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E' morto Giovanni Jervis

 

 

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Il 2 agosto 2009 è scomparso l'illustre psichiatra all'età di 76 anni.

 

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Nato a Firenze il 25 aprile 1933, da una famiglia valdese, padre napoletano e madre fiorentina, Giovanni Jervis ha conseguito la laurea in Medicina a Firenze nel 1957, e la specializzazione in Neurologia e Psichiatria a Roma nel 1960. Nel 1968 ha ottenuto la libera docenza in Psichiatria. Dal 1959 al 1963 ha collaborato con l'etnologo Ernesto De Martino in ricerche sul tarantismo pugliese e sul tema culturale e psicopatologico della fine del mondo. Ed è stato un viaggiatore instancabile, che il mondo ha girato per intero assieme alla moglie, magari non in modo avventuroso ma sempre con l’attenzione di chi non smette di studiare. L’ultimo viaggio lo ha portato in Alaska. Poi la malattia, e quindi la morte, nella sua casa romana. Dal 1966 al 1969 ha collaborato con lo psichiatra Franco Basaglia lavorando a tempo pieno nella Comunità terapeutica di Gorizia.  Il suo nome è legato all’esperienza dell’antipsichiatria e alla legge Basaglia, ma la sua attività di studioso, di critico e di docente universitario va oltre. L’ultimo libro, pubblicato da Bollati Boringhieri in dialogo con Giorgio Corbellini, si intitola significativamente "La razionalità negata", ed è una riflessione sulle speranze e le passioni anche ideologiche degli Anni 70, da cui Jervis aveva preso le distanze. In esso critica l’antipsichiatria come atteggiamento antirazionalista e velleitario, che crede nella follia come qualcosa di rivoluzionario, conculcato dalla società capitalistica: e del resto tra gli intellettuali che proprio non gli andavano a genio svettava Michel Foucault, il teorico più noto e citato per la sua Storia della follia. Nessuna animosità, invece, verso Franco Basaglia, il padre della legge che abolì i manicomi. Insomma, l’esperienza fu importante, lo segnò ma forse non lo convinse del tutto. Dal 1969 al 1977 è stato direttore dei Servizi psichiatrici territoriali di Reggio Emilia. Fino al ‘77 continuò l’avventura di psichiatra a Reggio Emilia, infine preferì dedicarsi all’insegnamento universitario, culminato con la cattedra a Roma, Università "La Sapienza", di ordinario di Psicologia Dinamica nella Facoltà di Psicologia. . Questo è però solo un aspetto, il più pubblico, del suo lavoro, che ha sempre compreso le consulenze editoriali e la pubblicistica di forte intervento culturale e sociale. E' stato, negli anni Sessanta, membro del consiglio editoriale della casa editrice Einaudi e in seguito consulente per la Feltrinelli e la Garzanti. Tra i libri meno recenti, editi da Feltrinelli e da Garzanti, vanno ricordati il "Manuale critico di Psichiatria" (’75), "Il buon rieducatore"(’77), "Presenza e identità" (’84), "La psicoanalisi come esercizio critico"(‘89), "Fondamenti di psicologia dinamica" (’93) e "Sopravvivere al Millennio" (‘96).
Fece parte del primo nucleo della rivista Quaderni piacentini, con Berardinelli, Bellocchio, Fofi, Grazia Cherchi. Fu il vero artefice del libro che rivelò Basaglia e le sue battaglie, e cioè il volume a più voci dove si raccontava l’esperienza di Gorizia, titolo "L’istituzione negata", dove compariva come autore, anzi curatore, il solo Franco Basaglia (e a cui come è evidente fa un riferimento molto esplicito e non privo di polemica la sua ultima opera): l’aveva voluto lui, da consulente dell’Einaudi. Ed era andato a Gorizia proprio per questo, come raccontò in diverse interviste. Vide in Basaglia «un uomo di grande intelligenza, con uno sguardo sulle cose penetrante, perspicace, spiritoso, spregiudicato in senso buono». Ma aggiunse: «In ogni caso io non l’ho idolatrato e molto presto è venuto fuori che avevamo opinioni diverse».
 

