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Dalla mostra "La creazione ansiosa da Picasso a Bacon": M.Manzelli, "S" (2000)

"SOCIOLOGIA QUALITATIVA,ETNOGRAFIA E TRANSESSUALITA': Il caso di Rita"

              di Teresa Legrottaglie

              

Recensioni bibliografiche 2003

Tesi di laurea in Scienze dell'Educazione- Università di Lecce

Teresa Legrottaglie è Assistente Sociale presso il Dipartimento di Salute Mentale dell'A.S.L. BR/1 . Brindisi
Recensioni dalla stampa 2003
          Rivista Frenis Zero

TESI DI LAUREA

 

 

SOCIOLOGIA QUALITATIVA, ETNOGRAFIA E TRANSESSUALITA’: IL CASO DI RITA.

 

 

 

PREMESSA

 

Fare la tesi non è per me la prima esperienza. Ho già fatto una tesi, oltre venti anni fa ( nel 1976) a conclusione del mio corso di studi per conseguire il diploma di  Assistente  Sociale. Titolo della tesi di allora era. “LA FAMIGLIA. UNA ISTITUZIONE RITENUTA BASILARE NELLA NOSTRA SOCIETA’.” Questa tesi mi è costata la lettura di molti libri ed ore e ore di studio per scoprire alla fine che molte  parti dei vari libri erano ridondanti, molti libri erano superati e che ciò che in definitiva avevo imparato si poteva racchiudere in non più di due libri. In quella tesi c’erano solo due piccole riflessioni mie, , il resto era soltanto il risultato di cose dette da altri. Inutile dire che le mie riflessioni passarono totalmente inosservate. Risultato di tanto lavoro  fu  una  profonda  nausea  e  per

quanto avevo fatto e per il lavoro di tesi in generale. Ricordo  che  dopo  averla  battuta  a  macchina,  riletta 

ricorretta per l’ennesima volta, consegnata in segreteria, non riuscii a rileggerla neanche il giorno prima di andarla a discuterla. Né l’ho più  riletta, giace in uno scatolone, nel garage, da quel lontano 1976. Seppure tentata, neanche ora ho avuto il coraggio di andarla a riprendere tanto è forte il senso di nausea che provo ancora. Avevo lavorato tanto ma dalle domande e dalle considerazioni fatte dai docenti mi resi conto che la mia tesi era stata oggetto solo di una lettura superficiale e distratta.

Mi rendo conto che , tranne alcune eccezioni, la tesi fatta da uno studente, che ha sì terminato un corso di studi, ma che ancora ha tanto da imparare, sperimentare, vivere, non può dire niente di nuovo, di originale. Nella migliore delle ipotesi può essere un componimento garbato, ragionato, corretto, su temi approfonditi  e studiati da altri “pensatori” di cui si riporta più o meno correttamente un

pensiero,  un’impostazione. Un componimento più simile  alla prosa di una poesia, fatta da altri, che ad una poesia, magari non bella, ma almeno espressione di ciò che si ha dentro. Oggi non riuscirei più a fare una tesi così impostata. Cioè non riuscirei più a trattare un argomento solo alla luce di quanto è stato detto da altri, guardando la situazione con gli occhi di  altri. Non voglio dire che la mia tesi sarà un prodotto originale, che dirò cose mai dette scavalcando tutto e tutti. So bene che ho ancora molto da imparare, da capire. Molte cose, del mondo, della vita, di me stessa mi sono sconosciute e inafferrabili, ma è proprio questa la mia scommessa: cercare di afferrare ciò che mi sfugge sapendo che ci sono cose che mi sfuggono di cui non ho neanche una chiara consapevolezza ma vaghe intuizioni.

Quando decisi di iscrivermi all’università avevo quarantuno anni. Lavoravo, (Assistente Sociale) ero e sono di ruolo da circa venti anni, avevo ed ho una famiglia (un marito e due figli), una casa, un’esistenza tranquilla e ordinata. La laurea non mi serviva quindi per trovare lavoro, per riempire un tempo, un’esistenza vuota, né per fare carriera ( non ho le “giuste qualità”).

