Home page 

Biblioteca on-line

Chronology

 
"LA PSICHIATRIA COLONIALE ITALIANA NEGLI ANNI DELL'IMPERO (1936-1941)"

 di Luigi Benevelli

 

 

Recensioni bibliografiche

 

   Segnalazione del libro:

 

Luigi  Benevelli, La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero (1936-1941),  Lecce, Collana Biblioteca di Antropologia medica, Argoeditrice, 2010. € 15,00.




 

Novità - News

 

Rivista Frenis Zero

 

                                                                                                                                                      

    

   

Maitres à dispenser

 


 

 

 

 

 

 

Luigi Benevelli, medico psichiatra, pubblicista, vive a Mantova. Vice presidente dell’Istituto di storia contemporanea di Mantova. Deputato nella IX e X legislatura, si è occupato in particolare dell’attuazione della riforma del ’78, dei problemi delle tossicodipendenze e di bioetica connessi alla promozione della salute mentale. Ha lavorato nei servizi pubblici di assistenza psichiatrica della sua provincia, operando per il superamento del manicomio e la costruzione dei servizi di salute mentale a dimensione comunitaria. È attivamente impegnato nel Forum salute mentale.

Fra le sue più recenti pubblicazioni: Fra collaborazionismo e antifascismo: la vita quotidiana nell’ospedale psichiatrico provinciale di Mantova al tempo della seconda guerra mondiale, Mantova, 2004; Medici che uccisero i loro pazienti, Mantova, 2005; Donne in manicomio, Mantova, 2008.

 

 

                

 

Il libro di Luigi Benevelli è una vera novità perché costituisce il primo studio organico su assetti,  protagonisti,  problemi dell’assistenza psichiatrica nelle colonie d’Africa, un aspetto sinora  inesplorato del colonialismo italiano. In Europa la letteratura sulle psichiatrie coloniali britannica, francese, olandese, tedesca, già ben più ricca, ha avuto di recente un nuovo sviluppo nel quadro del filone di indagine degli studi post-coloniali, contribuendo ad aprire nuove significative direzioni agli studi di storia della psichiatria e della medicina, di storia delle relazioni fra gli europei e le popolazioni  di Asia, Africa, Sud America, Oceania  intorno alle quali fu  costruito un sapere, la «mente indigena», che prescindeva dalle storie delle civiltà locali e dal riconoscimento dei contesti di repressione  e delle discriminazioni politiche, culturali e razziali.

 

Benevelli, per reperire fonti, documentazioni, testimonianze, ha consultato gli atti dei congressi dedicati ai problemi delle colonie, le annate fra le due guerre delle riviste italiane di psichiatria,  medicina tropicale, igiene, medicina legale, medicina militare, amministrazione coloniale, nonché quelle dedicate alla questione razziale. Di qui il corredo di un rilevante apparato di note, bibliografico e di un inedito indice dei nomi.

Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, negli imperi coloniali europei la psichiatria coloniale intesa come lo studio e l’assistenza dei disturbi mentali degli «indigeni», dei «nativi»,  ebbe  rilevanza del tutto marginale in organizzazioni sanitarie impegnate principalmente nei programmi di contrasto e controllo delle malattie tropicali (patologie da sole, da calore, da agenti infettivi e  animali non conosciuti alle latitudini europee ecc.). Tali programmi dovevano garantire ai coloni europei la possibilità di abitare e sfruttare quelle terre nel massimo di sicurezza sanitaria possibile. Nel colonialismo le popolazioni soggette alla colonizzazione erano assunte come viventi entro mondi chiusi, non traducibili, cristallizzati, fermi, senza storia e gli psichiatri, e comunque i medici non fecero grandi sforzi per approfondire la conoscenza delle culture dei loro pazienti, non coltivarono atteggiamenti di empatia nei loro confronti e le poche, sovraffollate strutture psichiatriche facevano parte più del circuito penale che di quello sanitario.

Per quanto riguarda il Regno d’Italia, anche prima della proclamazione dell’Impero, disprezzo per gli africani e timore per la corruzione del sangue italiano si ritrovano diffusamente nelle dichiarazioni- e  negli studi di  numerosi personaggi dell’amministrazione coloniale, di antropologi, medici legali e della parte più razzista dell’establishment accademico, ma fu l’Impero (1936-1941) a costituire una cesura nella vita delle istituzioni dello Stato italiano perché introdusse nella legislazione norme discriminatorie, prima  verso gli africani, poi contro gli ebrei, cercò di imporre il tema della missione civilizzatrice dell’Italia con una pressante propaganda di regime: le leggi prescrissero la separazione dei bianchi dagli indigeni, sanzionarono gli affetti e le unioni dei maschi «nazionali»  con donne «suddite» e le figlie e i figli nati da tali unioni. Le  vicende della psichiatria coloniale italiana sono da inscrivere in tale contesto di  politiche statuali, culture professionali, atteggiamenti etnocentrici e razzisti. Benevelli sottolinea che, almeno fino ad Aktion T4 , le teorie e le pratiche della eugenetica nazista e di molta eugenetica nordamericana erano ben note e discusse anche in Italia e fitti erano gli scambi di informazioni  e gli incontri internazionali dedicati a tali questioni cui parteciparono psichiatri, antropologi, demografi italiani.