 


 

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Rivista Frenis Zero

 

Per ricordare Giovanni Jervis, vi proponiamo un brano del libro pubblicato nel 1999 per Bollati Boringhieri "Il secolo della psicoanalisi" riguardante una breve storia degli studi freudiani.

    

   

Maitres à dispenser

 


 

 

 

 

 

"Breve storia degli studi freudiani"

di Giovanni Jervis

 

                

   

 

 La storia degli studi freudiani è tale nei due sensi che si possono dare alla parola: infatti, <<freudiane>> sono le indagini sulla vita di Freud e sulle vicissitudini delle sue esperienze, delle sue letture, dei suoi rapporti diretti con altre persone, come per esempio i suoi familiari, maestri e allievi; ma <<freudiane>> sono anche le indagini sul significato delle sue idee, e sulla storia e l'evoluzione del suo messaggio attraverso il secolo.

L'evoluzione degli studi freudiani ha più di un motivo di interesse. Il primo motivo è che esiste una differenza netta, sul piano documentario come su quello interpretativo, fra gli scritti fino agli anni sessanta e quelli più recenti. Gli studi compiuti prima degli anni settanta furono quasi tutti <<dall'interno>>, e opera di psicoanalisti impegnati in una sostanziale difesa di Freud e delle sue idee. Quelli degli ultimi tre decenni del secolo, al contrario, sono stati quasi esclusivamente dovuti a storici, biografi, epistemologi, psicologi non appartenenti alla categoria professionale degli psicoanalisti. Sul terreno documentario, disponiamo oggi di dati storici e biografici molto più ricchi e precisi che anche solo trent'anni orsono; sul terreno interpretativo, esiste una differenza fra il carattere ancora schematico degli studi più remoti e l'articolazione, assai ricca e molto più accurata, di quelli recenti.

(...)

Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale compare un libro che contribuirà a dare credibilità all'immagine canonica di Freud e delle sue idee. Fra il 1949 e il 1956, con l'aiuto di Anna Freud e avendo a disposizione fra l'altro 5000 lettere manoscritte di Freud, Ernest Jones scrive i tre volumi The life and work of Sigmund Freud, e dà inizio con quest'opera alla storiografia freudiana. Il suo lavoro è quasi sempre accurato ma fondamentalmente apologetico: è la biografia che Freud avrebbe desiderato. Nei suoi aspetti migliori, quest'opera monumentale è, come dice John Forrester, una tradizionale <<vita e opere di...>> a carattere neo-vittoriano. Jones avvalora in una maniera articolata e intelligente, ma troppo fedele all'intenzione del suo maestro per essere onesta, l'idea che Freud fu uno scienziato rivoluzionario senza predecessori né ispiratori. Inoltre, nell'identificare ancora una volta l'uomo con le teorie psicoanalitiche (l'amplissima sintesi jonesiana è al tempo stesso la storia di una vita e l'esposizione di un sistema) Jones insiste sull'isolamento e sulle incomprensioni di cui furono oggetto sia Freud che la sua dottrina.

Negli anni immediatamente successivi, tuttavia, il quadro degli studi freudiani comincia a cambiare. Si rompe lo schematismo, fino ad allora dominante, della contrapposizione tra pro-freudiani (spesso acritici) e anti-freudiani (di solito altrettanto rigidi) e vengono pubblicati, finalmente, studi che sono sia più dettagliati e accurati nelle fonti, sia meditati con maggiore equilibrio. Per cominciare, due libri incrinano la compattezza del quadro ideologico dipinto da Jones, e introducono modi nuovi, e più ricchi, di leggere Freud.

