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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

Recensioni Bibliografiche

 

  "I PRIMI CONTATTI CON LO PSICOTERAPEUTA"

 

 

  di Stefano Benegiamo

  

 

 

Stefano Benegiamo è medico e psicoterapeuta, candidato dell'AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica), e vive a Lecce.

 


 

 

 

 

Prima di iniziare un trattamento psicoterapeutico od un’analisi, le varie scuole prevedono sempre un primo colloquio oppure la raccolta di un’anamnesi. E’ importante decidere se il trattamento analitico possa risultare veramente idoneo o meno per il tipo di problema o patologia che il paziente presenta. Per tale ragione secondo Dieckmann (2003) è indispensabile distinguere in modo netto il momento del primo colloquio da quello della eventuale introduzione del paziente alla metodica analitica e differenziare queste due circostanze come ambiti distinti.

A questo punto verrebbe da chiederci se una determinata strutturazione del primo incontro tra terapeuta e paziente non sia in fondo in contrasto con il cosiddetto “spirito” dell’analisi junghiana, la cui essenza dovrebbe consistere nella evoluzione libera e creativa e nella riscoperta di sé da parte dell’individuo. Lo stesso Autore ritiene che un tale atteggiamento sia più che altro da attribuire al timore diffuso tra gli junghiani di essere vincolati a tecniche codificate e ad un sistema rigido, con la supposizione che tecniche standardizzate e generalizzabili invece di promuovere il processo di individuazione lo impedirebbero realizzandosi con esse una situazione riduttiva e vincolante.

Egli afferma che, comunque, tutti i colleghi analisti in realtà mettono in atto una forma di primo colloquio per individuare gli elementi diagnostici e le indicazioni necessarie per l’eventuale processo analitico.

A tal punto mi sembra opportuno procedere con  una sintetica esposizione del pensiero dei vari autori che si sono interessati all’argomento.

Thoma e Kachele (1996) fanno notare che di solito il paziente e l’analista si incontrano per la prima volta di persona nella sala d’attesa, al momento del saluto e sostengono che prima del loro incontro, quando paziente e terapeuta hanno avuto solo un contatto telefonico per fissare l’appuntamento, si sono già messi in moto i processi di transfert, controtranfert e resistenza. Il paziente è già pieno di dubbi e speranze sul fatto che la decisione a lungo rinviata possa sfociare, finalmente, in un trattamento efficace dei suoi disturbi e che venga accettato in terapia. L’analista, da parte sua, ha già appreso alcuni elementi sul conto del suo potenziale paziente sia dal suo modo di annunciarsi, che da come è stato indirizzato a lui o dal tipo di telefonata ricevuta.

I due psicoanalisti tedeschi  sostengono che solo con alcuni pochi pazienti cosiddetti “ideali“ può essere omessa la prima intervista o persino una fase più lunga di chiarimento, ma, per la maggior parte dei casi, il primo colloquio ha una funzione decisiva per stabilire la possibilità o meno di una terapia analitica in quanto rappresenta la prima opportunità di utilizzare in maniera flessibile il metodo psicoanalitico, adattandolo alle condizioni specifiche di ogni singolo paziente. Sono pochi, secondo loro, i casi che non possano trarre beneficio dai mezzi psicoanalitici, essendo la metodica basata sulla strutturazione di una particolare relazione interpersonale con il paziente come individuo, con l’obiettivo di influenzare in senso terapeutico disturbi, sintomi e malattie, totalmente o parzialmente di origine psichica. Ecco perché parlano di un “incontro”, in cui sono incorporate tutte le tecniche e tutti i concetti della psicoanalisi.

In medicina  quanto più sono perfezionati i metodi e le tecniche terapeutiche, tanto più evidenti saranno le loro relazioni con la supposta origine di ogni singolo quadro clinico, e tanto migliore sarà la previsione della loro efficacia e la formulazione della possibile prognosi.

Quanto più sono note le circostanze condizionanti la comparsa di una malattia e con quanta maggiore esattezza sono stati chiariti i meccanismi d’azione di un rimedio, tanto maggiore sarà la possibilità di determinare il grado delle valutazioni prognostiche. <<Perciò in medicina la possibilità di standardizzare e generalizzare una tecnica, la sua applicabilità al caso tipico, tenendo conto delle varianti individuali, rappresenta l’ideale pratico e scientifico. Di conseguenza gli errori tecnici possono essere definiti come deviazione da una norma stabilita, e ciò è dimostrato in tutta la sua portata nell’accertamento di interventi errati.

