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<<Qualsiasi dittatura contiene in sé la virtualità di Auschwitz>> ( Imre Kertesz) GIORNATA DELLA MEMORIA 2007 |
In occasione della "Giornata della Memoria 2007" presentiamo questo testo tratto dall'omonimo libro pubblicato nel 1946 dall'Istituto Italiano d'Arti Grafiche di Bergamo colle illustrazioni di C. Dottarelli Piazza Della Rovere. In fondo pagina proponiamo, poi, alcuni passi dello psicoanalista Mortimer Ostow, recentemente scomparso, tratti da "Mito e follia: rassegna di uno studio psicoanalitico dell'antisemitismo", pubblicato sull'"International Journal of Psychoanalysis, 1996, n.77. Le manifestazioni per la Giornata della Memoria, istituita con legge dello Stato 177/2000 <<al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte...>> sono molte, e sparse in tutta Italia. Quest'anno oltre al ricordo della Shoah è stata data particolare attenzione anche allo sterminio dei Rom (con una manifestazione a Roma prevista per il 25 gennaio). Una mappa del calendario delle manifestazioni è reperibile sul sito dell'UCEI: www.ucei.it/giornodellamemoria/index.htm . |
FULLEN. Il campo della morte
di Ettore
Accorsi (N.° 30333/328)
Iniziative dell'A.S.S.E.Psi. per la Giornata della Memoria: "La shoah e la distruttività umana": incontro con A. A. Semi "Civilization, Man-Made Disaster and Collective Memory" by Werner Bohleber
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Vi dirò quello
che vidi dal ventitrè febbraio al sei aprile millenovecentoquarantacinque.
Se poi vi potrà essere utile: quello che ho visto dal sei aprile al dieci
maggio dello stesso anno. Uomini e cose! Le cose: la torbiera, le baracche, il precampo, il cimitero. Gli uomini: gli ammalati: reparto medicina, chirurgia, psichiatria; i sani: tedeschi e italiani. Stille di pensiero: goccie di sangue.
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LA TORBIERA | |||||||||||||||||||
Il ventitrè febbraio, dunque, verso mezzogiorno, (eravamo nella infermeria
di Gross-Hesepe) i signori tedeschi, con molta cortesia, ci feceo sapere che
noi ammalati dichiarati D.U. - inabili a tutto - almeno una ventina di volte
in dieci mesi, dovevamo essere pronti per le quattordici precise onde
partire per il campo di Fullen situato ad oto chilometri dal nostro Lager. Pioveva e piovve tutto il tempo del nostro viaggio - passeggiata - attraverso la Torbiera. Una desolazione da spezzare il cuore. Ci sembrava di navigare in un mare d'inchiostro, verso la perdizione. Eravamo cinquanta! resti, straccetti umani che dovevano camminare a piedi, scortati dalla fame, da mille umiliazioni, da qualche sentinella male armata. (Moschetti francesi). In complesso la scorta era buona, ma, indubbiamente, il vecchietto sessantenne che teneva il fucile lo avrebbe spianato verso di noi, mirando giusto, se avessimo tentato di allontanarci un po' dal binario viscido e scivoloso della decauville. La decauville? Già! dovevamo andare con la decauville, ma, perché siamo arrivati, noi moribondi con quattro agonizzanti, tre minuti dopo l'orario prefissato, al cancello del lager, con molto strepito, il gentilissimo tedesco di guardia ci ha fatto sapere la sua costernazione. La decauville era partita! Un carro sudicio: immondezzaio, ha inghiottito i nostri poveri stracci, e, sotto e sopra i nostri stracci, i quattro fratelli moribondi. E il carro è stato spinto da Gross-Hesepe fino a Fullen (facendo varie manovre per lasciare libero il passaggio a carri di torba), da otto internati. Io, spesso flagellato da brividi di febbre, guardai nella torbiera nera. Guardai tanto in cerca di una casa. Avessi almeno visto un fil di fumo! Se non vidi nulla sentii molto però. Mi rintronava ancora all'orecchio il lamento dei moribondi, il dolce RAUS (di infausta memoria), e sopra tutto e sopra tutti:
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<<Morirai qui. Pochi giorni ancora>>.
