pochi,
secondo loro, i casi che non possano trarre beneficio dai mezzi
psicoanalitici, essendo la metodica basata sulla strutturazione di una
particolare relazione interpersonale con il paziente come individuo,
con l’obiettivo di influenzare in senso terapeutico disturbi, sintomi
e malattie, totalmente o parzialmente di origine psichica. Ecco perché
parlano di un “incontro”, in cui sono incorporate tutte le
tecniche e tutti i concetti della psicoanalisi.
In medicina quanto più sono
perfezionati i metodi e le tecniche terapeutiche, tanto più evidenti
saranno le loro relazioni con la supposta origine di ogni singolo
quadro clinico, e tanto migliore sarà la previsione della loro
efficacia e la formulazione della possibile prognosi.
Quanto più sono note le circostanze
condizionanti la comparsa di una malattia e con quanta maggiore
esattezza sono stati chiariti i meccanismi d’azione di un rimedio,
tanto maggiore sarà la possibilità di determinare il grado delle
valutazioni prognostiche. <<Perciò in medicina la possibilità di
standardizzare e generalizzare una tecnica, la sua applicabilità al
caso tipico, tenendo conto delle varianti individuali, rappresenta
l’ideale pratico e scientifico. Di conseguenza gli errori tecnici
possono essere definiti come deviazione da una norma stabilita, e ciò
è dimostrato in tutta la sua portata nell’accertamento di interventi
errati.
E’ applicabile questo ideale
all’intervento psicoanalitico? Possiamo aspettarci che il primo
colloquio ci fornisca i dati diagnostici necessari per permetterci di
stabilire criteri positivi di indicazione? Questo significa che
l’indicazione terapeutica e la prognosi sono correlate, come si può
intuire facilmente, alla domanda che ogni paziente fa al proprio
medico e anche al proprio analista: “Quali probabilità di migliorare o
guarire mi dà l’analisi? Le prospettive di un buon esito peggiorano se
vengo solo due volte la settimana?">>(Thoma e Kachele, 1996).
Tali domande mettono a disagio ogni
analista e perciò gli stessi autori hanno ammesso con franchezza che
anch’essi si erano sentiti più a loro agio lavorando in condizioni
standardizzate, vale a dire quando la diagnosi implica una chiara
psicogenesi, in modo che l’indicazione terapeutica e la prognosi
possano essere motivate.
Poiché, frequentemente, gli strumenti
psicoanalitici in senso stretto non possono essere impiegati,
diventano essenziali l’atteggiamento dell’analista e la sua maniera di
usare le comunicazioni del paziente sempre secondo il modello di
riferimento. Per questi motivi relativamente tardi si è sviluppata una
specifica tecnica di intervista psicoanalitica, ancorché l’influenza
della psicoanalisi si fosse già notata negli Stati Uniti
nell’intervista psichiatrica ed in Germania nella raccolta
dell’anamnesi in medicina psicosomatica (Thoma e Kachele, 1996).
Storicamente Freud (1904)
utilizzava i colloqui diagnostici preliminari per escludere le
malattie somatiche e le psicosi; in ogni caso non esitava mai ad
accettare in analisi pazienti anche gravi, considerando la possibilità
di un trattamento ospedaliero temporaneo in casi di emergenza come un
modo di estendere l’applicazione del metodo psicoanalitico.
Soddisfatte le premesse elementari e stipulato l’accordo sull’onorario
e sugli appuntamenti, al paziente veniva
spiegata
la “regola fondamentale” e l’analisi iniziava.
Allora come oggi, alcuni fattori quali
il grado di istruzione, l’età, la motivazione, erano altamente
rilevanti, ma Freud rinviava alla prima fase del trattamento
l’anamnesi dettagliata della vita del paziente.
Tutti i suoi pazienti erano “in
analisi”. Dopo avere abbandonato l’ipnosi egli non faceva distinzione
tra forme diverse di terapia psicoanalitica: esisteva soltanto il suo
metodo psicoanalitico; trattava prevalentemente pazienti gravi,
incapaci di andare avanti nella vita, vale a dire, quelli per i quali
e con i quali si era sviluppata la terapia psicoanalitica.