E’ applicabile questo ideale all’intervento psicoanalitico? Possiamo aspettarci che il primo colloquio ci fornisca i dati diagnostici necessari per permetterci di stabilire criteri positivi di indicazione? Questo significa che l’indicazione terapeutica e la prognosi sono correlate, come si può intuire facilmente, alla domanda che ogni paziente fa al proprio medico e anche al proprio analista: “Quali probabilità di migliorare o guarire mi dà l’analisi? Le prospettive di un buon esito peggiorano se vengo solo due volte la settimana?">>(Thoma e Kachele, 1996).

 Tali domande mettono a disagio ogni analista e perciò gli stessi autori hanno ammesso con franchezza che anch’essi si erano sentiti più a loro agio lavorando in condizioni standardizzate, vale a dire quando la diagnosi implica una chiara psicogenesi, in modo che l’indicazione terapeutica e la prognosi possano essere motivate.

Poiché, frequentemente, gli strumenti psicoanalitici in senso stretto non possono essere impiegati, diventano essenziali l’atteggiamento dell’analista e la sua maniera di usare le comunicazioni del paziente sempre secondo il modello di riferimento. Per questi motivi relativamente tardi si è sviluppata una specifica tecnica di intervista psicoanalitica, ancorché l’influenza della psicoanalisi si fosse già notata negli Stati Uniti nell’intervista psichiatrica ed in Germania nella raccolta dell’anamnesi in medicina psicosomatica (Thoma e Kachele, 1996).

Storicamente Freud (1904) utilizzava i colloqui diagnostici preliminari per escludere le malattie somatiche e le psicosi; in ogni caso non esitava mai ad accettare in analisi pazienti anche gravi, considerando la possibilità di un trattamento ospedaliero temporaneo in casi di emergenza come un modo di estendere l’applicazione del metodo psicoanalitico. Soddisfatte le premesse elementari e stipulato l’accordo sull’onorario e sugli appuntamenti, al paziente veniva  spiegata la “regola fondamentale” e l’analisi iniziava.

Allora come oggi, alcuni fattori quali il grado di istruzione, l’età, la motivazione, erano altamente rilevanti, ma Freud rinviava alla prima fase del trattamento l’anamnesi dettagliata della vita del paziente.

Tutti i suoi pazienti erano “in analisi”. Dopo avere abbandonato l’ipnosi egli non faceva distinzione tra forme diverse di terapia psicoanalitica: esisteva soltanto il suo metodo psicoanalitico; trattava prevalentemente pazienti gravi, incapaci di andare avanti nella vita, vale a dire, quelli per i quali e con i quali si era sviluppata la terapia psicoanalitica.

Il problema della selezione si presentò quando la domanda cominciò a superare l’offerta.

  Foto: Otto Fenichel

Negli anni trenta del secolo scorso, presso l’ambulatorio dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino, Fenichel confermava che il rapporto tra domanda e offerta si attestava sulla percentuale di 2,5:1 e riscontrava nel contempo 241 interruzioni di analisi su 721. La spiegazione fornita era della dubbia idoneità al trattamento da parte dei pazienti che l’avevano interrotto. Questi comunque erano stati sottoposti a una “analisi di prova”, alla fine della quale il terapeuta avrebbe dovuto pronunciarsi o positivamente o negativamente.

Col tempo si è pensato di eliminare l’analisi di prova, poiché il rifiuto alla fine di questo periodo avrebbe potuto essere molto doloroso per il paziente, se il verdetto “non idoneo alla psicoanalisi” non fosse stato mitigato o integrato con suggerimenti di una valida alternativa. Comunque l’eliminazione dell’analisi di prova non ha risolto il problema, ma lo ha spostato alla prima intervista.

Già nel 1930 era stato possibile notare le influenze del pensiero psicodinamico sul primo colloquio psichiatrico. Gill, Newman e Redlich (1954) danno il loro contributo allo sviluppo della tecnica dell’intervista psicodinamica proponendosi di raggiungere tre obiettivi:

- il primo obiettivo era instaurare una relazione tra due sconosciuti dei quali uno era un professionista e l’altro un essere umano che soffriva psichicamente e che spesso era causa di sofferenza anche per gli altri. Indipendentemente da chi fosse il terapeuta ed il paziente, si doveva realizzare un serio tentativo di comprensione di quest’ultimo, attuando un caldo contatto umano e un certo apprezzamento reciproco.

