Catherine Chabert
esordisce invitando a ripensare la questione del vuoto le cui
figure sono diventate motivo di grande preoccupazione per gli
psicoanalisti. In particolare, la psicoanalista francese vuole
esaminare quelle figure che, sostenute da uno stato di
disperazione intensa e dilagante, non trovano le parole per
raccontarsi, come una forma di glaciazione che produce
nell'analista una "siderazione" quasi traumatica che minaccia di
rompere le sue capacità associative. Ed è attraverso il caso di
Violette che catherine Chabert vuole parlare di come i legami tra
le parole e le cose si possano mobilizzare nel transfert
analitico. <<Il mio proposito>> dichiara la Chabert <<sarà
soprattutto centrato su questa considerazione particolare del
vuoto creata da un troppo pieno, da un eccesso di rappresentazioni
e affetti, di ricordi e di sogni imbavagliati dagli effetti di una
rimozione tanto massiccia da rasentare la scissione e il
diniego>>.
Violette era arrivata a
consultare la Chabert dopo che <<aveva perduto le parole>>.
Dapprima le proprie parole scritte, e quindi finiva di occuparsi
solo delle parole degli altri, le metteva in ordine, le separava,
le ri-legava: di esse poteva fare ciò che voleva, ne era affamata,
da quando le sue, proprie, l'avevano abbandonata. Poi, aveva
perduto anche le parole per dire, che erano state travolte dal
torrente di lacrime dovute alla separazione dal più giovane dei
due suoi amanti, da cui era stata lasciata. Era stata la prima
volta che lei era stata abbandonata, fino ad allora era stata
sempre lei ad andarsene, a congedarsi. Aveva fino ad allora
creduto che degli altri poteva fare quello che voleva. Catherine
Chabert ricorda che quando Violette era arrivata da lei aveva
perso le parole, le lacrime, tutto: si era inaridita. Le restava
solo un'angoscia insostenibile. Violette pensava che l'ultima
spiaggia per lei, l'ultimo rimedio possibile sarebbe stato una
cura delle parole, una cura di parola. Lei non voleva
cercare i suoi ricordi, ne aveva troppi, erano implacabilmente
presenti come se l'avessero marchiata a fuoco. Erano ricordi di
minaccia, di pericolo. Ciò che lei non comprendeva era come mai la
minaccia ed il pericolo fossero scomparsi da molto tempo: solo
l'angoscia era tornata. Sembrava che Violette volesse che
l'analista fosse dall'inizio il testimone della sua angoscia: le
mostrava le sue ferite, le sue rivendicazioni, ed al fondo evocava
un'ingiustizia di base: perché proprio lei? Il mondo le appariva
crudele, e lei se ne sentiva la vittima senza appello. Le sue
illusioni d'amore le avevano offerto degli specchi effimeri, i
riflessi le diventavano derisori poiché essi le rinviavano solo
immagini moltiplicate della sua impotenza. Violette parlava con
fatica, attorcigliata su se stessa, <<raggomitolata intorno a
quelle parole>> dice la Chabert <<che sembra strappare alle loro
radici profonde>>. Intanto, queste parole dure, taglienti,
iniziano a tagliare la nebbia dei suoi silenzi, ed esse imprimono
nell'analista delle immagini immobili. E Violette aveva racchiuso
tutti gli oggetti appartenuti al suo amante in un sacco della
spazzatura, era scesa in cantina, aveva depositato lì il suo sacco
ed era rimasta vicina ad esso un lungo momento. La Chabert rileva
l'eccesso di precisione fotografica in questa evocazione, che
conferisce alla scena la fissità di un quadro: questo
sovrainvestimento del visivo serve a mascherare le
rappresentazioni. E le parole sembrano assolvere il compito di
mascherare il non figurabile, di <<sbarrare la via d'accesso a
colui che ascolta>> dice la Chabert <<perché egli non possa più
vedere>>.
Quando Violette aveva 12 o 13
anni suo padre cominciò a picchiarla di solito al viso per punirla
della sua turbolenza. Senza dire alcuna parola, la schiaffeggiava
in presenza di tutta la famiglia finché lei non sanguinava.