Il problema della selezione si presentò
quando la domanda cominciò a superare l’offerta.
Foto:
Otto Fenichel
Negli anni trenta del secolo scorso,
presso l’ambulatorio dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino, Fenichel
confermava che il rapporto tra domanda e offerta si attestava sulla
percentuale di 2,5:1 e riscontrava nel contempo 241 interruzioni di
analisi su 721. La spiegazione fornita era della dubbia idoneità al
trattamento da parte dei pazienti che l’avevano interrotto. Questi
comunque erano stati sottoposti a una “analisi di prova”, alla fine
della quale il terapeuta avrebbe dovuto pronunciarsi o positivamente o
negativamente.
Col tempo si è pensato di eliminare
l’analisi di prova, poiché il rifiuto alla fine di questo periodo
avrebbe potuto essere molto doloroso per il paziente, se il verdetto
“non idoneo alla psicoanalisi” non fosse stato mitigato o integrato
con suggerimenti di una valida alternativa. Comunque l’eliminazione
dell’analisi di prova non ha risolto il problema, ma lo ha spostato
alla prima intervista.
Già nel 1930 era stato possibile notare
le influenze del pensiero psicodinamico sul primo colloquio
psichiatrico. Gill, Newman e Redlich (1954) danno il loro contributo
allo sviluppo della tecnica dell’intervista psicodinamica proponendosi
di raggiungere tre obiettivi:
- il primo obiettivo era instaurare
una relazione tra due sconosciuti dei quali uno era un
professionista e l’altro un essere umano che soffriva psichicamente e
che spesso era causa di sofferenza anche per gli altri.
Indipendentemente da chi fosse il terapeuta ed il paziente, si doveva
realizzare un serio tentativo di comprensione di quest’ultimo,
attuando un caldo contatto umano e un certo apprezzamento reciproco.
- il secondo obiettivo era una
valutazione della situazione reale del paziente;
- il terzo obiettivo era rafforzare
il desiderio del paziente di intraprendere la terapia più indicata
e pianificarla con lo stesso in passi ulteriori.
Negli anni cinquanta le strategie di
intervista orientate psicodinamicamente erano state oggetto di varie
elaborazioni. Deutsch sviluppava la tecnica dell’“anamnesi
associativa”, che consisteva nel registrare non soltanto ciò che
il paziente diceva, ma anche come aveva fornito l’informazione. Non
era importante soltanto che il paziente comunicasse le sue sofferenze,
ma anche in quale fase dell’intervista e in relazione a che cosa
manifestasse le sue idee, le sue lagnanze e i ricordi connessi con i
disturbi somatici e psichici (Deutsch e Murphy,1955).
Foto: Otto Kernberg
Con “l’intervista strutturale”
di Kernberg (1977, 1981, 1984) si può parlare di “seconda generazione”
di intervista iniziale psicodinamicamente orientata. Egli tenta di
mettere in rapporto la storia personale della malattia del paziente ed
il suo funzionamento psichico generale con la relazione diretta tra il
paziente e il terapeuta, cioè nel “qui e ora” dell’interazione. Egli
raccomanda al terapeuta un
procedimento circolare. Ritornando
continuamente sul problema e sul sintomo del paziente, da una parte si
precisa lo stato psicopatologico, e dall’altra si concentra
l’attenzione sulla relazione medico-paziente in un ottica
psicoanalitica. Lo scopo principale di questo procedimento è quello di
accertare l’esistenza di una identità dell’ Io coesa, di contro ad una
diffusione dell’identità o ad una dissociazione psicotica, così come
della prevalenza di meccanismi di difesa più “arcaici“ o “maturi” e
della presenza o assenza dell’esame di realtà.
All’intervistatore interessa valutare
la motivazione del paziente, la capacità di introspezione, la
disponibilità a stabilire un’alleanza di lavoro, come pure la tendenza
di passaggio all’atto o il pericolo di uno scompenso psicotico. In
certi casi, al paziente nevrotico vengono interpretate le correlazioni
inconsce; il paziente borderline invece è messo di fronte alle
scissioni nella rappresentazione di sé, che stanno alla base della
diffusione di identità.