- il secondo obiettivo era una valutazione della situazione reale del paziente;

- il terzo obiettivo era rafforzare il desiderio del paziente di intraprendere la terapia più indicata e pianificarla con lo stesso in passi ulteriori.

Negli anni cinquanta le strategie di intervista orientate psicodinamicamente erano state oggetto di varie elaborazioni. Deutsch sviluppava la tecnica dell’“anamnesi associativa”, che consisteva nel registrare non soltanto ciò che il paziente diceva, ma anche come aveva fornito l’informazione. Non era importante soltanto che il paziente comunicasse le sue sofferenze, ma anche in quale fase dell’intervista e in relazione a che cosa manifestasse le sue idee, le sue lagnanze e i ricordi connessi con i disturbi somatici e psichici (Deutsch e Murphy,1955).

  Foto: Otto Kernberg

Con “l’intervista strutturale” di Kernberg (1977, 1981, 1984) si può parlare di “seconda generazione” di intervista iniziale psicodinamicamente orientata. Egli tenta di mettere in rapporto la storia personale della malattia del paziente ed il suo funzionamento psichico generale con la relazione diretta tra il paziente e il terapeuta, cioè nel “qui e ora” dell’interazione. Egli raccomanda al terapeuta un procedimento circolare. Ritornando continuamente sul problema e sul sintomo del paziente, da una parte si precisa lo stato psicopatologico, e dall’altra si concentra l’attenzione sulla relazione medico-paziente in un ottica psicoanalitica. Lo scopo principale di questo procedimento è quello di accertare l’esistenza di una identità dell’ Io coesa, di contro ad una diffusione dell’identità o ad una dissociazione psicotica, così come della prevalenza di meccanismi di difesa più “arcaici“ o “maturi” e della presenza o assenza dell’esame di realtà.

All’intervistatore interessa valutare la motivazione del paziente, la capacità di introspezione, la disponibilità a stabilire un’alleanza di lavoro, come pure la tendenza di passaggio all’atto o il pericolo di uno scompenso psicotico. In certi casi, al paziente nevrotico vengono interpretate le correlazioni inconsce; il paziente borderline invece è messo di fronte alle scissioni nella rappresentazione di sé, che stanno alla base della diffusione di identità.

Il filo conduttore dell’intervista che Kernberg struttura attraverso determinate domande durante le fasi iniziali, intermedia e conclusiva del colloquio segue, nonostante il suo stile circolare, lo schema fenomenologico psichiatrico che considera attentamente, dapprima le psicosi organiche, poi le psicosi funzionali e infine i disturbi borderline e le nevrosi.

In America Latina, invece, la teoria e la pratica della prima intervista è frequentemente influenzata dai lavori di Bleger (1971), che preferisce parlare di intervista psicologica, come concetto più ampio che ingloba sia il colloquio psichiatrico che quello psicoanalitico. Le sue idee hanno permesso applicazioni in diversi campi della psicologia e della medicina come ad esempio nello sviluppo di tecniche di consulenza all’interno dell’ospedale (Ferrari, Luchina e Luchina, 1971).

L’introduzione del modello della Tavistock Clinic cambia il modo di concepire la prima intervista, poiché vi si include la psicoanalisi come metodo terapeutico e la diagnosi viene subordinata alla terapia. Questo cambiamento qualitativo è opera prevalentemente di Balint.

  Foto: Michael Balint

Egli sostiene che nella formulazione della diagnosi possono essere utilizzati solo gli apporti del paziente, intesi in senso ampio come “la somma totale delle sue reazioni nei confronti di un particolare medico, in un particolare momento, in un particolare ambiente” (Balint e Balint, 1961).

Il messaggio di fondo dei suoi scritti, diretti in generale ai medici, è che si deve fare il tentativo di usare come criterio decisionale “la capacità potenziale del paziente a sviluppare e a mantenere rapporti umani” e che ciò che conta è la relazione umana, affettivo-emotiva tra medico o psicoanalista e paziente. Pertanto l’accettazione dei concetti di Balint ha fatto sì che il primo colloquio, come situazione psicoanalitica, possa essere strutturato nelle maniere più diverse e applicato in molti e differenti campi professionali.

