Leggere la guerra attraverso il
manicomio. Osservare e comprendere un lato del fenomeno vasto e
articolato del conflitto italiano al di fuori dei comuni canoni
storiografici[i]
non affrontandolo in campo aperto, bensì scegliendo di percorrere una
via minima che, attraverso la riscoperta delle centinaia di
testimonianze della e sulla vita dei soldati alienati (o creduti tali),
spinga il lettore ad assumere una peculiare prospettiva. Quella della
chiusura dietro le apparentemente impenetrabili mura di un manicomio per
inseguire un duplice obiettivo:
1 -
per spiarvi in incognito all’interno, decifrando l’attitudine
epistemologica di una scienza medica sorpresa dai fenomeni patologici
bellici[ii]
e prona in una routine terapeutica, polarizzata tra assistenza e
disciplinamento intimidatorio, suscitatrice della resistenza ostinata
quanto inattesa dei ricoverati alle dinamiche
dell’istituzionalizzazione;
2 -
per osservarvi in controluce, da un’irrituale collocazione, le vicende
complessive di una società nazionale[iii]
e di una cultura medico-giuridico-militare governata, nello stato
d’eccezione della guerra[iv],
da imperativi diversi quali non la ricerca del benessere[v]
di coloro che, nel mondo, «stanno (…) scritti nel libro degli spersi»[vi].
Come
archeologi del tempo, è questo l’itinerario di rinvenimento della
memoria bellica che invito il lettore a compiere fino all’ultimo rigo,
scorrendo le carte tratte dallo spoglio delle cartelle cliniche dei
combattenti ricoverati nel Manicomio Provinciale di Cremona tra 1915 e
1918[vii].
Un
manicomio, quello cremonese, per storia, dimensioni e peso di relativa
importanza nell’asset istituzionale italiano[viii].
Non di meno, un manicomio la cui circoscritta e periferica vicenda se
sottovalutata o peggio ascritta ad una storia di mero interesse locale,
indurrebbe a commettere un clamoroso errore di strabismo storiografico.
E per almeno due ragioni.
Innanzi
tutto, la guerra guerreggiata alla frontiera orientale pose l’asilo
padano in una posizione di rilevanza, a suo modo, geostrategica per i
comandi della sanità in grigioverde: prossima alla linea del fuoco, ma
abbastanza discosta per non subirne il quotidiano allarme. Nel contesto
della mobilitazione totale delle energie nazionali, e soprattutto tra i
primi giorni del 1917 e gli ultimi del 1918[ix],
con accelerata intensità dopo la debacle di Caporetto, il
manicomio cremonese assunse funzioni di terminale, discutibilmente
efficiente[x],
di una catena di rimontaggio dei soldati/macchine da combattimento che
aveva lo stadio iniziale nei posti di medicazione della sanità militare
nelle trincee e, attraverso gli ospedaletti da campo e gli ospedali
territoriali, risaliva agli ospedali psichiatrici civili[xi].
Ultima tappa per l’alienato militare ma, pure per il miraggio di
ufficiali e medici circa il rapido ristabilimento del degente ed il suo
pronto riutilizzo nei lavori della guerra – riutilizzo che, a rigore,
ove ritardasse, doveva sancire il definitivo internamento asilare del
militare in oggetto, vieppiù inutile alle fatiche della gran causa
patriottica secondo l’autorevole opinione di Enrico Morselli[xii].
In
seconda battuta, lungo un versante solo sfiorato dalla storiografia
italiana in materia, l’esperienza cremonese non può essere trascurata
poiché se la categoria della nazionalizzazione delle masse –
puntualmente rievocata a proposito dell’età 1915-18 – ha un riscontro,
essa lo acquista anche nella mole d’indizi e materiali custoditi nelle
cartelle cliniche di un manicomio urbano medio quale quello della città
padana.
Scandita,
passo dopo passo e giorno dopo giorno per oltre tre anni, dalle
comunicazioni reciproche intercorse, attraverso il baricentro
manicomiale, tra psichiatri, medici, sindaci, deputati provinciali,
funzionari prefettizi, questurini, giudici e familiari dei ricoverati
delle città e province di Napoli, Chieti, Catanzaro, Sassari, Nola,
Udine, Benevento, Como, Caserta, Lucca, L’Aquila, Verona, Treviso,
Pesaro, Brescia, Pisa, Avellino, Taranto, Reggio Emilia, Mantova,
Milano, Parma, Genova, Ravenna, Lodi, Catania, Reggio Calabria, Roma,
Vicenza, Bergamo, Modena Foggia, Padova, Firenze, Bologna, Caltanisetta,
Voghera, Messina, Pistoia, Porto Maurizio, Teramo, Alessandria, Pavia,
Livorno, Lecce, Bari, Venezia, la non comune abbondanza del malloppo
archivistico rivela, in corso d’opera e concretamente, il processo di
formazione di una società nazionale relativamente coesa ed in grado di
far dialogare le proprie numerose componenti. Anche l’istituzione
manicomiale, insomma ed ab assurdum, generando il via vai di
lettere, telegrammi, perizie e ordinanze tra differenti burocrazie di
cui si è detto, oppure attirando a Cremona decine di familiari ansiosi
di ritrovare congiunti dei quali s’era spesso persa traccia per mesi,
s’incaricò di portare un piccolo tassello al più complesso corso della
partecipazione burocratica statuale delle masse italiane. Un’inclusione
passiva la quale, soprattutto per i parenti dei soldati meridionali – la
maggioranza ricoverata – equivalse non da ultimo e con segno ben lungi
dal voyage en Italie di aristocratica memoria alla scoperta
concreta del Paese chiamato Italia, e alla percezione di un senso
d’appartenenza transregionale.