Il filo conduttore dell’intervista che
Kernberg struttura attraverso determinate domande durante le fasi
iniziali, intermedia e conclusiva del colloquio segue, nonostante il
suo stile circolare, lo schema fenomenologico psichiatrico che
considera attentamente, dapprima le psicosi organiche, poi le psicosi
funzionali e infine i disturbi borderline e le nevrosi.
In America Latina, invece, la teoria e
la pratica della prima intervista è frequentemente influenzata dai
lavori di Bleger (1971), che preferisce parlare di intervista
psicologica, come concetto più ampio che ingloba sia il colloquio
psichiatrico che quello psicoanalitico. Le sue idee hanno permesso
applicazioni in diversi campi della psicologia e della medicina come
ad esempio nello sviluppo di tecniche di consulenza all’interno
dell’ospedale (Ferrari, Luchina e Luchina, 1971).
L’introduzione del modello della
Tavistock Clinic cambia il modo di concepire la prima intervista,
poiché vi si include la psicoanalisi come metodo terapeutico e la
diagnosi viene subordinata alla terapia. Questo cambiamento
qualitativo è opera prevalentemente di Balint.
Foto:
Michael Balint
Egli sostiene che nella formulazione
della diagnosi possono essere utilizzati solo gli apporti del
paziente, intesi in senso ampio come “la somma totale delle sue
reazioni nei confronti di un particolare medico, in un particolare
momento, in un particolare ambiente” (Balint e Balint, 1961).
Il messaggio di fondo dei suoi scritti,
diretti in generale ai medici, è che si deve fare il tentativo di
usare come criterio decisionale “la capacità potenziale del paziente a
sviluppare e a mantenere rapporti umani” e che ciò che conta è la
relazione umana, affettivo-emotiva tra medico o psicoanalista e
paziente. Pertanto l’accettazione dei concetti di Balint ha fatto sì
che il primo colloquio, come situazione psicoanalitica, possa essere
strutturato nelle maniere più diverse e applicato in molti e
differenti campi professionali.
Un aspetto importante è anche l’attesa
per un primo colloquio perché delinea due situazioni; dopo che il
paziente ha fatto il passo di porre la domanda: da una parte egli
viene a trovarsi in uno stato in cui sperimenta nella sua fantasia
conscia o inconscia un’attivazione del complesso o dei complessi
patogeni, mentre dall’altra la resistenza inconscia a tale attivazione
viene inevitabilmente rafforzata dalla frustrazione dell’attesa
medesima. Infine per quanto riguarda un aspetto particolare come la
compilazione di questionari o l’esecuzione di tests precedentemente al
primo colloquio, di solito in ambienti istituzionali, si è potuto
verificare che tali procedure alimentano nel paziente aspettative
eccessive e che ne alterano la spontaneità, fatto del quale il
terapeuta deve tenere conto.
Riferendosi alle condizioni necessarie
per lo svolgimento ottimale della prima intervista, Balint enuncia
alcune raccomandazioni che si possono così riassumere:
1.
preparare il paziente in maniera adeguata al colloquio
per evitare delusioni, dal momento che l’intervista è una situazione
inconsueta per lui;
2.
il terapeuta dovrebbe creare e mantenere un’atmosfera
favorevole nella quale il paziente sia in grado di aprirsi e di
offrirgli la possibilità di essere compreso;
3.
le dichiarazioni sul paziente devono sempre includere
l’indicazione dei parametri situazionali creati dall’intervistatore, i
quali hanno agito sul paziente come “stimoli”;
4.
è molto importante farsi qualche idea sullo sviluppo
ulteriore della relazione, prima di cominciare a darle forma nel corso
del colloquio, cercando di prevedere se questa si interromperà dopo l’
incontro, provvisoriamente o per sempre, sia che il paziente sia messo
in lista d’attesa, sia che venga indirizzato ad altro collega
(colloquio “di indirizzo” );
5.
per quanto riguarda la durata dell’intervista è
indispensabile che gli psicoanalisti, soprattutto i principianti nelle
tecniche di colloquio, si prefiggano un’esatta delimitazione dello
sviluppo della stessa, per evitare di effettuare un numero
indeterminato di sedute, corrispondente al grado della loro
insicurezza personale;
6.
si suggerisce una “tecnica elastica di intervista”,
in modo che il terapeuta sia in grado porsi in modo differenziato nei
confronti di ogni singolo paziente.