Un aspetto importante è anche l’attesa per un primo colloquio perché delinea due situazioni; dopo che il paziente ha fatto il passo di porre la domanda: da una parte egli viene a trovarsi in uno stato in cui sperimenta nella sua fantasia conscia o inconscia un’attivazione del complesso o dei complessi patogeni, mentre dall’altra la resistenza inconscia a tale attivazione viene inevitabilmente rafforzata dalla frustrazione dell’attesa medesima. Infine per quanto riguarda un aspetto particolare come la compilazione di questionari o l’esecuzione di tests precedentemente al primo colloquio, di solito in ambienti istituzionali, si è potuto verificare che tali procedure alimentano nel paziente aspettative eccessive e che ne alterano la spontaneità, fatto del quale il terapeuta deve tenere conto.

Riferendosi alle condizioni necessarie per lo svolgimento ottimale della prima intervista, Balint enuncia alcune raccomandazioni che si possono così riassumere:

1.     preparare il paziente in maniera adeguata al colloquio per evitare delusioni, dal momento che l’intervista è una situazione inconsueta per lui;

2.     il terapeuta dovrebbe creare e mantenere un’atmosfera favorevole nella quale il paziente sia in grado di aprirsi e di offrirgli la possibilità di essere compreso;  

3.     le dichiarazioni sul paziente devono sempre includere l’indicazione dei parametri situazionali creati dall’intervistatore, i quali hanno agito sul paziente come “stimoli”;

4.     è molto importante farsi qualche idea sullo sviluppo ulteriore della relazione, prima di cominciare a darle forma nel corso del colloquio, cercando di prevedere se questa si interromperà dopo l’ incontro, provvisoriamente o per sempre, sia che il paziente sia messo in lista d’attesa, sia che venga indirizzato ad altro collega (colloquio “di indirizzo” );

5.      per quanto riguarda la durata dell’intervista è indispensabile che gli psicoanalisti, soprattutto i principianti nelle tecniche di colloquio, si prefiggano un’esatta delimitazione dello sviluppo della stessa, per evitare di effettuare un numero indeterminato di sedute, corrispondente al grado della loro insicurezza personale;

6.     si suggerisce una “tecnica elastica di intervista”, in modo che il terapeuta sia in grado porsi  in modo differenziato nei confronti di  ogni singolo paziente.

Un’altra importante riflessione di Balint che noi troviamo in uno dei suoi scritti (1961) è la seguente: ”E’ consigliabile o desiderabile che un consulto venga limitato a un semplice esame diagnostico, o dovrebbe includere una qualche terapia, ad esempio qualche forma molto sfumata di psicoanalisi?”

Thoma e Kachele sono dell’opinione che <<il paziente debba sperimentare durante il primo colloquio che cosa può significare per lui un trattamento; ciò è già di per sé un’esperienza terapeutica. Ma vedere il primo colloquio come un modello della terapia è una pretesa che non può essere soddisfatta. L’intervista dovrebbe essere condotta in maniera che il paziente, in base all’esperienza del primo colloquio, possa giungere alla decisione di volersi sottoporre a un trattamento psicoterapico e di essere pronto a esporsi agli inevitabili problemi ad esso connessi>>.  Un tale atteggiamento libera il paziente dalla sua posizione di passività.  Rosenkotter (1973) sostiene che quando un paziente consulta uno psicoterapeuta a causa dei sintomi nevrotici o di altre difficoltà esistenziali di natura psichica, i primi contatti tra i due si svolgono, fondamentalmente, in modo non diverso da quanto avviene nelle consultazioni con altri medici. Il paziente racconta i suoi problemi e il terapeuta tenta di apprendere il più possibile sulla loro comparsa e storia precedente, così come la storia della sua vita in genere, per farsi un’idea sull’indicazione e la prognosi del trattamento. L’esperienza professionale e la capacità di comprensione empatica del terapeuta hanno qui un ruolo molto importante. Egli deve prevedere un tempo sufficiente per dare al paziente la possibilità di intervenire nel dialogo in modo spontaneo e autonomo; deve seguire prudentemente e integrare con eventuali domande il racconto del paziente e cercare inoltre di assumere un atteggiamento benevolo, neutrale e riservato, evitando di portarlo, con domande dirette, giudizi categorici e prescrizioni, a quell’atteggiamento di aspettativa passivamente magica a cui di solito soggiacciono i malati di fronte al medico.

Portando all’estremo le tesi di Balint, Argelander (1966) descrive l’intervista come <<una situazione analitica in cui usiamo il nostro strumentario psicoanalitico anche a scopo diagnostico>>.