Il primo è quello di un sociologo, Philipp Rieff. Nel suo "Freud: the mind of the moralist", del 1959 Rieff sostiene che Freud è dominato, in ultima istanza, da una sorta di moralismo della verità, di cui occorre capire e apprezzare il valore. Nel suo compito di scopritore, o di disvelatore dissacrante, il grande viennese segue una sua interna tensione che Rieff chiama <<etica dell'onestà>>. Quest'etica fu presentata, da parte di Freud, come rivestita dei panni della scienza: però di fatto noi dobbiamo ammettere, dice Rieff, che Freud, per quanto desideroso di difendere la propria immagine come quella di uno scienziato, elaborò una serie di ipotesi che non rispondono in alcun modo agli standard di una teoria scientifica. Inoltre Rieff dimostra per primo in modo convincente che l'uso freudiano dei termini psicoanalitici (come <<rimozione>>, <<investimento>>, <<apparato psichico>>, <<Io>>, <<Super-io>> ecc.) non è tecnico-scientifico in senso proprio, e neppure è un uso strettamente designativo-descrittivo, ma è qualcosa di informalmente illustrativo, o geneticamente indicativo, e in parte perfino - e al di là, forse, delle stesse intenzioni di Freud -decisamente metaforico.

Il secondo libro, meno ambizioso, compare l'anno seguente, nel 1960; e anch'esso lascia un segno. In "The unconscious before Freud" Lancelot Law Whyte, pur senza dire nulla di sostanzialmente nuovo sul piano della storia del pensiero, rintraccia la storia del concetto di inconscio a partire dal Seicento. Egli si rifà a concetti in sé stessi non nuovissimi ma che non sono familiari ai lettori abituali di Freud: il capitolo centrale del volume, per esempio, è dedicato alla <<Nascita dell'autocoscienza europea>>. Ma soprattutto, Whyte dimostra che Freud non ha affatto scoperto l'inconscio, e neppure ne ha dato una versione sostanzialmente nuova, perché ha raccolto una tematica che aveva già una lunga circolazione, sia in filosofia sia in psicologia, nella seconda metà dell'Ottocento. L'immagine comune e un po' semplificata di un <<Freud scopritore dell'inconscio>>, che fino al 1960 era data per scontata fra quasi tutti i lettori e fruitori della psicoanalisi, comincia a incrinarsi.

Il volume che segna l'inizio della svolta negli studi freudiani viene pubblicato solo dieci anni dopo, nel 1970. "La scoperta dell'inconscio", di Henri Ellenberger, è un'opera fluviale e impegnativa, ma ogni sua pagina è di gradevole e intelligente lettura. Lo studioso svizzero-canadese ha raccolto una documentazione vastissima ed estremamente minuziosa che riguarda sia il periodo storico che va dalla fine del Settecento fino a Freud, sia la vita e le vicende del grande viennese. Il suo orientamento è quello di uno storico attento non solo alle fonti principali ma anche allo Zeitgeist, cioè allo <<spirito diffuso>> della cultura di una data epoca, e quindi ai rapporti fra gli eventi storici, i temi culturali prevalenti nelle classi colte e medio-colte e, infine, l'emergere di temi e ipotesi più specifici che riguardano, per esempio, la natura della suggestione ipnotica, l'inconscio, la sessualità femminile e la sofferenza nevrotica.

In primo luogo Ellenberger rintraccia gli antecedenti della psicoanalisi, e dimostra in modo cogente che le idee di Freud non nascono dal nulla (né nascono, se è per questo, dalla semplice osservazione clinica) e neppure sono originali. Per primo, e altri confermeranno in seguito questa interpretazione con nuovi dati, Ellenberger sostiene che il contributo di Freud alla cultura risiede nella sua capacità di aver formulato - e di averlo fatto genialmente - una sintesi, e non consiste invece in una qualsiasi scoperta. La ricostruzione dell'ambiente scientifico-culturale in cui Freud si formò e visse è molto accurata, e mette in luce un clima complesso fatto di idee filosofiche a carattere critico, di ricerche psicologiche e psicoterapeutiche già complesse e raffinate, di una ricca serie di spregiudicati dibattiti sessuologici. Le correnti di pensiero all'interno delle quali Freud si inserisce, e da cui è direttamente influenzato, comprendono fra l'altro secondo Ellenberger la <<tendenza demistificante>> presente in una parte importante del pensiero europeo, da La Rochefoucauld agli illuministi, a Karl Marx, a Nietzsche, a Ibsen.