Un’altra importante riflessione di
Balint che noi troviamo in uno dei suoi scritti (1961) è la seguente:
”E’ consigliabile o desiderabile che un consulto venga limitato a un
semplice esame diagnostico, o dovrebbe includere una qualche terapia,
ad esempio qualche forma molto sfumata di psicoanalisi?”
Thoma e Kachele sono dell’opinione che
<<il paziente debba sperimentare durante il primo colloquio che cosa
può significare per lui un trattamento; ciò è già di per sé
un’esperienza terapeutica. Ma vedere il primo colloquio come un
modello della terapia è una pretesa che non può essere soddisfatta.
L’intervista dovrebbe essere condotta in maniera che il paziente, in
base all’esperienza del primo colloquio, possa giungere alla decisione
di volersi sottoporre a un trattamento psicoterapico e di essere
pronto a esporsi agli inevitabili problemi ad esso connessi>>. Un tale
atteggiamento libera il paziente dalla sua posizione di passività. Rosenkotter
(1973) sostiene che quando un paziente consulta uno psicoterapeuta a
causa dei sintomi nevrotici o di altre difficoltà esistenziali di
natura psichica, i primi contatti tra i due si svolgono,
fondamentalmente, in modo non diverso da quanto avviene nelle
consultazioni con altri medici. Il paziente racconta i suoi problemi e
il terapeuta tenta di apprendere il più possibile sulla loro comparsa
e storia precedente, così come la storia della sua vita in genere, per
farsi un’idea sull’indicazione e la prognosi del trattamento.
L’esperienza professionale e la capacità di comprensione empatica del
terapeuta hanno qui un ruolo molto importante. Egli deve prevedere un
tempo sufficiente per dare al paziente la possibilità di intervenire
nel dialogo in modo spontaneo e autonomo; deve seguire prudentemente e
integrare con eventuali domande il racconto del paziente e cercare
inoltre di assumere un atteggiamento benevolo, neutrale e riservato,
evitando di portarlo, con domande dirette, giudizi categorici e
prescrizioni, a quell’atteggiamento di aspettativa passivamente
magica a cui di solito soggiacciono i malati di fronte al medico.
Portando all’estremo le tesi di Balint,
Argelander (1966) descrive l’intervista come <<una situazione analitica
in cui usiamo il nostro strumentario psicoanalitico anche a scopo
diagnostico>>.
Quest’ultimo nel 1967 prende in
considerazione due campi di esperienza, che tenta di correlare tra
loro: da una parte il rilevamento dei fatti obiettivi e dall’altra lo
sviluppo di vissuti soggettivi durante l’intervista. La fusione di
questi due campi di esperienza, dove quello obiettivo è subordinato al
soggettivo, permette un accesso specificamente psicoanalitico alla
situazione del colloquio. <<Sappiamo dall’esperienza psicoanalitica che
i decorsi psichici interni vengono proiettati all’esterno nella
relazione oggettuale, dove possono essere percepiti e vissuti
soggettivamente. Per questo motivo, in questa situazione di prima
intervista diamo la possibilità al paziente di avviare una relazione
oggettuale lasciando che egli le dia la forma, il contenuto e la
dinamica secondo la specifica singolarità della personalità. In questo
modo è garantita in pieno la spontaneità.
La nostra apparenza, età, sesso,
carattere, temperamento ecc. sono stimoli situazionali concreti che
spingono la persona esaminata a trasferire sull’esaminatore i
preesistenti sentimenti, le aspettative, i conflitti, le
rappresentazioni e fantasie>> (Argelander, 1967).
Vorrei esporre ora come i vari Autori
affrontano la questione dei “Criteri di indicazione al
trattamento”.