Quest’ultimo nel 1967 prende in considerazione due campi di esperienza, che tenta di correlare tra loro: da una parte il rilevamento dei fatti obiettivi e dall’altra lo sviluppo di vissuti soggettivi durante l’intervista. La fusione di questi due campi di esperienza, dove quello obiettivo è subordinato al soggettivo, permette un accesso specificamente psicoanalitico alla situazione del colloquio. <<Sappiamo dall’esperienza psicoanalitica che i decorsi psichici interni vengono proiettati all’esterno nella relazione oggettuale, dove possono essere percepiti e vissuti soggettivamente. Per questo motivo, in questa situazione di prima intervista diamo la possibilità al paziente di avviare una relazione oggettuale lasciando che egli le dia la forma, il contenuto e la dinamica secondo la specifica singolarità della personalità. In questo modo è garantita in pieno la spontaneità.

La nostra apparenza, età, sesso, carattere, temperamento ecc. sono stimoli situazionali concreti che spingono la persona esaminata a trasferire sull’esaminatore i preesistenti sentimenti, le aspettative, i conflitti, le rappresentazioni e fantasie>> (Argelander, 1967).

Vorrei esporre ora come i vari Autori affrontano la questione dei Criteri di indicazione al trattamento”.

Per Freud erano essenzialmente criteri di esclusione: da escludere erano i malati che non possedevano un certo livello intellettivo e un carattere in una certa misura affidabile, oppure quelli che non sentivano spontaneamente la necessità di una terapia per le loro sofferenze, ma venivano a consultazione solo su pressione dei loro congiunti, cioè soggetti in cui mancava una autentica motivazione. Secondo le sue parole, se si vuol procedere sicuri, si deve limitare la propria scelta a persone che hanno uno stato da lui definito normale che noi oggi considereremmo nevrotico, poiché, da questa base, nel procedimento analitico, si arriva a dominare ciò che vi è in lui di patologico. Anche l’età rientrava nei criteri di esclusione.

Più importante dei criteri negativi ci sembra la formulazione freudiana di quelli positivi che risulta molto meno nota: <<La terapia psicoanalitica è stata creata per malati permanentemente incapaci di vivere>> (Freud, 1904).

In quanto esiste un certo “stato normale” nel senso prima descritto, che noi oggi definiremmo nevrotico, Freud non vede limitazioni nella gravità della malattia. Questo punto di vista si differenzia sostanzialmente da quanto risulta da numerose tavole rotonde sul problema dell’analizzabilità (Waldhorn, 1960), che si può riassumere nella seguente descrizione del paziente idoneo: “Sufficientemente malato per averne bisogno, ma sufficientemente sano per sopportarlo”.

Altri Autori collegavano l’analizzabilità con la diagnosi, come ad esempio Fenichel (1945) che accoglie l’idea di collegare la prognosi con la gravità della nevrosi.

Glover (1955) fa proprio il concetto di accessibilità e individua tre categorie diagnostiche: accessibile, moderatamente accessibile e incurabile.

Già dal 1954 con il simposio “The Widening Scope of Psychoanalisis” si sposta l’accento sui criteri di “idoneità” e in quello stesso anno Anna Freud sostiene che non c’è alcuna garanzia che due persone con analoghi sintomi reagiscano in modo uguale agli stessi interventi tecnici.

Per alcuni Autori i criteri di idoneità al trattamento analitico, sono gli stessi usati come elementi indicativi dell’evoluzione del processo terapeutico.

Secondo Tyson e Sandler (1971): <<Il paziente deve avere un certo livello di intelligenza, capacità di tollerare sentimenti dolorosi, ed essere capace di sublimare. Le sue reazioni oggettuali devono essere sviluppate relativamente bene e la sua capacità di confrontarsi con la realtà deve essere più o meno buona. La sua vita non deve ruotare intorno all’analisi, per evitare una dipendenza troppo forte da essa; il suo carattere e il suo grado di cultura devono avergli procurato una buona posizione sociale con i relativi riconoscimenti. Ci potrebbe capitare di trovarci nella paradossale situazione di scoprire che il paziente che corrisponde idealmente a queste premesse non ha affatto bisogno di un’analisi>>!

Cremerius (1979) sostiene che <<i limiti dell’analizzabilità non sono i limiti del paziente e della sua psicopatologia>>, come Freud aveva asserito nel 1937, <<bensì i limiti dell’analista>>.