Questa mia decisione sorprese un po’ tutti e tutti mi chiedevano “perché?” Io rispondevo dicendo che studiare mi piace, che avevo interrotto gli studi perché il mio ruolo di moglie, di madre e di lavoratrice non mi aveva permesso di poter conciliare questi impegni con quello dello studio. (Un rapporto coniugale da consolidare,  dei figli da crescere). La gente faceva una faccia perplessa e pensava che non la raccontavo giusta, che dovevo avere qualche motivo recondito, che c’era qualcosa di più. E qualcosa di più c’era solo che non sapevo neanche spiegarlo a me stessa. Questo qualcosa venne fuori durante una discussione con mia madre. Mia madre, quando seppe che volevo iscrivermi all’università, si preoccupò molto. Io per lei sono rimasta la bambina fragile, di salute cagionevole che ero tantissimi anni fa (anche se sono cresciuta e non mi ammalo più) per cui come avrei potuto  conciliare il ruolo di moglie, madre, lavoratrice e studentessa? Di certo mi sarei ammalata nuovo. Durante questa discussione mia madre continuava a chiedermi ripetutamente perché volessi iscrivermi all’università, io cercavo di spiegare a lei quello che avevo spiegato agli altri ma non le bastava per cui continuava a chiedere “perché?” Fu allora che arrabbiata (perché lei non voleva capire) dissi che lo facevo perché c’erano delle cose che non avevo capito e lei disperata mi chiese che cosa non avevo capito. (L’intonazione della voce, la mimica facciale, la postura del corpo, tutto sembrava dirmi :”Dillo a tua madre, ti spiego io ciò che non hai capito così non dovrai affannarti”).Le risposi: "Mamma non l’ho capito” (cioè non ho capito neanche che cos’è che non ho capito). Le parole mi erano uscite di botto, senza passare dal vaglio della riflessione e avevano sorpreso forse più me che lei. Ricordo che pensai “Oddio adesso comincerà con la storia che noi giovani siamo viziati, che non sappiamo cosa vogliamo ecc. Invece dopo essere stata sorpresa da me stessa, fui sorpresa anche da mia madre la quale non rispose subito, riflettè un momento e poi disse:” Mah! Tu sei stata sempre un po’ particolare. Ricordo che da piccola non ti piacevano le bambole, i giocattoli ma i libri anche se non sapevi leggere".

Al termine di questo mio corso di laurea non ho risolto i miei problemi (né  pensavo di risolverli) ho solo un’idea meno vaga e nebulosa  di ciò che vado cercando e certamente non ho niente di nuovo da dire, nessuna teoria nuova, né acute e strabilianti riflessioni. Mi sarebbe piaciuto perciò terminare il corso di laurea in sordina senza la tesi finale. Questo però non è possibile la tesi bisogna farla e allora, dato che si deve farla, la voglio fare a modo mio. Cercherò perciò di trattare il tema scelto non in maniera distaccata, obiettiva, asettica ma in modo coinvolgente, personale con considerazioni e digressioni che permettano di raccontare due storie. Quella di Rita, l’essere umano, “la ragazza transessuale” e la mia, l’essere umano, la ”studentessa, l’assistente sociale” che vuol coniugare quanto appreso dai libri, con quanto appreso dall’esperienza di vita in generale, con quanto appreso da Rita. Probabilmente vi annoierò ugualmente (cioè allo stesso modo di come vi avrei annoiati se facessi una tesi   non costretta a ripetere, riassumere quanto detto dagli altri. Non voglio fare infatti un bel riassunto ma un racconto e anche se non sarà un bel racconto (non sono brava a scrivere, non mi piace scrivere. Scrivere mi fa constatare l’imperfezione della persona: il pensiero è veloce capace di volare nello spazio e nel tempo in tempi brevissimi, fa connessioni apparentemente assurde, è capace di far provare emozioni molto profonde. La parola scritta è lenta, non sempre riesce ad esprimere il pensiero, i sentimenti, le emozioni con la stessa profondità con cui le viviamo) sarà un racconto autentico. Autentico sta per vero dove vero non sta per VERITA’ in senso assoluto ma per la mia verità.

Tutto il lavoro sarà articolato in due parti. Nella prima parte esporrò i paradigmi teorici di riferimento. Ritengo opportuno infatti, prima di iniziare a trattare il caso di Rita (che sarà la seconda parte della tesi) esplicitare gli orientamenti teorici che hanno guidato questa mia ricerca. A qualcuno la trattazione di questa prima parte potrà sembrare molto lunga e inutile.( Potevo riassumerla in poche righe.) Per me invece è importante in quanto, consapevole che una stessa    storia può essere raccontata da diversi punti di vista, tutti ugualmente veritieri  ma che pure possono dare una visione diversa della realtà che si sta trattando, l’esplicitare gli orientamenti teorici e quindi il proprio punto di vista, serve a rendere più comprensibile la storia che si va raccontando.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PARTE PRIMA

Paradigmi teorici di riferimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO PRIMO

La metodologia: Sociologia quantitativa o qualitativa?