Per Freud erano essenzialmente criteri
di esclusione: da escludere erano i malati che non possedevano un
certo livello intellettivo e un carattere in una certa misura
affidabile, oppure quelli che non sentivano spontaneamente la
necessità di una terapia per le loro sofferenze, ma venivano a
consultazione solo su pressione dei loro congiunti, cioè soggetti in
cui mancava una autentica motivazione. Secondo le sue parole, se si
vuol procedere sicuri, si deve limitare la propria scelta a persone
che hanno uno stato da lui definito normale che noi oggi
considereremmo nevrotico, poiché, da questa base, nel procedimento
analitico, si arriva a dominare ciò che vi è in lui di patologico.
Anche l’età rientrava nei criteri di esclusione.
Più importante dei criteri negativi ci
sembra la formulazione freudiana di quelli positivi che risulta molto
meno nota: <<La terapia psicoanalitica è stata creata per malati
permanentemente incapaci di vivere>> (Freud, 1904).
In quanto esiste un certo “stato
normale” nel senso prima descritto, che noi oggi definiremmo
nevrotico, Freud non vede limitazioni nella gravità della malattia.
Questo punto di vista si differenzia sostanzialmente da quanto risulta
da numerose tavole rotonde sul problema dell’analizzabilità (Waldhorn,
1960), che si può riassumere nella seguente descrizione del paziente
idoneo: “Sufficientemente malato per averne bisogno, ma
sufficientemente sano per sopportarlo”.
Altri Autori collegavano l’analizzabilità
con la diagnosi, come ad esempio Fenichel (1945) che accoglie l’idea
di collegare la prognosi con la gravità della nevrosi.
Glover (1955) fa proprio il concetto di
accessibilità e individua tre categorie diagnostiche:
accessibile, moderatamente accessibile e incurabile.
Già dal 1954 con il simposio “The
Widening Scope of Psychoanalisis” si sposta l’accento sui criteri di
“idoneità” e in quello stesso anno Anna Freud sostiene che non c’è
alcuna garanzia che due persone con analoghi sintomi reagiscano in
modo uguale agli stessi interventi tecnici.
Per alcuni Autori i criteri di idoneità
al trattamento analitico, sono gli stessi usati come elementi
indicativi dell’evoluzione del processo terapeutico.
Secondo Tyson e Sandler (1971): <<Il
paziente deve avere un certo livello di intelligenza, capacità di
tollerare sentimenti dolorosi, ed essere capace di sublimare. Le sue
reazioni oggettuali devono essere sviluppate relativamente bene e la
sua capacità di confrontarsi con la realtà deve essere più o meno
buona. La sua vita non deve ruotare intorno all’analisi, per evitare
una dipendenza troppo forte da essa; il suo carattere e il suo grado
di cultura devono avergli procurato una buona posizione sociale con i
relativi riconoscimenti. Ci potrebbe capitare di trovarci nella
paradossale situazione di scoprire che il paziente che corrisponde
idealmente a queste premesse non ha affatto bisogno di un’analisi>>!
Cremerius (1979) sostiene che <<i limiti
dell’analizzabilità non sono i limiti del paziente e della sua
psicopatologia>>, come Freud aveva asserito nel 1937, <<bensì i limiti
dell’analista>>.
Se “analizzabile” si riferisce a tutto
ciò che uno psicoanalista può fare e riesce a tollerare, l’indicazione
al trattamento può essere oggetto di discussione e ricerca soltanto
nell’ambito di una strutturazione bipersonale del processo
terapeutico.
Il processo che nella prima intervista
porta all’indicazione si trasforma così da concetto statico di
indicazione prognostica in concetto dinamico di indicazione
adattativa (Baumann e Wedel, 1981) e in tal modo il paziente e
l’analista sono entrambi coinvolti nella relazione. Un esempio felice
di questa concezione è fornito da Shapiro (1984), che propone
un approccio puramente psicoanalitico per decidere il metodo
adatto di trattamento. Ad esempio, al posto dell’analisi di prova,
egli introduce una fase esplorativa durante la quale fa familiarizzare
il paziente con il metodo delle libere associazioni, allo scopo di
verificare la forza dell’Io e la motivazione al trattamento nei casi
dubbi.