Se “analizzabile” si riferisce a tutto ciò che uno psicoanalista può fare e riesce a tollerare, l’indicazione al trattamento può essere oggetto di discussione e ricerca soltanto nell’ambito di una strutturazione bipersonale del processo terapeutico.

Il processo che nella prima intervista porta all’indicazione si trasforma così da concetto statico di indicazione prognostica in concetto dinamico di indicazione adattativa (Baumann e Wedel, 1981) e in tal modo il paziente e l’analista sono entrambi coinvolti nella relazione. Un esempio felice di questa concezione è fornito da Shapiro (1984), che propone un approccio puramente psicoanalitico per decidere il metodo adatto di trattamento. Ad esempio, al posto dell’analisi di prova, egli introduce una fase esplorativa durante la quale fa familiarizzare il paziente con il metodo delle libere associazioni, allo scopo di verificare la forza dell’Io e la motivazione al trattamento nei casi dubbi.

Sono d’accordo con Shapiro quando presenta una possibile fase diagnostica  della terapia, che non deve essere intesa come analisi di prova in senso tradizionale finalizzata alla decisione di idoneità, ma lo scopo di essa invece è di stabilire quali cambiamenti siano raggiungibili e a quali condizioni terapeutiche. L’ampio spettro teorico a cui fanno riferimento le attuali forme di psicoterapia psicoanalitica consente svariate possibilità di scelta, che non devono restringersi all’ambito della psicoanalisi in senso stretto.

D’altra parte esiste il problema di conciliare il tipo di trattamento non strettamente classico. Secondo Luborski (1984) nel passaggio dalla prima intervista alla terapia è importante dare il maggior spazio possibile alla flessibilità e creare un’atmosfera di libertà che risvegli speranze ma allo stesso tempo, bisogna delimitare una cornice che garantisca buone condizioni di lavoro.  

Ora vorrei parlare di autori di area junghiana a partire da Jung stesso.

Nel 1958 Jung  in “Pratica della psicoterapia” fa il confronto fra il modo di procedere in medicina e in psicoterapia: <<In medicina si presume generalmente che la visita del paziente debba condurre per quanto è possibile alla diagnosi della sua malattia e che la formulazione della diagnosi costituisca un dato essenziale e decisivo in vista della prognosi e della terapia. La psicoterapia fa vistosamente eccezione a questa regola: la diagnosi è in essa un fatto irrilevante, in quanto col dare un nome più o meno indovinato a uno stato nevrotico non si arriva a niente, specie in fatto di prognosi e di terapia.

In lampante contrasto con altri rami della medicina, nei quali una determinata diagnosi è talvolta seguita da una terapia specifica e, per conseguenza, da una prognosi relativamente sicura, la diagnosi di una psiconevrosi significa al massimo che è indicata una terapia psichica. Per quanto riguarda la prognosi invece, essa è quanto mai indipendente dalla diagnosi, né può essere taciuto il fatto che la classificazione delle nevrosi è molto insoddisfacente, ragion per cui una diagnosi specifica ha raramente un significato effettivo. In genere, basta la diagnosi di “psiconevrosi” in contrapposizione a disturbo organico, senza andare più in là di così>>.

La diagnosi psicologica mira a diagnosticare i complessi e quindi a formulare, a esprimere, dati che il quadro clinico vela assai più di quanto riveli. La vera e propria causa morbosa va ricercata nel complesso, il quale è un’entità psichica relativamente autonoma: esso dimostra la sua autonomia col non lasciarsi inquadrare nella gerarchia della coscienza o con l’opporre una resistenza efficace alla volontà. Questo fatto, facile da provare sperimentalmente, spiega la concezione viva fin da tempi immemorabili secondo cui la psiconevrosi e la psicosi sono stati di “possessione”. L’osservatore ingenuo prova infatti l’impressione irresistibile che il complesso rappresenti qualcosa di simile a “un governo-ombra dell’Io”.