In secondo luogo, Ellenberger riesamina la vita di Freud in una prospettiva meno personalistica di quella di Jones, andando fra l'altro a controllare direttamente una lunga serie di documenti dell'epoca: e ha buon gioco nel dimostrare che Freud, contrariamente al mito e ad alcune vere e proprie falsificazioni storiche, fu discusso fin dall'inizio con interesse in ambito specialistico, e non venne  affatto isolato né ostracizzato in modo pregiudiziale come egli per primo aveva voluto far credere. Soprattutto, per la prima volta Ellenberger riesce a collocare in un contesto storico-culturale intelligentemente ricostruito non soltanto la genesi della psicoanalisi, ma anche il suo sviluppo nei primi decenni del Novecento. Così, per esempio, mostra come la vita e lo stesso pensiero di Freud non siano separabili da quelli di altri studiosi geniali e influenti, con i quali Freud confrontò le proprie idee: due lunghi e bei capitoli, per certi lati rivelatori, sono dedicati a Pierre Janet (cui Freud fu debitore) e a Carl Gustav Jung, suo principale referente e interlocutore per vari anni.

Ellenberger è dunque il primo a prendere criticamente in esame quello che chiama il <<mito di Freud>>. Le caratteristiche di questo mito ruotano intorno all'immagine del genio isolato e incompreso. Il successo del mito presso il pubblico deriva dal convergere di due fattori: il deliberato e sistematico tentativo, sia di Freud sia dei suoi allievi, di fondare e difendere precisamente questa immagine; e la tendenza della media cultura a crearsi e idoleggiare, in generale, immagini stereotipe di questo tipo (un'altra fu per molti anni quella di Einstein) svolgenti funzioni di icone laiche.

Tuttora, per quanto nuove importanti ricerche si siano aggiunte, l'opera di Ellenberger rimane di importanza capitale nell'ambito degli studi freudiani. La sua ricostruzione ha peraltro alcuni limiti, e questi sono soprattutto due: in primo luogo, la sua attenzione allo <<spirito culturale dell'epoca>>, cioè allo Zeitgeist diffuso (per esempio nella Vienna prima del 1914), è eccessivamente parcellare e talora non mette bene in luce i grandi temi scientifico-culturali in gioco, in particolare quelli filosofici e metodologici; in secondo luogo, egli privilegia delle idee della psicoanalisi, e tende invece a sottovalutarne la matrice illuministica e positivista.

 

Quest'ultima matrice viene invece valorizzata in un'altra opera che compare alcuni anni dopo e segna, più nettamente che la ricerca di Ellenberger, l'inizio del vero e proprio revisionismo storiografico freudiano. "Freud biologo della psiche", di Frank Sulloway, esce nel 1979. Sulloway è un giovane e brillante storico della scienza che viene da Harvard; il suo lungo saggio è meno dispersivo di quello di Ellenberger, più accademicamente <<classico>>, più concentrato e intenso, e talora anche più apertamente polemico verso l'agiografia tradizionale. Con una ricerca storica molto accurata ma anche con una qualche tendenza all'accanimento argomentativo, Sulloway rintraccia la matrice naturalistica dell'opera di Freud, e ridefinisce i contorni del suo pensiero come quello di uno psicologo e pensatore fortemente influenzato dall'ideologia delle scienze biologiche. Nel ripercorrere ancora una volta con nuovi dati e nuove scoperte documentarie le vicende della sua vita, egli accusa più apertamente sia Freud stesso, sia Jones, sia gli ambienti psicoanalitici, di aver falsificato la realtà trasformando la figura reale di Freud in un mito (egli parla della costruzione di un <<mito dell'eroe>>) che ha ben poco a che fare con i fatti storici.

Il volume di Sulloway non è sempre del tutto sereno: ma è interessante e serio, apre nuove prospettive ed è frutto di una ricerca che non inclina mai né al sensazionalismo né al pettegolezzo.

Già al momento della sua pubblicazione, tuttavia, il panorama generale della storiografia freudiana era divenuto un po' meno limpido. In parte, questo fatto è dovuto al diffondersi di talune indagini sulla vita di Freud e dei suoi allievi, che non sempre vanno nella direzione di un serio approfondimento delle radici del pensiero psicoanalitico.

