Presentation   News Events   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS  zero 

 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

  Home Frenis Zero

        

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

Maitres à dispenser

 

  "UN POSTO PERDUTO"

 

 

  Resoconto della relazione tenuta da Catherine Chabert al convegno "Le figure del vuoto e i sintomi della contemporaneità: anoressie, bulimie, depressioni e dintorni"(Napoli, 5-6 novembre 2010)   

 

 

 

Questo testo è il resoconto scritto da Giuseppe Leo della relazione tenuta il 6 novembre 2010 al convegno organizzato dal Centro Napoletano di Psicoanalisi "Le figure del vuoto e i sintomi della contemporaneità: anoressie, bulimie, depressioni e dintorni".

Catherine Chabert è vicepresidente dell'Associazione Psicoanalitica di Francia (APF) ed insegna all'Università di Parigi V.

 


 

 Catherine Chabert esordisce invitando a ripensare la questione del vuoto le cui figure sono diventate motivo di grande preoccupazione per gli psicoanalisti. In particolare, la psicoanalista francese vuole esaminare quelle figure che, sostenute da uno stato di disperazione intensa e dilagante, non trovano le parole per raccontarsi, come una forma di glaciazione che produce nell'analista una "siderazione" quasi traumatica che minaccia di rompere le sue capacità associative. Ed è attraverso il caso di Violette che catherine Chabert vuole parlare di come i legami tra le parole e le cose si possano mobilizzare nel transfert analitico. <<Il mio proposito>> dichiara la Chabert <<sarà soprattutto centrato su questa considerazione particolare del vuoto creata da un troppo pieno, da un eccesso di rappresentazioni e affetti, di ricordi e di sogni imbavagliati dagli effetti di una rimozione tanto massiccia da rasentare la scissione e il diniego>>.

Violette era arrivata a consultare la Chabert dopo che <<aveva perduto le parole>>. Dapprima le proprie parole scritte, e quindi finiva di occuparsi solo delle parole degli altri, le metteva in ordine, le separava, le ri-legava: di esse poteva fare ciò che voleva, ne era affamata, da quando le sue, proprie, l'avevano abbandonata. Poi, aveva perduto anche le parole per dire, che erano state travolte dal torrente di lacrime dovute alla separazione dal più giovane dei due suoi amanti, da cui era stata lasciata. Era stata la prima volta che lei era stata abbandonata, fino ad allora era stata sempre lei ad andarsene, a congedarsi. Aveva fino ad allora creduto che degli altri poteva fare quello che voleva. Catherine Chabert ricorda che quando Violette era arrivata da lei aveva perso le parole, le lacrime, tutto: si era inaridita. Le restava solo un'angoscia insostenibile. Violette pensava che l'ultima spiaggia per lei, l'ultimo rimedio possibile sarebbe stato una cura delle parole, una cura di parola. Lei non voleva cercare i suoi ricordi, ne aveva troppi, erano implacabilmente presenti come se l'avessero marchiata a fuoco. Erano ricordi di minaccia, di pericolo. Ciò che lei non comprendeva era come mai la minaccia ed il pericolo fossero scomparsi da molto tempo: solo l'angoscia era tornata. Sembrava che Violette volesse che l'analista fosse dall'inizio il testimone della sua angoscia: le mostrava le sue ferite, le sue rivendicazioni, ed al fondo evocava un'ingiustizia di base: perché proprio lei? Il mondo le appariva crudele, e lei se ne sentiva la vittima senza appello. Le sue illusioni d'amore le avevano offerto degli specchi effimeri, i riflessi le diventavano derisori poiché essi le rinviavano solo immagini moltiplicate della sua impotenza. Violette parlava con fatica, attorcigliata su se stessa, <<raggomitolata intorno a quelle parole>> dice la Chabert <<che sembra strappare alle loro radici profonde>>. Intanto, queste parole dure, taglienti, iniziano a tagliare la nebbia dei suoi silenzi, ed esse imprimono nell'analista delle immagini immobili. E Violette aveva racchiuso tutti gli oggetti appartenuti al suo amante in un sacco della spazzatura, era scesa in cantina, aveva depositato lì il suo sacco ed era rimasta vicina ad esso un lungo momento. La Chabert rileva l'eccesso di precisione fotografica in questa evocazione, che conferisce alla scena la fissità di un quadro: questo sovrainvestimento del visivo serve a mascherare le rappresentazioni. E le parole sembrano assolvere il compito di mascherare il non figurabile, di <<sbarrare la via d'accesso a colui che ascolta>> dice la Chabert <<perché egli non possa più vedere>>.