Jung enfatizza il fatto che la diagnosi di una nevrosi non si possa fare per mezzo di esami; ma si manifesta solo durante il trattamento. Quindi, paradossalmente, la vera diagnosi psicologica si può fare alla fine del trattamento, cosa che è improponibile in medicina generale, dove una diagnosi sicura è il presupposto per una buona terapia e una buona prognosi. Secondo Jung è necessario che lo psicoterapeuta sia certo della diagnosi differenziale tra disturbi psichici e disturbi organici. Addirittura arriva a concludere paradossalmente che quanto di meno lo psicoterapeuta sa anticipatamente, tanto maggiori sono le probabilità di successo della cura. Egli afferma che <<ogni psicoterapeuta non ha soltanto il suo metodo, ma è egli stesso quel metodo. In psicoterapia, il grande fattore di guarigione è la personalità del terapeuta ed essa non è posseduta a priori, non è uno schema dottrinario, ma rappresenta il massimo risultato da lui raggiunto. Le teorie sono inevitabili, come meri sussidi. Se sono elevate a dogmi, dimostrano che è stato represso un dubbio interiore>>.

Anche per Fordham (1981), come avevano già sostenuto Freud e Jung, prima di prendere in considerazione l’idoneità del paziente per la terapia analitica, è necessario accertarsi che la sindrome per cui ha chiesto un colloquio non sia dovuta a una malattia organica. E’ proprio in seguito all’ansia di trascurare una malattia organica che una volta la psicoanalisi veniva consigliata sulla base di una diagnosi negativa; se la causa dei disturbi del paziente non era fisica, allora si riteneva che fosse psicologica. Oggi tuttavia, per il terapeuta non è una giustificazione sufficiente. Ciò a cui si vuole arrivare è una valutazione positiva che offra buone probabilità al paziente di trarre dei benefici da una cura lunga e spesso difficile.

Nell’effettuare questa valutazione positiva il terapeuta prenderà in considerazione: l’intelligenza del paziente, la probabilità che egli sia capace di crescita e di cambiamento, il grado di regressione di cui ci sarà bisogno e la motivazione. Indicazioni più precise possono venire fornite dal carattere delle sindromi psichiatriche, dato che la probabilità di un esito positivo dei trattamenti è maggiore nel caso degli stati ansiosi e nell’isteria che negli altri casi. Per Fordham comunque ciò non vuol dire che i disturbi ossessivi, molti tipi di fobie, i disturbi caratteriali, le perversioni sessuali, i casi borderline e certi tipi di psicosi non possano trarre benefici dalla terapia. Ma perché la terapia possa essere d’aiuto dipende da diversi fattori, dato che in ognuna di queste categorie di pazienti alcuni risultano idonei e altri no.

A proposito dello stile del primo colloquio Fordham sostiene che il primo incontro può essere strutturato in modo da somigliare a una qualsiasi seduta analitica, anche se la procedura non deve essere troppo insolita e sconsiglia l’uso del lettino.

Il terapeuta può iniziare facendo alcune domande circa l’età, la professione, chiedere se il paziente è sposato oppure no. Questi dati di solito bastano a fornire all’analista certe informazioni e a dare al paziente il tempo di cominciare ad adattarsi all’atmosfera della seduta. Il passo successivo consiste nel far capire al paziente che ci si aspetta che parli a modo suo del proprio problema e di tutto ciò che gli può sembrare significativo. Ogni cosa il paziente dica ha la sua importanza e, col procedere del colloquio, il terapeuta ne darà dimostrazione e lo aiuterà a chiarire il significato delle sue comunicazioni. Talvolta può dare con cautela qualche interpretazione a quanto da lui stesso esposto, dato che non gli sarà possibile elaborarne le conseguenze oltre certi limiti. Perciò fin dal primo momento il paziente viene collocato al centro degli avvenimenti. Gli viene chiesto cosa pensa e cosa sente e scoprirà che le sue convinzioni vengono prese molto sul serio e suscitano delle risposte. Al termine del colloquio, a differenza di una normale seduta analitica, il terapeuta riassumerà quel che è stato detto e dirà quello che, a suo parere, bisogna fare. E’ indispensabile che il paziente riesca ad intravedere una logica nelle conclusioni e nelle indicazioni date dal terapeuta in quanto frutto di uno scambio dialettico e non come pronunciamenti ex cattedra.

Importante per Fordham è valutare per esempio se il paziente ha delle forti difese, se ha capacità di insight, se ha una capacità di impegnarsi nel dialogo.

Fordham consiglia inoltre un primo incontro della durata di un’ora e mezza che può consentire ad un paziente inibito di elaborare materiale sufficiente e ad un paziente logorroico di esaurire il suo fiume di parole.