Nel 1975 era uscito "Freud and his followers" di Paul Roazen. Il libro trae le sue fonti principali dai colloqui dell'autore con una settantina di persone che avevano conosciuto Freud personalmente, in quanto parenti o allievi, o avevano avuto a che fare con il movimento psicoanalitico ai suoi albori. Ne emergono soprattutto una serie di ritratti biografici, primo dei quali quello dello stesso Freud, insieme a una ricca, e si starebbe per dire ghiotta, serie di notizie sui suoi allievi e sui loro rapporti reciproci e con il maestro. Il risultato, per quanto il libro non sia breve, è sempre di piacevole lettura, talora rivelatore. Tuttavia rimane, nel lettore, un disagio. La somma di notizie, per quanto interessante, prevale sul respiro storico, e si avverte nell'opera di Roazen la mancanza di un solido impianto saggistico. L'autore è onesto nella sua indagine ma finisce per rimanere impigliato nella cronaca, e soffermandosi sui molti dettagli di vita privata non si rende conto di cadere in uno stile che fa pensare al giornalismo, e in qualche caso sfiora il pettegolezzo. Il libro, accolto male dagli psicoanalisti e senza troppo entusiasmo dagli studiosi freudiani (che tuttavia ne hanno fatto largo uso da allora come fonte di dati), è stato persino bollato come esempio di <<pop history>>. Come vedremo più avanti, ha nuociuto al libro di Roazen la compagnia di altri indagatori un po' avventurosi fra i quali si è venuto a trovare negli anni successivi. Il suo destino è di essere ricordato, da allora, come l'iniziatore di un tipo di studi freudiani attenti più alla vita privata che alle idee: e si registra qui, per una sorta di contrappasso, l'effetto perverso della tendenza precedente a mitizzare in modo acritico la figura di Freud anche nei suoi dettagli biografici più personali. Nel caso di Roazen, bisogna anche dire che egli fu mal servito da quello che si potrebbe chiamare un errore di marketing. Nell'ambito della sua ricerca generale per il volume "Freud and his followers", infatti, Roazen si era imbattuto in una vicenda particolare, quella del rapporto tra Freud e un giovane analista finito suicida, Victor Tausk. Egli decise di scorporare questa parte, e di pubblicarla in anticipo rispetto all'opera maggiore: ma il volume "Brother Animal", uscito nel 1969, per quanto ben documentato, apparve a molti come un tentativo di diminuire, o addirittura di infangare, la figura di Freud. Quel piccolo studio, dotato effettivamente di un sapore vagamente scandalistico, metteva in risalto una vicenda particolare che, pur non essendo priva di qualche rilievo sul piano biografico, poteva a buon diritto essere considerata marginale su un terreno culturale più ampio. E infatti il libro su Tausk finisce nel mirino del più rigido dei freudiani moderni, Kurt Eissler, che gli dedica dure repliche non solo in vari articoli ma persino in un volume scritto appositamente e lungo due volte quello di Roazen, dal titolo "Talent and Genius".

Negli anni seguenti il terreno delle indagini sulla vita di Freud non si rasserena, soprattutto per l'entrata in scena, alla fine degli anni settanta, di un giovane indagatore britannico, Peter Swales. Questi è un drop-out universitario, un ricercatore d'archivio free-lance e, per sua stessa definizione, una sorta di avventuriero della cultura. Per alcuni anni Swales si appassiona di tutti gli aspetti della vita di Freud prima del 1895-1900, e pur non avendo nessuna delle usuali credenziali accademiche, ne diviene di fatto un esperto. Per quanto possa venir considerato un personaggio culturalmente anomalo, anche i suoi nemici gli debbono riconoscere alcuni meriti: oltre ad approfondire le ricerche sugli entusiasmi (scientifici ma amche personali) di Freud per la cocaina, Swales scopre, dimenticato nei Freud Archives di Washington, il carteggio giovanile con l'amico Eduard Silberstein, e rintraccia in varie parti d'Europa e in Israele documenti e lettere che gettano nuova luce su alcuni dettagli biografici e culturali tutt'altro che irrilevanti della vita del grande viennese alle soglie della maturità. Non mancano, da parte di Swales, ipotesi che alcuni considerano sensazionali: per esempio, che Freud cercò (forse) di uccidere il suo interlocutore nell'epoca della sua autoanalisi, Wilhelm Fliess, e che, oltre a essere stato per anni l'amante della cognata, Minna Bernays, fu forse anche implicato in un suo aborto. (L'ipotesi della relazione di Freud con la cognata non è però del tutto nuova, e nasce da una confidenza di Jung).

