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 LEGGERE LA FOLLIA IN GUERRA

1915 – 1918

Con illustrazioni originali di Ettore Pecci e un profilo

del  65° Reggimento di Fanteria


di Andrea Scartabellati
 

 

Foto tratta dalla Sezione Fotografica 65° Fanteria

Scultore R. Monti

 

 

 

            

 

 

1 – Frammenti e testimonianze dalle carte manicomiali

 

«… so bene quale grande indifferenza incontra oggigiorno un racconto del genere. Accetto di buon grado il destino di essere dimenticato, ma non quello di diventare il narratore del dimenticato».

 

Joseph Roth, La Cripta dei Cappuccini

 

 

 

Leggere la guerra attraverso il manicomio. Osservare e comprendere un lato del fenomeno vasto e articolato del conflitto italiano al di fuori dei comuni canoni storiografici[i] non affrontandolo in campo aperto, bensì scegliendo di percorrere una via minima che, attraverso la riscoperta delle centinaia di testimonianze della e sulla vita dei soldati alienati (o creduti tali), spinga il lettore ad assumere una peculiare prospettiva. Quella della chiusura dietro le apparentemente impenetrabili mura di un manicomio per inseguire un duplice obiettivo:

1 - per spiarvi in incognito all’interno, decifrando l’attitudine epistemologica di una scienza medica sorpresa dai fenomeni patologici bellici[ii] e prona in una routine terapeutica, polarizzata tra assistenza e disciplinamento intimidatorio, suscitatrice della resistenza ostinata quanto inattesa dei ricoverati alle dinamiche dell’istituzionalizzazione;

2 - per osservarvi in controluce, da un’irrituale collocazione, le vicende complessive di una società nazionale[iii] e di una cultura medico-giuridico-militare governata, nello stato d’eccezione della guerra[iv], da imperativi diversi quali non la ricerca del benessere[v] di coloro che, nel mondo, «stanno (…) scritti nel libro degli spersi»[vi].

Come archeologi del tempo, è questo l’itinerario di rinvenimento della memoria bellica che invito il lettore a compiere fino all’ultimo rigo, scorrendo le carte tratte dallo spoglio delle cartelle cliniche dei combattenti ricoverati nel Manicomio Provinciale di Cremona tra 1915 e 1918[vii].

Un manicomio, quello cremonese, per storia, dimensioni e peso di relativa importanza nell’asset istituzionale italiano[viii]. Non di meno, un manicomio la cui circoscritta e periferica vicenda se sottovalutata o peggio ascritta ad una storia di mero interesse locale, indurrebbe a commettere un clamoroso errore di strabismo storiografico. E per almeno due ragioni.

Innanzi tutto, la guerra guerreggiata alla frontiera orientale pose l’asilo padano in una posizione di rilevanza, a suo modo, geostrategica per i comandi della sanità in grigioverde: prossima alla linea del fuoco, ma abbastanza discosta per non subirne il quotidiano allarme. Nel contesto della mobilitazione totale delle energie nazionali, e soprattutto tra i primi giorni del 1917 e gli ultimi del 1918[ix], con accelerata intensità dopo la debacle di Caporetto, il manicomio cremonese assunse funzioni di terminale, discutibilmente efficiente[x], di una catena di rimontaggio dei soldati/macchine da combattimento che aveva lo stadio iniziale nei posti di medicazione della sanità militare nelle trincee e, attraverso gli ospedaletti da campo e gli ospedali territoriali, risaliva agli ospedali psichiatrici civili[xi]. Ultima tappa per l’alienato militare ma, pure per il miraggio di ufficiali e medici circa il rapido ristabilimento del degente ed il suo pronto riutilizzo nei lavori della guerra – riutilizzo che, a rigore, ove ritardasse, doveva sancire il definitivo internamento asilare del militare in oggetto, vieppiù inutile alle fatiche della gran causa patriottica secondo l’autorevole opinione di Enrico Morselli[xii].

In seconda battuta, lungo un versante solo sfiorato dalla storiografia italiana in materia, l’esperienza cremonese non può essere trascurata poiché se la categoria della nazionalizzazione delle masse – puntualmente rievocata a proposito dell’età 1915-18 – ha un riscontro, essa lo acquista anche nella mole d’indizi e materiali custoditi nelle cartelle cliniche di un manicomio urbano medio quale quello della città padana.

Scandita, passo dopo passo e giorno dopo giorno per oltre tre anni, dalle comunicazioni reciproche intercorse, attraverso il baricentro manicomiale, tra psichiatri, medici, sindaci, deputati provinciali, funzionari prefettizi, questurini, giudici e familiari dei ricoverati delle città e province di Napoli, Chieti, Catanzaro, Sassari, Nola, Udine, Benevento, Como, Caserta, Lucca, L’Aquila, Verona, Treviso, Pesaro, Brescia, Pisa, Avellino, Taranto, Reggio Emilia, Mantova, Milano, Parma, Genova, Ravenna, Lodi, Catania, Reggio Calabria, Roma, Vicenza, Bergamo, Modena Foggia, Padova, Firenze, Bologna, Caltanisetta, Voghera, Messina, Pistoia, Porto Maurizio, Teramo, Alessandria, Pavia, Livorno, Lecce, Bari, Venezia, la non comune abbondanza del malloppo archivistico rivela, in corso d’opera e concretamente, il processo di formazione di una società nazionale relativamente coesa ed in grado di far dialogare le proprie numerose componenti. Anche l’istituzione manicomiale, insomma ed ab assurdum, generando il via vai di lettere, telegrammi, perizie e ordinanze tra differenti burocrazie di cui si è detto, oppure attirando a Cremona decine di familiari ansiosi di ritrovare congiunti dei quali s’era spesso persa traccia per mesi, s’incaricò di portare un piccolo tassello al più complesso corso della partecipazione burocratica statuale delle masse italiane. Un’inclusione passiva la quale, soprattutto per i parenti dei soldati meridionali – la maggioranza ricoverata – equivalse non da ultimo e con segno ben lungi dal voyage en Italie di aristocratica memoria alla scoperta concreta del Paese chiamato Italia, e alla percezione di un senso d’appartenenza transregionale.