 

Il bisogno di capire, spiegare i fatti, ciò che succede in noi, fuori di noi, nel “mondo”, nella “ realtà sociale” credo che lo si possa definire un bisogno fondamentale dell’uomo al pari del bisogno di mangiare, respirare ecc. E’ logico ritenere quindi che anche l’uomo primitivo avesse tale bisogno e che cercasse di dare un senso alle “cose”: ciò gli era indispensabile per la sopravvivenza. Nel fare ciò non si poneva certo il problema se usare un metodo qualitativo o quantitativo, un metodo storico, sperimentale o etnografico. Molto probabilmente, seppure in forma “primitiva”, “inconsapevole”, li usava tutti (naturalmente non contemporaneamente ma a seconda delle circostanze). Nel corso della storia il pensiero dell’uomo si è sempre più formalizzato, specificato, dando origine a teorie e discipline. (La sociologia per esempio la si fa iniziare con Comte, nel XIX secolo ma una riflessione sociologica non la si può datare, nasce con l’uomo).

Per Lapassade possiamo distinguere la sociologia, così come si è formalizzata fino ai nostri tempi, in “due tendenze fondamentali: una normativa, alla quale appartengono Durkheim, Parson, le scuole marxiste ed un certo Habermas, e un’altra tendenza interpretativa, nella quale possono rientrare Weber, Simmel  e alcuni teorici indipendenti come Goffmann, oltre alle correnti della sociologia qualitativa. (…) La sociologia normativa considera l’individuo come un prodotto della società, nel senso che gli uomini dipendono dalle  regole dei sistemi economici e politici, dei sistemi culturali, di valore e di verità; mentre per la sociologia interpretativa le forme sociali sono espressioni degli individui, nel senso che le norme sociali sono sempre problematiche e che i sistemi di verità sono continuamente messi in discussione.” ( 1) Questa opposizione sottolinea una distinzione fondamentale tra gli studiosi della società: da una parte coloro che considerano la società come una realtà oggettiva e determinante per cui si occupano dei grandi sistemi sociali, macro-determinismi (che non vuol dire ignorare le interazioni ma subordinarle ai meccanismi sociali); dall’altra quelli che considerano la società un problema aperto e insolubile. (Dal Lago, 1987). In quest’ottica acquista importanza il microsociale cioè i livelli elementari “dell’interazione sociale nell’ambito della vita quotidiana.”(2) In conclusione la sociologia quantitativa “trasforma delle osservazioni qualitative in cifre; essa conta e misura queste “cose” che sono le attività e i discorsi degli individui, dei gruppi, delle società intere, e si sforza di tradurre il tutto in un protocollo linguistico di tipo disciplinare (…) Per i sociologi detti positivisti la sociologia ha prioritariamente il compito di istruirsi come scienza in grado di esibire immediatamente i segni della propria scientificità; tra questi segni, la quantità occupa un posto importante” .(3) La sociologia qualitativa invece ponendo attenzione al microsociale non privilegia più le quantità, i dati statistici, ma le storie di vita, i casi particolari ecco che allora acquistano importanza i diari, i resoconti dei soggetti, l’osservazione partecipante del ricercatore ecc. Etimologicamente metodologia deriva dal greco metà hodòs e indica la marcia dietro a, il recarsi in mezzo a, la ricerca di qualcosa verso una direzione, una meta. 

La ricerca che qui ci si appresta ad illustrare si inserisce nell’ambito della sociologia qualitativa e più precisamente nel paradigma teoretico dell’etnometodologia. Infatti se è vero che qualitativo e  quantitativo possono trovare spazi specifici e complementari, in equilibrio tra loro, se è vero che la fase positivistica e quella idealista sono tramontate nella loro assoluta parzialità, è anche vero che essendo la realtà così complessa e diversificata, bisogna fare una scelta di campo, esplicitare il punto di vista adottato per un discorso di onestà e comprensibilità, nella convinzione che non esista una realtà, una verità oggettiva e assoluta ma che ogni punto di vista permette di focalizzare un determinato aspetto della realtà in cui viviamo.