Accanto a Swales va collocata un'altra singolare figura di esploratore culturale, il canadese Jeffrey Masson, da ricordare qui più che altro perché è riuscito a rendersi noto al largo pubblico. Con un'intelligenza fuori del comune e un'indiscutibile buona fede, Masson si è occupato di volta in volta, e sempre con energia e passione, prima di sanscrito, campo nel quale ha raggiunto giovanissimo una notevole posizione accademica, poi - per alcuni anni - di Freud, e ancor più recentemente della vita affettiva degli elefanti. Anche qui, il mondo degli studiosi non può che essergli grato per avere egli curato con impaccabile scrupolo filologico l'edizione integrale delle lettere di Freud a Fliess (delle quali era stata resa pubblica, nel 1950, solo una edizione parziale, discutibilmente espurgata da Anna Freud e Ernst Kris) ma, nella logica dello stesso tipo di apprezzamento, non può che censurare la sua tesi, pochissimo fondata quanto ingenuamente scandalistica, secondo la quale Freud avrebbe voluto nascondere, in talune sue teorie, la presenza di frequenti episodi di molestia sessuale da parte dei gentiluomini del suo ambiente borghese nei confronti delle loro figlie.

Per collocare Swales e Masson occorre capire un clima. All'inizio degli anni ottanta coesistono, negli Stati Uniti e in Europa, due schieramenti. Da un lato vi sono gli ultimi custodi del <<mito di Freud>>, come Kurt Eissler e insieme a lui gli psicoanalisti più ortodossi, ben appoggiati dalla solidarietà di schiere assai vaste di persone che ammirano Freud intensamente - pur senza conoscerlo bene - e non vogliono sentir parlare in nessun caso di una sua demitizzazione. Dal lato opposto vi sono psichiatri, psicologi, storici della cultura e ricercatori di scienze sociali che, familiari con le letture freudiane non meno che con i testi di altri grandi autori del Novecento, rispettano Freud in modo più pacato, e si trovano adesso a solidarizzare con quei nuovi studiosi che sono irritati dal contrasto fra lo schematismo agiografico dell'immagine tradizionale e gli aspetti umani, e forse talora troppo umani, di ciò che si va scoprendo circa la vita del grande viennese.

In questo contesto generale, sia la persistente popolarità della psicoanalisi (o per meglio dire, in molti casi, dell'immagine di essa), sia le polemiche sviluppatesi sulle riviste divulgative e culturali non specializzate, hanno indubbiamente favorito una sensazionalizzazione dei temi in gioco. Ne è derivato un certo scadimento del livello del dibattito: o, per essere più precisi, un abbassamento di quella parte del dibattito che è stata sotto gli occhi del pubblico. Qui, purtroppo, non sempre gli studiosi più colti e meno inclini alle mode sono intervenuti svolgendo il compito richiesto dal loro ruolo,  e quindi rimettendo le cose nelle loro giuste proporzioni. Per riprendere il caso più noto, l'ipotesi che Freud avesse una relazione con la cognata può interessare i lettori di storia divulgativa e di quei giornali che si occupano di popolarizzazione della cultura, ma - di fatto- è di scarsissimo interesse per uno studioso serio. Chi è poco incline ai pettegolezzi storici sa bene che Freud non era né un moralista retrivo né un libertino, e che un suo legame sessuale e sentimentale di quel genere se, come è possibile, vi fu realmente, non ci dice nulla di sostanzialmente nuovo sulla sua personalità, non smentisce né conferma nessuna delle sue teorie o delle sue dichiarazioni né ci aiuta veramente a capirle, e neppure aggiunge alcunché di significativo a tutto quel che ci dovrebbe interessare maggiormente della sua vita, e cioè in primo luogo l'evoluzione delle sue idee e i suoi rapporti con i suoi maestri, colleghi e allievi.