Sono d’accordo con Shapiro quando
presenta una possibile fase diagnostica della terapia, che non
deve essere intesa come analisi di prova in senso tradizionale
finalizzata alla decisione di idoneità, ma lo scopo di essa invece è
di stabilire quali cambiamenti siano raggiungibili e a quali
condizioni terapeutiche. L’ampio spettro teorico a cui fanno
riferimento le attuali forme di psicoterapia psicoanalitica consente
svariate possibilità di scelta, che non devono restringersi all’ambito
della psicoanalisi in senso stretto.
D’altra parte esiste il problema di
conciliare il tipo di trattamento non strettamente classico. Secondo
Luborski (1984) nel passaggio dalla prima intervista alla terapia è
importante dare il maggior spazio possibile alla flessibilità e creare
un’atmosfera di libertà che risvegli speranze ma allo stesso tempo,
bisogna delimitare una cornice che garantisca buone condizioni di
lavoro.
Ora vorrei parlare di autori di area
junghiana a partire da Jung stesso.
Nel 1958 Jung in “Pratica della
psicoterapia” fa il confronto fra il modo di procedere in medicina e
in psicoterapia: <<In medicina si presume generalmente che la visita
del paziente debba condurre per quanto è possibile alla diagnosi della
sua malattia e che la formulazione della diagnosi costituisca un dato
essenziale e decisivo in vista della prognosi e della terapia. La
psicoterapia fa vistosamente eccezione a questa regola: la diagnosi è
in essa un fatto irrilevante, in quanto col dare un nome più o meno
indovinato a uno stato nevrotico non si arriva a niente, specie in
fatto di prognosi e di terapia.
In lampante contrasto con altri rami
della medicina, nei quali una determinata diagnosi è talvolta seguita
da una terapia specifica e, per conseguenza, da una prognosi
relativamente sicura, la diagnosi di una psiconevrosi significa al
massimo che è indicata una terapia psichica. Per quanto riguarda la
prognosi invece, essa è quanto mai indipendente dalla diagnosi, né può
essere taciuto il fatto che la classificazione delle nevrosi è molto
insoddisfacente, ragion per cui una diagnosi specifica ha raramente un
significato effettivo. In genere, basta la diagnosi di “psiconevrosi”
in contrapposizione a disturbo organico, senza andare più in là di
così>>.
La diagnosi psicologica mira a
diagnosticare i complessi e quindi a formulare, a esprimere,
dati che il quadro clinico vela assai più di quanto riveli. La vera e
propria causa morbosa va ricercata nel complesso, il quale è un’entità
psichica relativamente autonoma: esso dimostra la sua autonomia col
non lasciarsi inquadrare nella gerarchia della coscienza o con
l’opporre una resistenza efficace alla volontà. Questo fatto, facile
da provare sperimentalmente, spiega la concezione viva fin da tempi
immemorabili secondo cui la psiconevrosi e la psicosi sono stati di
“possessione”. L’osservatore ingenuo prova infatti l’impressione
irresistibile che il complesso rappresenti qualcosa di simile a “un
governo-ombra dell’Io”.
Jung enfatizza il fatto che la diagnosi
di una nevrosi non si possa fare per mezzo di esami; ma si manifesta
solo durante il trattamento. Quindi, paradossalmente, la vera diagnosi
psicologica si può fare alla fine del trattamento, cosa che è
improponibile in medicina generale, dove una diagnosi sicura è il
presupposto per una buona terapia e una buona prognosi. Secondo Jung è
necessario che lo psicoterapeuta sia certo della diagnosi
differenziale tra disturbi psichici e disturbi organici. Addirittura
arriva a concludere paradossalmente che quanto di meno lo
psicoterapeuta sa anticipatamente, tanto maggiori sono le probabilità
di successo della cura. Egli afferma che <<ogni psicoterapeuta non ha
soltanto il suo metodo, ma è egli stesso quel metodo. In psicoterapia,
il grande fattore di guarigione è la personalità del terapeuta ed essa
non è posseduta a priori, non è uno schema dottrinario, ma rappresenta
il massimo risultato da lui raggiunto. Le teorie sono inevitabili,
come meri sussidi. Se sono elevate a dogmi, dimostrano che è stato
represso un dubbio interiore>>.