Nel
cabotaggio della documentazione, i materiali, i frammenti discorsivi ed
i frantumi biografici di 150 uomini strappati alla routine quotidiana di
campagne, botteghe artigiane e fabbriche dall’incorporazione
nell’esercito prima e, dalla guerra poi, non solo e non esclusivamente
sono ascrivibili ad un Io narrante psichiatrico.
L’archivio della follia[xiii]
porta il lettore a diretto contatto con una tipologia almeno triplice di
fonti: medico-psichiatriche, giuridico-amministrative e testimonianze
personali – di soldati, mogli, madri e padri –, accomunate tutte sia
dall’originalità di un linguaggio immediato avulso dalla pratica della
metaforizzazione (e metamorfizzazione…) delle miserie della guerra, sia
dalla capacità di ritrasmettere, in quanto microcosmi strutturati, idee,
sensibilità e pratiche riguardo le malattie mentali sedimentate da
secoli e condivise da un panorama socio-culturale trascendente il
circoscritto spazio antropologico cremonese.
NOTE: |
[i]
E’ sorprendente come anche tra la più accredita storiografia
internazionale, per norma citata regolarmente in volumi e conferenze,
sia in larga parte assente il confronto diretto con l’esperienza
personale dei combattenti o militari ricoverati, essendo di norma
privilegiato l’approfondimento del discorso medico e psichiatrico. Una
valida eccezione all’interno di un tale panorama è B. Bianchi, La
follia e la fuga, Roma 2001.
[ii]
Scrive nel proprio diario di guerra il capitano medico Gregorio
Soldani: “31 maggio 1916. Romans d’Isonzo, Zona di guerra. Ho nel
reparto un caso strano di psicosi. Si tratta di un bersagliere che fu
incaricato di seppellire i resti di alcuni soldati austriaci, fatti
saltare da una nostra mina sul Carso. Di un tratto, terrorizzato dal
macabro spettacolo, rimase come in catalessi con un arto nemico in
mano. Da quel momento non parla più. Ha continue scosse e sussulti. Si
fissa nel vuoto come se vedesse qualcosa di pauroso, e facendo poi un
salto si nasconde sotto le coperte del letto. Lo manderò al manicomio
di San Giorgio di Nogaro”; in
Dal fronte del sangue e della pietà,
Gaspari, Udine 2000, p. 95.
[iii]
Per uno sguardo d’insieme, riassuntivo ed esaustivo, cfr. G. Procacci,
La società come una caserma. La svolta repressiva degli anni di
guerra, in B. Bianchi, a cura di, La violenza contro la
popolazione civile nella Grande guerra. Deportati, profughi internati,
Milano 2006, pp. 283-301.
[iv]
Sul tema, le diverse osservazioni di G. Agamben, Stato di
eccezione, Torino 2003, e J. Hillman, Un terribile amore per la
guerra, Milano 2005.
[v]
D. De Salvia, A. Rolle, Presentazione in F. Basaglia,
Conferenze brasiliane, Pistoia 1984, p.5.
[vi]
E. De Martino, Panorami e spedizioni, Torino 2002, p.93.
[vii]
Archivio di Stato di Cremona, Fondo Manicomio Provinciale di Cremona,
1915: b. 100, 101, 102; 1916: bb.105, 106, 107, 1917: bb.110, 111,
112, 113; 1918: bb117, 118, 119, 120. I disegni di Ettore Pecci sono
pubblicati con l’autorizzazione della Direzione dello stesso archivio.
Le fotografie sono di Yehia Abed & Silvia Manente©.
[viii]
A. Scartabellati, L’umanità inutile. La questione follia in Italia
ed il caso del Manicomio Provinciale di Cremona, Milano 2001.
[ix]
Questi i dati relativi agli ingressi dei soldati durante il conflitto:
[x]
Rivela una nota del Presidente della Deputazione Provinciale
conservata in Archivio di Stato di Cremona, Deputazione Provinciale, b.266:
“24 giugno 1918 N°.2344 SIG. PRESIDENTE DEL MANICOMIO DI S. LAZZARO
REGGIO EMILIA (…) Il Manicomio medesimo, aperto nel 1890, fu costruito
per accogliere dai 200 ai 250 pazzi, ma normalmente ne ricovera circa
400, ivi compresi i 30 all’incirca dei quali è capace il comparto
d’osservazione, recentemente costruito. Attualmente però, il Manicomio
ricovera complessivamente 530 pazzi, in via affatto straordinaria, per
l’avvenuto accoglimento di 120 pazzi inviati dai Manicomi Veneti ai
primi di Novembre del 1917, in seguito agli avvenimenti militari di
quei giorni. Con perfetta osservanza IL PRESIDENTE”.
[xi]
A. Tamburini, G. Antonini, G. C. Ferrari, L’assistenza agli
alienati in Italia e nelle varie nazioni, Torino 1918, pp.670-75.
Inoltre: A. Scartabellati: Organizzazione psichiatrica militare ed
organizzazione psichiatrica bellica (1911-1919), in
Intellettuali nel conflitto. Alienisti e patologie attraverso la
Grande guerra (1909-1921), Bagnaria Arsa (UD) - Urbino 2003, pp.63-80.
[xii]
E.Morselli, recensione a F.Boucherot, Des maladies mentales dans L’Armée
en temps de Guerre, in “Quaderni di Psichiatria”, IV, 1917, p.62.
[xiii]
Traggo l’espressione da M. Galzigna, H. Terzina, L’archivio della
follia, Venezia 1980.
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