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Non avrei voluto rimanere in questa terra, in mezzo a questa torbiera,
nemmeno con l'orma dei miei piedi. Sì: perché mi è toccato di camminare sul
sangue di migliaia di Russi, di centinaia di Italiani. La torbiera è tutta
un cimitero! Dopo tre ore di pioggia eccoci arrivati. Aspettiamo un'ora davant al portone principale del lager. Del lager Ospedale. Deve ancora giungere il carro bagagli. Aveva dirottato. Nel lager: quattordici baracche. | |||||||||||||||||||
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LE BARACCHE | ||||||||||||||||||
Io sono stato smistato alla baracca numero otto. Diagnosi: T.B.C.. Un
androne vecchio in legno tarlato con quattro rubinetti è l'anticamera. Non
c'è luce. Piove a dirotto. E' buio pesto. Un dottore italiano, accorso, si
presenta a me e ad altri venticinque ufficiali (miei compagni di ventura)
per il capitano medico Leandro Bonini. Si mette a braccia aperte, come in
croce, davanti alla porta d'ingresso alla così detta corsia ammalati. Ci
chiede: <<Loro signori ufficiali sono tutti ammalati di tubercolosi?>> <<Sì>>. <<Allora abbiano la compiacenza di venire con me>>. Si presenta al mio sguardo, aprendosi la porta, una bolgia d'inferno: un tratto di Lazaret (to). Non ho il coraggio di entrare. Rimango nel buio, vicino al mio altare da campo, perché i più malati di me e i più elevati di grado (ci sono dei signori colonnelli) possano essere sistemati. Il capo baracca, sergente Abbrescia, di Bari, corre a chiamarmi. Mi bacia le mani. Mi commuovo. <<C'è uno che muore>>. ...Con fil di voce, buttando sangue: <<Padre, non voglio morire: ho ventidue anni: voglio rivedere la mia mamma...>>. <<Non morirai, figliolo, tu vivrai sempre>>. <<Grazie, Padre, sono molto contento!>> Spirava. Mio Dio che caos nella baracca illuminata appena appena da una lampada oscurata al soffitto! Da tutte le parti ammalati, ammalati, ammalati. Centonovanta tubercolosi buttati uno sull'altro in uno spazio di alcuni metri quadrati: non saprei quanti. Mi dicono che il mio letto è pronto. Ringrazio e indugio. Finalmente mi muovo. <<Ecco, Padre, qui sotto. Ha da coprirsi? Qui, non c'è pagliericcio, non ci sono lenzuola, non c'è guanciale... Non c'è nulla>>. Faccio per stendere una coperta del mio bagaglio personale, (sono dieci mesi che non la lavo. La Provvidenza me l'ha lavata! E' un pozzo d'acqua: d'acqua, di sabbia, di sporco, d'immondo... Non so: è una cosa, una preziosa cosa), quando ti vedo venirmi incontro - quasi per abbracciarmi - un'ombra umana. Fugge come un gattino, un cagnetto fedele. Domando: <<Capo, chi è quel soldato che è uscito dal canile destinato a me?>> <<E' il soldato Papi Luigi, ma non abbiate paura; non è molto malato. Vi cede il suo letto perché, come vedete, il dottor Bonini ha voluto usarvi un riguardo>>. Sono inchiodato, lì, nel buio. Ho le pupille spente: sono solo lacrime. M'accuccio, m'accuccio! Che notte! Avrei voluto correre in cerca di Papi per riportarlo nel suo letto. Mi volto. E' lì, per terra, ravvolto in cenci di pastrano. Dorme? Non posso fare a meno di allungare una mano. Fare, sì, al grumo, una carezza lieve. Sfioro proprio il viso. Papi mi afferra la mano, e, piangendo forte, la bacia. I nostri compagni di baracca sono tutti gravissimi. Ne muoiono tre, quattro ogni note. Appena morti siamo divorati, nei piedi, nelle mani, nella bocca, negli occhi, perfino negli occhi, da topi giganti anch'essi sacrileghi. Da vivi siamo divorati da pulci, cimici, pidocchi. Siamo in un ospedale! Siamo in un immondezzaio orribile a vedersi ed impossibile a pensarsi. Siamo millesettecento, nel campo. Millequattrocento sono T.B.C. Le altre baracche (eccetto una mezza destinata allo Stamm-personale e compagnia cantante), suppergiù sono come la baracca numero otto. La mia baracca!
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