L'analista, quando Violette rievoca questa scena, la associa ad un
dipinto di El Greco, "La sepoltura del Conte di Orgaz" quasi a
significare il seppellimento dell'amante perduto, ma la scena
contiene anche il rischio di gelo e di mortificazione.
Quando Violette aveva detto
"fino a che non sanguino", l'analista aveva pensato "da che ho
sanguinato". Da che il sangue è comparso, Violette è stata messa o
si è messa al posto della madre a prendere le persosse del padre.
La Chabert richiama lo scritto di Freud "Un bambino viene
picchiato"(1919), e rileva come nel caso di Violette l'ordine e la
qualità delle tre fasi è differente. La prima fase, "il padre
picchia il bambino", è assente perché Violette compare sin
dall'inizio della scena, al contrario dei pazienti di Freud che
non sono picchiati. La seconda fase, <<fra tutte la più importante
e densa di conseguenze>> scrive Freud (1919) <<non ha mai avuto
un'esistenza reale>>. La seconda fase, quella incestuosa, compare
in Violette come prima scena, come scena del ricordo. <<E' qui
dunque la differenza tra ricordo e fantasma?>> si chiede la
Chabert. L'"io sono picchiata da mio padre" non è una costruzione
di analisi, nemmeno è un ricordo, è una prima scena che
apparentemente non ha subito la rimozione. La terza fase è assente
in Violette: la scena fissata nell'orrore della ripetizione <<si
costituisce come un'enclave>> dice la Chabert <<un ricordo
di copertura forse, saturato di sensazioni di dispiacere che
finiscono per trasformarsi in dolore, a forza di non potersi né
pensare né sognare>>.
Ad un certo punto, con la
scoperta possibile della causa dell'angoscia, grazie alla
connessione di questa con la scena, l'angoscia diventa paura, in
quanto trova il suo oggetto: la paura è allora paura del padre,
padre silenzioso, privo di parole, che interdiceva la parola e che
castigava l'insolenza con gli schiaffi sul viso.
Violetta ha preso il posto della
madre nella scena. Ricorda dei gemiti della madre nella camera da
letto accanto alla sua e ricorda il proprio stupore quando arrivò
un altro bambino. Violette si era dunque sacrificata per
risparmiare la madre che era restata spettatrice silenziosa e
immobile delle violenze da parte del padre. Quando aveva 13 anni,
Violette ricorda, nella casa deserta il padre era apparso nella
sua camera e le disse: "Guarda bene, ora tu sai cos'è un uomo". La
Chabert si chiede se si è trattato di una seduzione reale, quella
che interessava Freud prima del 1897. Nella mente dell'analista,
intanto, si formava una rappresentazione della camera di Violette
che assomigliava a quella dell'infanzia dell'analista stessa: la
paziente e l'analista condividevano ora uno spazio nel pensiero.
<<La camera di Violette, come io me la rappresentavo, non era più
il luogo dell'apparizione di una scena traumatica che mi siderava>>
dice la Chabert <<essa si offriva come apertura ai miei ricordi
d'infanzia. La stretta dei fatti si allentò. La nostalgia, la
dolcezza del ricordo si intromisero surrettiziamente>>.
Violetta sognò una donna su un
balcone d'estate. La donna si sporgeva e la sua macchina
fotografica cadeva dall'alto della casa. Nel sogno la paziente
sente il rumore della fotocamera che sbatte contro l'asfalto della
strada. L'analista si sentì liberata dal fermo immagine, dai
quadri immobili. <<Anche l'analista>> dice la Chabert <<sogna i
sogni dei suoi pazienti attraverso il percorso della propria
capacità associativa: la macchina fotografica rotta costituiva per
me la realizzazione di un desiderio, quello che, abbandonando la
fissità e l'immobilità delle immagini, si impegnava nel movimento
e quindi nella vita>>.
Violette aveva trovato un nuovo
amante di cui diceva che assomigliava a suo padre. "Tanto pazzo
quanto lui" disse. Ora aveva una vita, per quanto insoddisfacente,
ma era una vita e, contemporaneamente, iniziò a sognare ed a
parlare con abbondanza.
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