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RECENSIONI BIBLIOGRAFICHE

 

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8.03.2006 

 

RECENSIONE di Riccardo Dalle Luche relative ai libri:

 

 

 

 

 

 

            

 

Gilberto Di Petta, Esistenza e delirio. Il faccia-a-faccia. Pref. B.Callieri Epicrisi di A. Masullo. Edizioni Universitarie Romane  (2005), pp. 189 Eu. 15

 

Il mondo vissuto. Clinica dell'esistenza. Fenomenologia della cura. Pref. M.Armezzani. Intr. B. Callieri. Edizioni Unversitarie Romane (2003) p.221, Eu.18

 

 

    

Recensioni dalla stampa 2003

 

 

Contrariamente al suo Maestro, Bruno Callieri, che fondamentalmente è un grande comunicatore orale e dialogico, Gilberto Di Petta è un grande scrittore: uno scrittore magmatico, fluviale, incontenibile, innamorato della lingua (delle lingue) e delle parole, delle sintassi innovative, dei saperi, delle koinè concettuali. Questi suoi libri (il suo quinto e sesto, credo) ne offrono una sterminata testimonianza.

Il discorso di Di Petta è un flusso ininterrotto, uno stream of consciousness psicopatologico in cui, come un nastro di Moebius moltiplicato, le dimensioni interiori e esteriori, diaristiche e osservazionali, naturalistiche e concettuali, psicopatologiche e filosofiche, trapassano ininterrottamente l'una nell'altra; parte dalla psichiatria e dalla fine novecentesca dei suoi miti costitutivi, identificati con i luoghi in cui si svolgevano, il manicomio e, in generale, le corsie mediche, ma anche la stanza dell'analisi e gli altri setting psicoterapici convenzionali, senza risparmiare i non-setting di certa sociopsichiatria per arrivare alla tesi di fondo della fine della civiltà occidentale, della sua cultura, della sua etica, dei suoi riferimenti scientifici e delle sue prassi. E’ la storia professionale di Di Petta, neurologo transitato alla psichiatria, alla fenomenologia e, infine, al trattamento non convenzionale delle tossicodipendenze nei "non luoghi" degradati  dell'hinterland napoletano, ad alimentare i suoi vissuti nichilistici, i sentimenti radicali di solitudine e di assenza di una solida identità, addirittura di impossibilità, oggi, di avere una qualsiasi identità di curante.  Ma l’esito di questo percorso non è affatto la rassegnazione:  da questo grado zero di una cultura, che, paradossalmente, è anche il punto più alto della sua consapevolezza, nasce il tentativo titanico di fronteggiare, "faccia-a-faccia", senza medium tecnici e senza maschere di qualsiasi tipo, quelle che un tempo si chiamavano "problematiche cliniche". Su queste basi Di Petta si spoglia di ogni abito medico e diviene un puro Odisseo  che registra i suoi “incontri”: la sua “conoscenza totale” del mondo e della cultura psicopatologica occidentale lo rende tanto indifferente alle convenzioni quanto disperatamente aderente alla religione del "vissuto" e della concretezza dell'esperienza.

 Saltando una generazione, il discorso di Di Petta prolunga idealmente quelli di Callieri e di Borgna, radicalizzandoli e caricandoli del carattere tragico dell'attualità (gli psicopatologi di una volta non hanno realmente dovuto affrontare lo sbriciolamento istituzionale, normativo e morale con cui la nostra generazione si è scontrata). Unendo in una sintesi metaplastica Binswanger, Joyce, Nietzsche, Buber, Junger, Celine e Cioran (e quanti altri), Di Petta si dimostra, insieme a Marco Alessandrini, il maggiore interprete della daseinsanalyse italiana dell'ultima generazione.  