Anche per Fordham (1981), come avevano
già sostenuto Freud e Jung, prima di prendere in considerazione
l’idoneità del paziente per la terapia analitica, è necessario
accertarsi che la sindrome per cui ha chiesto un colloquio non sia
dovuta a una malattia organica. E’ proprio in seguito all’ansia di
trascurare una malattia organica che una volta la psicoanalisi veniva
consigliata sulla base di una diagnosi negativa; se la causa dei
disturbi del paziente non era fisica, allora si riteneva che fosse
psicologica. Oggi tuttavia, per il terapeuta non è una giustificazione
sufficiente. Ciò a cui si vuole arrivare è una valutazione positiva
che offra buone probabilità al paziente di trarre dei benefici da una
cura lunga e spesso difficile.
Nell’effettuare questa valutazione
positiva il terapeuta prenderà in considerazione: l’intelligenza del
paziente, la probabilità che egli sia capace di crescita e di
cambiamento, il grado di regressione di cui ci sarà bisogno e la
motivazione. Indicazioni più precise possono venire fornite dal
carattere delle sindromi psichiatriche, dato che la probabilità di un
esito positivo dei trattamenti è maggiore nel caso degli stati ansiosi
e nell’isteria che negli altri casi. Per Fordham comunque ciò non vuol
dire che i disturbi ossessivi, molti tipi di fobie, i disturbi
caratteriali, le perversioni sessuali, i casi borderline e certi tipi
di psicosi non possano trarre benefici dalla terapia. Ma perché la
terapia possa essere d’aiuto dipende da diversi fattori, dato che in
ognuna di queste categorie di pazienti alcuni risultano idonei e altri no.
A proposito dello stile del
primo colloquio Fordham sostiene che il primo incontro può essere
strutturato in modo da somigliare a una qualsiasi seduta analitica,
anche se la procedura non deve essere troppo insolita e sconsiglia
l’uso del lettino.
Il terapeuta può iniziare facendo alcune domande circa
l’età, la professione, chiedere se il paziente è sposato oppure no.
Questi dati di solito bastano a fornire all’analista certe
informazioni e a dare al paziente il tempo di cominciare ad adattarsi
all’atmosfera della seduta. Il passo successivo consiste nel far
capire al paziente che ci si aspetta che parli a modo suo del proprio
problema e di tutto ciò che gli può sembrare significativo. Ogni cosa
il paziente dica ha la sua importanza e, col procedere del colloquio,
il terapeuta ne darà dimostrazione e lo aiuterà a chiarire il
significato delle sue comunicazioni. Talvolta può dare con cautela
qualche interpretazione a quanto da lui stesso esposto, dato che non
gli sarà possibile elaborarne le conseguenze oltre certi limiti.
Perciò fin dal primo momento il paziente viene collocato al centro
degli avvenimenti. Gli viene chiesto cosa pensa e cosa sente e
scoprirà che le sue convinzioni vengono prese molto sul serio e
suscitano delle risposte. Al termine del colloquio, a differenza di
una normale seduta analitica, il terapeuta riassumerà quel che è stato
detto e dirà quello che, a suo parere, bisogna fare. E’ indispensabile
che il paziente riesca ad intravedere una logica nelle conclusioni e
nelle indicazioni date dal terapeuta in quanto frutto di uno scambio
dialettico e non come pronunciamenti ex
cattedra.
Importante per Fordham è valutare per
esempio se il paziente ha delle forti difese, se ha capacità di
insight, se ha una capacità di impegnarsi nel dialogo.
Fordham
consiglia inoltre un primo
incontro della durata di un’ora e mezza che può consentire ad un
paziente inibito di elaborare materiale sufficiente e ad un paziente
logorroico di esaurire il suo fiume di parole.
Interessante è anche l’uso delle
interpretazioni come strumento per valutare la motivazione e
l’idoneità del paziente alla terapia analitica. Per molti pazienti,
sembra che la motivazione dipenda dalla capacità dell’analista di
intervenire appropriatamente e se necessario interpretare.
In riferimento alla eventuale richiesta
del paziente sulla possibile durata del trattamento Fordham suggerisce di
sottolineare che non dipende solo dall’analista, ma anche dai bisogni
e dai desideri del paziente.