 

I governi del Regno e la psichiatria “metropolitana” non si occuparono mai specificamente del problema psichiatrico, nemmeno negli anni dell’Impero mussoliniano.  Nell’organizzazione dei servizi sanitari delle colonie italiane, l’assistenza psichiatrica rimase sempre  marginale, con compiti prevalenti di ordine medico-legale (accertamento dell’idoneità, riconoscimento di cause di servizio, accertamento dell’imputabilità): il suddito africano sospetto folle, che di norma lavorava per l’amministrazione coloniale, specie come soldato mercenario, era inviato con un certificato medico e un’ordinanza di polizia alla Sezione d’Osservazione dell’Ospedale Coloniale da cui, se «manicomiabile» in quanto riconosciuto malato, e quindi da internare, era inviato negli ospedali psichiatrici metropolitani: se libico, agli ospedali psichiatrici provinciali di Palermo e Siracusa o al manicomio giudiziario di Barcellona P/G se autore di reato; se proveniente dall’Africa Orientale, nei manicomi campani. I “nazionali” folli invece, dopo l’osservazione, erano rimpatriati d’autorità perché nelle colonie non c’erano né ospedali né servizi specialistici psichiatrici. Per tali ragioni, afferma Benevelli, se si può parlare di una psichiatria coloniale francese, britannica, olandese, non si può parlare di una psichiatria coloniale italiana, con la sola eccezione della Libia del governatorato di  Italo Balbo (1934-1940).

Il colonialismo francese fu diverso da quello britannico e da quello italiano, ma  anche nell’esperienza dell’amministrazione “imperiale” coloniale italiana non tutte le colonie furono uguali: a parte l’Eritrea, la colonia più antica, l’Etiopia era di conquista recentissima e ancora forte era l’opposizione anche armata delle  popolazioni. In Libia, dopo la sanguinosa, durissima repressione di Badoglio e Graziani della guerriglia senussita, Balbo, fu determinato nel progettare e realizzare infrastrutture e servizi da  mettere a disposizione delle popolazioni libiche e delle forti comunità ebraiche delle città della costa, ma anche delle famiglie dei coloni italiani che si trasferivano nella “quarta sponda”.    Governatore Balbo, le province di Tripoli, Misurata, Bengasi e Derna diventarono parte integrante del Regno d’Italia, e vi si sarebbe dovuto vivere come se si fosse stati sul territorio metropolitano. La politica di innovazione e modernizzazione della Libia di Balbo non poteva non prevedere quindi  la costruzione di un manicomio per gli indigeni e lo sviluppo attorno ad esso una assistenza psichiatrica modernamente intesa.

Benevelli propone nel suo libro i testi di Angelo Bravi (1911- 1943), giovane psichiatra di scuola pavese che aveva dato eccellente prova di sé durante il servizio militare come ufficiale medico del reparto neuropsichiatrico dell’Ospedale Coloniale di Tripoli. Nel corso del 1937 egli riordinò, e pubblicò il materiale raccolto a Tripoli ne i Frammenti di psichiatria coloniale, il più importante e quasi sicuramente l’unico testo italiano sull’argomento. E agli inizi del 1938  assunse l’incarico di responsabile del reparto osservazione psichiatrica dell’Ospedale Principale; in breve tempo attivava il Dispensario di Igiene e Profilassi Mentale e il 1° luglio 1939 apriva in località Gargaresh il “manicomio per libici con annessa sezione criminale”.

Bravi, pur in condizioni di grande ristrettezza di risorse, sentì la missione di costruire ex novo una possibile  assistenza psichiatrica in Libia, partendo dai dati dell’osservazione clinica che aveva condotto sul campo e dagli assai modesti studi italiani disponibili dei costumi e della mentalità delle popolazioni della costa. Per avere lumi e aggiornamenti, Bravi si era  rivolto ad Antoine Porot di Algeri, la massima autorità dell’epoca in tema di psichiatria coloniale, impegnato nell’innovazione dell’assistenza psichiatrica, anche rispetto ai colleghi  che operavano sul territorio metropolitano francese.

 

Bravi presenta l’ospedale psichiatrico di Gargaresh, e ancor più il dispensario neuropsichiatrico come conquiste di altissima civiltà che avrebbero consentito di far cessare le “deportazioni” dei pazienti libici nei manicomi metropolitani e di ricoverarli e assisterli, come e forse meglio di quanto accadeva nelle altre province del Regno. Per Bravi esistono pazienti psichiatrici arabi di religione mussulmana e pazienti israelitici: in quanto riconosciuti pazienti poneva l’obiettivo di riuscire a interloquire con loro, di comprenderne pensieri ed emozioni  e per questo era attento a cogliere la quantità di barriere linguistiche, organizzative e non – a partire dalla scarsa attendibilità degli interpreti- che impedivano una comunicazione utile e fluida.  Al riguardo Benevelli  sottolinea come Bravi  attribuisse gli ostacoli e le difficoltà che incontrava nel suo lavoro, non al “primitivismo” dei pazienti, ma  alle  gravi carenze di conoscenze sue personali e della organizzazione per cui lavorava. Invece, in sintonia con le acquisizioni e il sentire della psichiatria italiana ed europea sue contemporanee condivideva un pesante, inappellabile pregiudizio nei confronti delle popolazioni di colore.