 Due parole sugli aspetti formali dell'opera di Di Petta, la cui cifra stilistica è inequivocabilmente l'eccesso: nel suo streaming verborroico la cultura diviene erudizione ostentata, silloge enciclopedica, la dedizione per i maestri adorazione, il lirismo enfasi, l’empatia sentimentalismo, il pessimismo atteggiamento apocalittico, l'attenzione filologica ai termini tecnici festival di plurilinguismo e neologismi, la disposizione introspettiva pubblica confessione; note  incessanti e ipertrofiche fanno da continuo contrappunto espansivo al testo, spesso prendendone il sopravvento. Con i materiali e i contenuti di ciascuno di questi testi sovrabbondanti altri avrebbero scritto numerosi libri di narrativa e saggistica, lineari e meglio spendibili sul piano editoriale;  Di Petta invece si sda, si concede generosamente, si denuda impudicamente Si dà del quasi-psicotico e del quasi-delirante, e rivendica cionondimeno la legittimità del suo discorso a fronte di quello dei folli e degli emarginati con cui si incontra “faccia-a-faccia”, ma forse è solo un gioco, un inganno per il lettore e un autoinganno. Il suo dire è solo una scelta stilistica, appunto, una espressione a tratti sublime di un patetismo barocco tipicamente meridionale (si veda anche la bella postfazione di Masullo, il filosofo napoletano del patico).

 L'impatto con questa scrittura può lasciare inizialmente perplessi,  sconcertare gli accademici e inorridire i puristi del linguaggio scientifico. Ma la rottura stilistica di Di Petta è parte integrante del suo messaggio, è voluta, gridata, esibita, esprime una voglia di un rinnovamento in cui tuttti i linguaggi antecedenti (siamo o no nel postmoderno?) sono ridotti a semplici materiali d'uso riciclabili all'interno di intenzionalità costitutive radicalmente nuove, in primo luogo l’annullamento della distanza medico-paziente.

Veniamo infine a quello che è il vero punto debole del pensiero di Di Petta e che si può indicare nel misconoscimento della specificità della psicopatologia all'interno dei duplici drammi del divenire l'esistenza un compito tragico (non più regolato da norme e sistemi sanzionanti condivisi) ed avere essa come unico riferimento relazionale non più l'essere bensì il nulla: entrambe le cose uniscono, per Di Petta, lo psicotico e il normale. Non siamo d'accordo su nessuna delle due tesi: con la prima (che pure descrive molto bene quello che avviene alle esistenze borderline, tossiche e no) perchè la tragedia reclama, impone, l'instaurazione di nuove regole compatibili con la sopravvivenza sia per il singolo che per la collettività;  verso la seconda perchè, quali che siano i drammi dell'identità normale, possono comunque avere una risoluzione, mentre questa è strutturalmente impedita (più o meno acutamente o cronicamente) allo psicotico, come Tatossian ha intuito e noi abbiamo più estesamente dimostrato in vari lavori. La vera malattia mortale non è tanto l’essere-nel-nulla quanto il non-poter-essere-qualcosa.

Di Petta cade insomma nella trappola esistenzialista (ma non fenomenologica) di misconoscere (umanitariamente) la specificità del patologico, la sua banale diversità, la sua necessità di protezione e cura: esattamente ciò che è richiesto professionalmente allo psichiatra. Il fatto di navigare sulla stessa barca che forse affonderà non significa che curanti e curati, psicotici e non psicotici siano uguali: in effetti, da ogni punto di vista, su qualunque dimensione si vogliano descrivere, non lo sono. Di Petta sbaglia anche nel denunciare la fine di una cività che è solo in una fase di cambiamento critico (quasi catastrofico - ma ricordiamo che il mondo è sopravvissuto a situazioni peggiori, a Hitler e alla Seconda Guerra Mondiale), ed ignora che queste trasformazioni sono sorrette fondamentalmente dal grande nemico di ogni pensiero esistenzial-umanistico: la tecnica (si veda il bell’articolo di Sergio Benvenuto su Basaglia pubblicato di recente su “Psichiatria e psicoterapia”). E’ la tecnica o, meglio le infinite applicazioni tecnologiche ad aver determinato la metamorfosi delle relazioni e della comunicazione che sta cambiando il mondo su tutti i fronti.

In conclusione, i libri di Di Petta sono senz'altro testi della massima importanza nella miseria formale e concettuale dell'attuale editoria “psi” (un piccolo test: qual'è il libro psichiatrico degli ultimi decenni che ha detto qualcosa di realmente nuovo o anche solo che portereste su un’isola deserta?); per la loro estrema stratificazione formale e contenutistica sono una scommessa per il lettore non meno che per il loro autore. E che questa scommessa sia forse perduta in partenza, è una prova che c'è molta verità in essi.

 

 

 

 

 
                 Rivista Frenis Zero  
 
                  Maitres à dispenser

Riccardo Dalle Luche