Quando Violette aveva 12 o 13 anni suo padre cominciò a picchiarla di solito al viso per punirla della sua turbolenza. Senza dire alcuna parola, la schiaffeggiava in presenza di tutta la famiglia finché lei non sanguinava. L'analista, quando Violette rievoca questa scena, la associa ad un dipinto di El Greco, "La sepoltura del Conte di Orgaz" quasi a significare il seppellimento dell'amante perduto, ma la scena contiene anche il rischio di gelo e di mortificazione.

Quando Violette aveva detto "fino a che non sanguino", l'analista aveva pensato "da che ho sanguinato". Da che il sangue è comparso, Violette è stata messa o si è messa al posto della madre a prendere le persosse del padre. La Chabert richiama lo scritto di Freud "Un bambino viene picchiato"(1919), e rileva come nel caso di Violette l'ordine e la qualità delle tre fasi è differente. La prima fase, "il padre picchia il bambino", è assente perché Violette compare sin dall'inizio della scena, al contrario dei pazienti di Freud che non sono picchiati. La seconda fase, <<fra tutte la più importante e densa di conseguenze>> scrive Freud (1919) <<non ha mai avuto un'esistenza reale>>. La seconda fase, quella incestuosa, compare in Violette come prima scena, come scena del ricordo. <<E' qui dunque la differenza tra ricordo e fantasma?>> si chiede la Chabert. L'"io sono picchiata da mio padre" non è una costruzione di analisi, nemmeno è un ricordo, è una prima scena che apparentemente non ha subito la rimozione. La terza fase è assente in Violette: la scena fissata nell'orrore della ripetizione <<si costituisce come un'enclave>> dice la Chabert <<un ricordo di copertura forse, saturato di sensazioni di dispiacere che finiscono per trasformarsi in dolore, a forza di non potersi né pensare né sognare>>.

Ad un certo punto, con la scoperta possibile della causa dell'angoscia, grazie alla connessione di questa con la scena, l'angoscia diventa paura, in quanto trova il suo oggetto: la paura è allora paura del padre, padre silenzioso, privo di parole, che interdiceva la parola e che castigava l'insolenza con gli schiaffi sul viso.

Violetta ha preso il posto della madre nella scena. Ricorda dei gemiti della madre nella camera da letto accanto alla sua e ricorda il proprio stupore quando arrivò un altro bambino. Violette si era dunque sacrificata per risparmiare la madre che era restata spettatrice silenziosa e immobile delle violenze da parte del padre. Quando aveva 13 anni, Violette ricorda, nella casa deserta il padre era apparso nella sua camera e le disse: "Guarda bene, ora tu sai cos'è un uomo". La Chabert si chiede se si è trattato di una seduzione reale, quella che interessava Freud prima del 1897. Nella mente dell'analista, intanto, si formava una rappresentazione della camera di Violette che assomigliava a quella dell'infanzia dell'analista stessa: la paziente e l'analista condividevano ora uno spazio nel pensiero. <<La camera di Violette, come io me la rappresentavo, non era più il luogo dell'apparizione di una scena traumatica che mi siderava>> dice la Chabert <<essa si offriva come apertura ai miei ricordi d'infanzia. La stretta dei fatti si allentò. La nostalgia, la dolcezza del ricordo si intromisero surrettiziamente>>.

Violetta sognò una donna su un balcone d'estate. La donna si sporgeva e la sua macchina fotografica cadeva dall'alto della casa. Nel sogno la paziente sente il rumore della fotocamera che sbatte contro l'asfalto della strada. L'analista si sentì liberata dal fermo immagine, dai quadri immobili. <<Anche l'analista>> dice la Chabert <<sogna i sogni dei suoi pazienti attraverso il percorso della propria capacità associativa: la macchina fotografica rotta costituiva per me la realizzazione di un desiderio, quello che, abbandonando la fissità e l'immobilità delle immagini, si impegnava nel movimento e quindi nella vita>>.

Violette aveva trovato un nuovo amante di cui diceva che assomigliava a suo padre. "Tanto pazzo quanto lui" disse. Ora aveva una vita, per quanto insoddisfacente, ma era una vita e, contemporaneamente, iniziò a sognare ed a parlare con abbondanza.

 

        

 

 

 

 

 

 (fine della prima parte - continua - to be continued)
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Edizioni "FRENIS ZERO" All rights reserved 2004-2005-2006-2007-2008-2009-2010