Così, nella stessa logica, dovrebbe essere possibile continuare a distinguere fra gli studiosi più seri, come per esempio Rieff, Ellenberger e Sulloway che abbiamo ricordato più sopra, e altri invece, che pur avendo raccolto testimonianze e scoperto documenti magari importanti, tuttavia si sono resi responsabili, nei casi migliori, della banalizzazione di un quadro storico, e nei casi peggiori di ricostruzioni e illazioni (per esempio il supposto aborto di Minna) che oltre ad avere scarso fondamento sembrano rispondere soprattutto a una ricerca di scandali e sensazionalismi.

Sarebbe errato concluderne che i due più recenti decenni (1980-99) abbiano visto il decadere degli studi freudiani: al contrario. Può darsi che vi sia stato il decadere di una parte del dibattito: ma oggi, alla fine del secolo, ci accorgiamo di disporre, e da non molto tempo, di strumenti straordinariamente più ricchi e precisi per analizzare e capire Freud e la psicoanalisi. Se questo accade lo dobbiamo in larga misura agli studi degli ultimi vent'anni. Non soltanto è rapidamente aumentata la quantità dei contributi nel loro insieme, sia di quelli settorialmente specialistici (per esempio, la lingua di Freud e la struttura del suo modo di esporre, le biografie di quasi tutti gli allievi ecc.) sia di quelli di impostazione critica più generale, ma va anche detto che nell'insieme è sicuramente migliorata la qualità dei contributi. Da parte di una nutrita schiera di studiosi, spesso giovani, sono stati prodotti studi e saggi seri e di grande interesse. Non è possibile ricordare qui neppure tutti quelli di maggior valore. Fra le molte biografie va citata almeno quella di Melanie Klein da parte di Phyllis Grosskurth, che ha suscitato qualche discussione ma è interessante soprattutto per la ricostruzione di un ambiente culturale; fra i saggi storico-biografici, almeno quelli di William McGrath sul tema dell'isteria del primo Freud e di John Kerr sui rapporti tra Freud e Jung e sull'importanza della matrice zurighese nella nascita della psicoanalisi. Fra quelli metodologici ed epistemologici, almeno lo studio di Paul-Laurent Assoun, del 1981, per vari aspetti in accordo con quello di Sulloway, e quello di Brian Farrell, sempre del 1981, e poi soprattutto il ponderoso volume, ormai noto anche fuori dall'ambiente specialistico, di Adolf Grunbaum, del 1984.

Va a questo punto menzionata, come particolarmente rilevante, la monumentale ricerca di un autore australiano, Malcolm Macmillan, costata molti anni di lavoro, e che oggi costituisce, oltre che l'indagine più sistematica e attenta dell'intero sistema di pensiero di Freud finora pubblicata, anche la principale bibliografia ragionata degli studi freudiani di cui si possa disporre.

Molti di questi libri e saggi, e in particolare i due più ambiziosi e impegnativi, quello di Grunbaum e quello di Macmillan, sono critici nei confronti delle teorie di Freud. Non è questa la sede per rintracciare i termini del dibattito che essi hanno suscitato - soprattutto il primo - ma vale la pena di osservare che una delle obiezioni più comuni, e più sensate, che sono state contrapposte alle critiche da loro rivolte a Freud, riguarda la tendenza di entrambi questi studiosi a esaminare Freud e le sue idee esclusivamente al fine di valutare la loro aderenza ai canoni della scienza. E' indubbio che, contrariamente al mito, le idee di Freud abbiano avuto ben poco a che fare con qualsiasi forma di sistematicità e oggettività: ma questo fatto tende a essere visto, sia da questi due autori sia da molti detrattori attuali della psicoanalisi, come una prova dell'inconsistenza di quest'ultima.

L'idea che le teorie freudiane non siano state semplici credenze pseudoscientifiche ma, ben diversamente, il tentativo di elaborare una psicologia empirica di estremo interesse per la storia della nostra cultura, viene tuttora largamente sottovalutata.