Per quanto riguarda l’Africa orientale italiana, un servizio specialistico era stato aperto ad Addis Abeba nel 1940 ed affidato ad Alfredo Lombardi,   neuropsichiatra, che faceva  soprattutto perizie, al servizio degli apparati dell’amministrazione coloniale, studiando gli indigeni dal punto di vista criminologico, non come pazienti.

Per tali  ragioni e circostanze si può capire il quasi assoluto isolamento di Bravi nel panorama degli psichiatri italiani del suo tempo.

 

In generale i contributi e gli interventi italiani in tema di psichiatria coloniale reperiti risultano assai scarsi quantitativamente, assai modesti qualitativamente e per lo più rimasticature degli studi  sul latah in Libia e della discussione sulle cause della supposta minore presenza della neurolues negli arabi nordafricani. Anche dopo la proclamazione dell’Impero e l’istituzione nel 1937 del Corpo sanitario dell’Africa Italiana  fra i 500 medici previsti per gli organici della sanità coloniale non era stato richiesto alcun psichiatra. Anche la   psichiatria italiana «metropolitana» ignorò di fatto la questione; se ne parlò ufficialmente per la prima volta solo nel 1937, a un anno dalla proclamazione dell’Impero da parte di Emilio Padovani al congresso di  Napoli della Società italiana di psichiatria.

Per meglio comprendere le ragioni di queste carenze, Benevelli segnala che i grandi imperi coloniali britannico e francese presero corpo e durarono poco più di una sessantina d’anni fra la fine dell’ottocento e la prima metà del novecento; l’impero fascista, il punto più alto del colonialismo e del razzismo italiani, durò solo un quinquennio, e anche meno, se si considera che l’entrata in guerra nel giugno 1940  dirottò nel conflitto bellico tutte le risorse prima pensate per le realizzazioni dei governatorati  coloniali. Questo significa che, nonostante gli sforzi e la propaganda sulle realizzazioni molto rimase da fare per garantire nelle colonie oltre che sicurezza, servizi e infrastrutture civili. E fra questi, certamente, anche  l’organizzazione sanitaria.

Essendo il primo lavoro di ricostruzione della storia della psichiatria coloniale italiana, Benevelli afferma sia più corretto e prudente, allo stato dell’arte, parlare più che di conclusioni, di alcune prime acquisizioni. La storia della psichiatria coloniale italiana attende ulteriori nuovi contributi che potranno derivare dalla  consultazione e dallo studio delle cartelle cliniche dei pazienti trasferiti dalle colonie agli ospedali psichiatrici civili e giudiziari del Regno e dalle ricerche presso gli archivi dell’amministrazione civile e sanitaria ospedaliera italiane in Eritrea, Somalia ed Etiopia, per quanto e se  essi siano accessibili e consultabili.

Solo nel secondo dopoguerra, al termine della prima fase della decolonizzazione cominceranno a cambiare gli approcci degli psichiatri europei, ed italiani, al problema di quale assistenza, quali nosografie, quali trattamenti siano utili ed efficaci. In questi più recenti anni, e tumultuosamente, a seguito della migrazione di milioni di persone provenienti da Africa, Asia, Sud America, tali questioni sono andate trasferendosi in Europa: nella sola Italia si parlano oggi centinaia di lingue, convivono centinaia di culture, religioni, storie e tradizioni, concezioni del mondo, di sé, dei legami famigliari. L’intera nostra organizzazione sociale appare oggi in grande difficoltà a reggere l’impatto di queste presenze fino a sentirsi minacciata nella propria identità. 

Nel nostro secondo dopoguerra moltissimi aspetti del colonialismo italiano sono stati sepolti, rimossi dalla memoria pubblica, in parte scientemente e in parte inconsciamente. Per questo oggi non  possiamo disporre di un conoscenza approfondita, discussa su cosa abbia rappresentato il colonialismo italiano  per i popoli assoggettati, su come i corpi dello Stato, i coloni, i missionari si mossero nell’Africa italiana. Benevelli conclude che è utile riconoscere che nella nostra esperienza non fummo evidentemente adeguatamente e  sufficientemente attrezzati ai rapporti di prossimità con persone di culture diverse e che l’oblio che ha ricoperto le vicende ed i personaggi della psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero mostra che il nostro è un deficit assai antico di superficialità  e ignoranza, spesso nascosto da una miserabile arroganza e dallo stereotipo degli «italiani brava gente».