Interessante è anche l’uso delle interpretazioni come strumento per valutare la motivazione e l’idoneità del paziente alla terapia analitica. Per molti pazienti, sembra che la motivazione dipenda dalla capacità dell’analista di intervenire appropriatamente e se necessario interpretare.

In riferimento alla eventuale richiesta del paziente sulla possibile durata del trattamento Fordham suggerisce di sottolineare che non dipende solo dall’analista, ma anche dai bisogni e dai desideri del paziente.

Infine un altro importante studio è quello di Dieckmann (2003), psicologo-analista di Berlino, che sostiene che il primo colloquio è un problema riguardante non solo la psicologia analitica, ma è connesso al processo analitico, indipendentemente dalla scuola a cui appartiene il terapeuta.

In medicina organicista vi è una netta distinzione tra la diagnostica e la terapia; nella maggior parte dei casi solo raramente i procedimenti diagnostici eseguiti sul paziente hanno su di esso anche effetti terapeutici. Nella medicina che si occupa della sfera psichica la situazione è diversa, dal momento che ogni indagine diagnostica corrisponde ad un intervento terapeutico che in modo più o meno profondo può modificare i vissuti psichici. Le modificazioni avverrebbero grazie alla conduzione analitica del colloquio, nella quale l’attenzione è rivolta ai processi inconsci e alle dinamiche di questi, mobilitando i complessi psichici patogeni e inducendo il paziente ad un confronto più profondo e riflessivo con se stesso.

Secondo Dieckmann chiedendo ai pazienti nel corso dell’analisi quali siano state le loro reazioni verso l’analista dopo il primo colloquio essi rispondono di aver avuto delle reazioni più o meno forti che in qualche modo hanno modificato il quadro patologico. La sua osservazione nei pazienti gravemente schizoidi potrebbe  avvalorare l’impressione che il primo colloquio non provochi in essi alcuna reazione, ma successivamente durante la terapia può emergere che sotto questa apparente indifferenza essi abbiano avuto intense reazioni emotive.

Dieckmann sostiene che con un primo colloquio fatto a regola d’arte da un esperto, di solito si possono provocare al massimo miglioramenti o peggioramenti di lieve entità e comunque si dovrebbe evitare il pericolo di attivare un reale processo distruttivo.

Egli considera la raccolta di un’anamnesi biografica un procedimento non analitico, che privilegia troppo la sfera conscia a scapito del materiale inconscio e ciò creerebbe una situazione inadatta per iniziare un’analisi. Un altro motivo per cui l’anamnesi sarebbe da evitare è che il paziente nevrotico che si rivolge, per la prima volta, ad un terapeuta si trova di solito in uno stato d’ansia e di tensione notevole e dover riportare durante il primo incontro quantità di fatti rilevanti ed esatti costituisce già di per sé uno sforzo eccessivo per lui. Bisogna inoltre sottolineare che attraverso i meccanismi di difesa e i processi di rimozione si verificano in ogni caso dimenticanze, errori e distorsioni dei ricordi tanto che se si facesse una seconda anamnesi alla fine di una terapia analitica riuscita, verrebbe fuori un quadro completamente diverso rispetto a quello iniziale.

Dieckmann sottolinea che secondo la sua esperienza in una situazione analitica aperta i pazienti comunicano molto di più di quanto non facciano durante un’indagine mirata del primo colloquio.

In Germania, ad esempio, le prime cinque sedute vengono rimborsate anche senza la procedura di certificazione, per cui queste prime sedute possono assumere un aspetto di una specie di mini analisi probatoria che il terapeuta utilizza per raccogliere i dati e i fatti necessari per rispondere a quanto viene richiesto per la certificazione.

Un procedimento del genere può andare benissimo in alcuni singoli casi, tuttavia un primo colloquio così protratto nel tempo crea spesso una situazione transferale/controtransferale tra medico e paziente. Se a questo punto il paziente viene valutato inadeguato per l’analisi, l’interruzione della relazione può costituire uno shock emozionale che può ad esempio aggravare un rischio di suicidio. Secondo Dieckmann si può verificare che analisti anche esperti arrivino a pensare di non poter abbandonare pazienti che in realtà non potrebbero essere presi in carico.

A questo punto Dieckmann ritiene che questo rischio possa essere evitato con un primo colloquio effettuato in un’unica seduta approfondita, o al massimo con una seconda seduta dopo avere vagliato accuratamente il materiale raccolto nel primo incontro.

 

                                                  

 

  

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

 

 

 

 

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Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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