 

 

 

 

                                

 

 

 

CAPITOLO SECONDO

L’ETNOMETODOLOGIA

 

Il termine etnometodologia è stato coniato da Harold Garfinkel, sociologo americano fondatore di tale corrente sociologica, per designare lo studio degli etnometodi cioè di quelle micropratiche locali e contestuali che gli attori sociali mettono in atto nel mondo della vita quotidiana per creare e sostenere l’atteggiamento “naturale” nel senso fenomenologico del termine. (Per “metodi” infatti non si devono intendere le sequenze o le procedure da osservare per raggiungere un risultato.) Storicamente gli antecedenti teorici li troviamo nella corrente fenomenologica e in particolare nel pensiero di Husserl e di A.Schutz.

La fenomenologia ha messo in evidenza che il senso della realtà è strutturato, attivamente, dalle funzioni intenzionali e dal lavoro costitutivo della coscienza. Il soggetto però non si rende conto che l’oggettività del mondo quale esso gli appare è prodotto da lui. Scrive Husserl(v.,1950; tr.it.pp.170-171), “la vita pratica quotidiana è ingenua, perché consiste nell’avere esperienze, nel pensare nel valutare e nell’agire al di dentro del mondo come già dato. Qui si compiono in maniera anonima tutti gli atti intenzionali dell’esperienza per le quali le cose vengono ad esserci; colui che fa l’esperienza non sa nulla di questi, come niente sa dell’attività del pensiero.” L'analisi fenomenologica quindi si propone di studiare  quest’attività “nascosta”, di identificare le strutture essenziali della coscienza, le procedure, i meccanismi per mezzo dei quali essa costituisce le “cose” come reali e oggettivamente date. Nelle scienze umane la prospettiva fenomenologica ha dato origine a due principali direzioni di studi. La prima è costituita da una psicologia orientata fenomenologicamente. Qui si può far riferimenti a studiosi come Maurice Merleau-Pontj e Aron Guerwitsche e si possono trovare significative convergenze con la psicologia sociale di matrice pragmatista e con la psicologia della Gestalt, oltre che con alcune correnti della psicologia cognitiva. La seconda, perseguita principalmente da Alfred Schutz è quella della fenomenologia sociale. Essa parte dal concetto, sviluppato tardivamente da Husserl, di LEBENSWELT, cioè dal mondo della vita quotidiana, dall’esperienza vissuta, dagli eventi e dalle istituzioni mondani che gli attori sociali, senza esserne consci, incessantemente costituiscono e ricostituiscono, analizzando i rapporti tra essi e la coscienza. Schutz parte dalla discontinuità che di fatto troviamo tra il mondo della vita quotidiana e il mondo della scienza. Esse sono due distinte “provincie finite di significato” cioè due diverse realtà prodotte da due specifici atteggiamenti o stili cognitivi. La sfera della vita quotidiana è caratterizzata da un atteggiamento naturale in cui prevale un punto di vista pragmatico. Il mondo è visto come oggettivamente data. Tale atteggiamento è caratterizzato dall'assenza di ogni dubbio che esso possa essere diverso da come appare. Nel mondo della scienza l’atteggiamento teorico-scientifico è diametralmente opposto. Non c’è l’atteggiamento pragmatico (gli scopi pratici della vita quotidiana sono messi tra parentesi dallo studioso). Anche il sé che si teorizza, dice Schutz, è solitario, non ha alcun contenuto sociale, sta fuori dai rapporti sociali. Infine l’atteggiamento teorico non assume niente come certo se prima non è stato oggetto di analisi, cioè è aperto ad un dubbio sistematico. Nel mondo della vita quotidiana quindi la conoscenza di senso comune è una conoscenza tipologica che implica una continua attività di “aggiustamento” aperta a mutamenti ed elaborazioni legate a contingenze pratiche che gli attori incontrano. Schutz, analizzando il problema dell’intersoggettività, evidenzia come gli attori sociali non fanno mai esperienze identiche, sia perché occupando differenti posizioni spaziali informano differentemente le loro percezioni, sia perché hanno biografie, posizioni sociali, motivazioni diverse. Nonostante ciò nell’ambito dell’atteggiamento naturale l’intersoggettività è un fenomeno che viene dato per scontato grazie a due operazioni che gli attori sociali compiono: 1) ‘idealizzazione dell’interscambiabilità dei punti di vista; 2) l’idealizzazione della congruenza dei sistemi di rilevanza. Il contrasto tra punto di vista dell’osservatore e quello dell’attore sociale, tra scienza e vita quotidiana comporta importanti implicazioni per il concetto di razionalità. Per la scienza un’azione è razionale se persegue fini possibili con mezzi adatti. L’applicazione di questo modello alla vita quotidiana per Schutz è fuorviante primo perché la conoscenza ,nel mondo della vita quotidiana, è approssimativa e ad hoc (risponde agli interessi pratici degli attori);secondo perché prima di scegliere una linea di condotta, di prendere una decisione, l'attore sociale non esplora sistematicamente tutte le possibili alternative (pratica questa che sarebbe necessaria per ottemperare all’imperativo dell’ottimizzazione nella scelta dei mezzi). Nella vita quotidiana quindi la razionalità oscilla tra la perfetta razionalità scientifica e la completa irrazionalità ma le azioni vengono considerate dai soggetti come azioni evidentemente ragionevoli. Schutz sottolinea inoltre come la razionalità quotidiana è una fondamentale proprietà organizzativa della vita sociale perché è in base ad essa che i soggetti scelgono e giustificano le loro azioni, quindi va analizzata in quanto tale, non come una forma degradata della razionalità scientifica massimizzante. "Siamo tutti, scrive Schutz sin dal 1932, sociologi   allo stato pratico".