 Nel cabotaggio della documentazione, i materiali, i frammenti discorsivi ed i frantumi biografici di 150 uomini strappati alla routine quotidiana di campagne, botteghe artigiane e fabbriche dall’incorporazione nell’esercito prima e, dalla guerra poi, non solo e non esclusivamente sono ascrivibili ad un Io narrante psichiatrico.

L’archivio della follia[xiii] porta il lettore a diretto contatto con una tipologia almeno triplice di fonti: medico-psichiatriche, giuridico-amministrative e testimonianze personali – di soldati, mogli, madri e padri –, accomunate tutte sia dall’originalità di un linguaggio immediato avulso dalla pratica della metaforizzazione (e metamorfizzazione…) delle miserie della guerra, sia dalla capacità di ritrasmettere, in quanto microcosmi strutturati, idee, sensibilità e pratiche riguardo le malattie mentali sedimentate da secoli e condivise da un panorama socio-culturale trascendente il circoscritto spazio antropologico cremonese.


 

NOTE:

[i] E’ sorprendente come anche tra la più accredita storiografia internazionale, per norma citata regolarmente in volumi e conferenze, sia in larga parte assente il confronto diretto con l’esperienza personale dei combattenti o militari ricoverati, essendo di norma privilegiato l’approfondimento del discorso medico e psichiatrico. Una valida eccezione all’interno di un tale panorama è B. Bianchi, La follia e la fuga, Roma 2001.

[ii] Scrive nel proprio diario di guerra il capitano medico Gregorio Soldani: “31 maggio 1916. Romans d’Isonzo, Zona di guerra. Ho nel reparto un caso strano di psicosi. Si tratta di un bersagliere che fu incaricato di seppellire i resti di alcuni soldati austriaci, fatti saltare da una nostra mina sul Carso. Di un tratto, terrorizzato dal macabro spettacolo, rimase come in catalessi con un arto nemico in mano. Da quel momento non parla più. Ha continue scosse e sussulti. Si fissa nel vuoto come se vedesse qualcosa di pauroso, e facendo poi un salto si nasconde sotto le coperte del letto. Lo manderò al manicomio di San Giorgio di Nogaro”; in Dal fronte del sangue e della pietà, Gaspari, Udine 2000, p. 95.

[iii] Per uno sguardo d’insieme, riassuntivo ed esaustivo, cfr. G. Procacci, La società come una caserma. La svolta repressiva degli anni di guerra, in B. Bianchi, a cura di, La violenza contro la popolazione civile nella Grande guerra. Deportati, profughi internati, Milano 2006, pp. 283-301.

[iv] Sul tema, le diverse osservazioni di G. Agamben, Stato di eccezione, Torino 2003, e J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano 2005.

[v] D. De Salvia, A. Rolle, Presentazione in F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Pistoia 1984, p.5.

[vi] E. De Martino, Panorami e spedizioni, Torino 2002, p.93.

[vii] Archivio di Stato di Cremona, Fondo Manicomio Provinciale di Cremona, 1915: b. 100, 101, 102; 1916: bb.105, 106, 107, 1917: bb.110, 111, 112, 113; 1918: bb117, 118, 119, 120. I disegni di Ettore Pecci sono pubblicati con l’autorizzazione della Direzione dello stesso archivio. Le fotografie sono di Yehia Abed & Silvia Manente©.

[viii] A. Scartabellati, L’umanità inutile. La questione follia in Italia ed il caso del Manicomio Provinciale di Cremona, Milano 2001.

[ix] Questi i dati relativi agli ingressi dei soldati durante il conflitto:

 

[x] Rivela una nota del Presidente della Deputazione Provinciale conservata in Archivio di Stato di Cremona, Deputazione Provinciale, b.266: “24 giugno 1918 N°.2344 SIG. PRESIDENTE DEL MANICOMIO DI S. LAZZARO REGGIO EMILIA (…) Il Manicomio medesimo, aperto nel 1890, fu costruito per accogliere dai 200 ai 250 pazzi, ma normalmente ne ricovera circa 400, ivi compresi i 30 all’incirca dei quali è capace il comparto d’osservazione, recentemente costruito. Attualmente però, il Manicomio ricovera complessivamente 530 pazzi, in via affatto straordinaria, per l’avvenuto accoglimento di 120 pazzi inviati dai Manicomi Veneti ai primi di Novembre del 1917, in seguito agli avvenimenti militari di quei giorni. Con perfetta osservanza IL PRESIDENTE”.

[xi] A. Tamburini, G. Antonini, G. C. Ferrari, L’assistenza agli alienati in Italia e nelle varie nazioni, Torino 1918, pp.670-75. Inoltre: A. Scartabellati: Organizzazione psichiatrica militare ed organizzazione psichiatrica bellica (1911-1919), in Intellettuali nel conflitto. Alienisti e patologie attraverso la Grande guerra (1909-1921), Bagnaria Arsa (UD) - Urbino 2003, pp.63-80.

[xii] E.Morselli, recensione a F.Boucherot, Des maladies mentales dans L’Armée en temps de Guerre, in “Quaderni di Psichiatria”, IV, 1917, p.62.

[xiii] Traggo l’espressione da M. Galzigna, H. Terzina, L’archivio della follia, Venezia 1980.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

    

 

 

 
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