Infine un altro importante studio è
quello di Dieckmann (2003), psicologo-analista di Berlino, che sostiene
che il primo colloquio è un problema riguardante non solo la
psicologia analitica, ma è connesso al processo analitico,
indipendentemente dalla scuola a cui appartiene il terapeuta.
In medicina organicista vi è una netta
distinzione tra la diagnostica e la terapia; nella maggior parte dei
casi solo raramente i procedimenti diagnostici eseguiti sul paziente
hanno su di esso anche effetti terapeutici. Nella medicina che si
occupa della sfera psichica la situazione è diversa, dal momento che
ogni indagine diagnostica corrisponde ad un intervento terapeutico che
in modo più o meno profondo può modificare i vissuti psichici. Le
modificazioni avverrebbero grazie alla conduzione analitica del
colloquio, nella quale l’attenzione è rivolta ai processi inconsci e
alle dinamiche di questi, mobilitando i complessi psichici patogeni e
inducendo il paziente ad un confronto più profondo e riflessivo con se
stesso.
Secondo Dieckmann chiedendo ai pazienti nel
corso dell’analisi quali siano state le loro reazioni verso l’analista
dopo il primo colloquio essi rispondono di aver avuto delle reazioni
più o meno forti che in qualche modo hanno modificato il quadro
patologico. La sua osservazione nei pazienti gravemente schizoidi
potrebbe avvalorare l’impressione che il primo colloquio non provochi
in essi alcuna reazione, ma successivamente durante la terapia può
emergere che sotto questa apparente indifferenza essi abbiano avuto
intense reazioni emotive.
Dieckmann sostiene che con un primo
colloquio fatto a regola d’arte da un esperto, di solito si possono
provocare al massimo miglioramenti o peggioramenti di lieve entità e
comunque si dovrebbe evitare il pericolo di attivare un reale processo
distruttivo.
Egli considera la raccolta di
un’anamnesi biografica un procedimento non analitico, che privilegia
troppo la sfera conscia a scapito del materiale inconscio e ciò
creerebbe una situazione inadatta per iniziare un’analisi. Un altro
motivo per cui l’anamnesi sarebbe da evitare è che il paziente
nevrotico che si rivolge, per la prima volta, ad un terapeuta si trova
di solito in uno stato d’ansia e di tensione notevole e dover
riportare durante il primo incontro quantità di fatti rilevanti ed
esatti costituisce già di per sé uno sforzo eccessivo per lui. Bisogna
inoltre sottolineare che attraverso i meccanismi di difesa e i
processi di rimozione si verificano in ogni caso dimenticanze, errori
e distorsioni dei ricordi tanto che se si facesse una seconda anamnesi
alla fine di una terapia analitica riuscita, verrebbe fuori un quadro
completamente diverso rispetto a quello iniziale.
Dieckmann sottolinea che secondo la sua
esperienza in una situazione analitica aperta i pazienti comunicano
molto di più di quanto non facciano durante un’indagine mirata del
primo colloquio.
In Germania, ad esempio, le prime
cinque sedute vengono rimborsate anche senza la procedura di
certificazione, per cui queste prime sedute possono assumere un
aspetto di una specie di mini analisi probatoria che il terapeuta
utilizza per raccogliere i dati e i fatti necessari per rispondere a
quanto viene richiesto per la certificazione.
Un procedimento del genere può andare
benissimo in alcuni singoli casi, tuttavia un primo colloquio così
protratto nel tempo crea spesso una situazione transferale/controtransferale
tra medico e paziente. Se a questo punto il paziente viene valutato
inadeguato per l’analisi, l’interruzione della relazione può
costituire uno shock emozionale che può ad esempio aggravare un
rischio di suicidio. Secondo Dieckmann si può verificare che analisti anche
esperti arrivino a pensare di non poter abbandonare pazienti che in
realtà non potrebbero essere presi in carico.
A questo punto Dieckmann ritiene che
questo rischio possa essere evitato con un primo colloquio effettuato
in un’unica seduta approfondita, o al massimo con una seconda seduta
dopo avere vagliato accuratamente il materiale raccolto nel primo
incontro.
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