Alla luce di quanto sopra sommariamente esposto possiamo comprendere come l'etnometodologia, cerchi di assumere, come argomenti di indagine empirica le attività pratiche, il ragionamento sociologico pratico, attribuendo alle attività più ordinarie della vita quotidiana quell'attenzione che in genere è accordata agli eventi straordinari. La tesi fondamentale è che le attività , attraverso cui i membri della società producono e gestiscono situazioni di relazioni quotidiane organizzate, sono identiche ai procedimenti usati dai membri per renderle "spiegabili" (accunt-able) . Le pratiche di accuntability sono caratterizzate dalla riflessività e dalla indicalità.

INDICALITA'

Garfinkel ricava il termine di indicalità da Bar Hillel  che lo utilizzava in una accezione linguistica ristretta, facendo cioè riferimento a termini deittici come "qui" "ora" "questo" "ciò" che hanno significato solo se riferiti ad un contesto. Per esempio se si dice che "qui fa molto caldo" solo le persone presenti possono comprendere che si sta parlando di quel luogo determinato, per chi non è presente bisogna specificare a cosa si riferisce il "qui" (cioè se si è su un'isola tropicale o in un'aula superaffollata dell'università).

"L'indicalità generalizzata, se è presa in maniera radicale, se la si applica ad ogni situazione scelta come oggetto di analisi, conduce ad un localismo radicale e limita ogni pratica d'inchiesta all'attitudine monografica ed etnografica (…) la presa in conto della "indicalità" radicalizza la vocazione microsociologica dell'etnosociologia. Inoltre se voglio cogliere il significato delle singole parole del linguaggio comune, proprio di un gruppo sociale, l'acquisizione della lingua attraverso un metodo razionale non potrebbe essere sufficiente: si andrebbe incontro sempre al problema della "indicalità", a meno che non si diventa membri della comunità che si intende studiare. (…) Ciò porta all'osservazione partecipante "completa".  (4)

RIFLESSIVITA'

Si può spiegare il tema della riflessività partendo da quello che Garfinkel,sulla scorta di Karl Mannheim, chiama "metodo documentario dell'interpretazione". E' questo un processo interpretativo in cui ogni particolare concreto è trattato come un "documento"di una configurazione sottostante, come qualcosa che rimanda ad essa. Questa circolarità riflessiva tra parte e tutto non è ignota alla riflessione metodologica nel settore delle scienze umane. Per esempio nelle teorie della psicologia della Gestalt si ha che ogni elemento della struttura e la struttura come totalità si producono e si determinano reciprocamente: "Il colore che vedo sulla copertina di questo libro posto su questo tavolo è determinato localmente dal suo contesto di luce e di colorazione ed è la dimensione "indicale" dell'attività riflessiva; nello stesso tempo, lo stesso colore contribuisce a produrre lo stesso contesto di colorazione e di luce. Gli oggetti insieme costituiscono il "fondo" nel quale ognuno di essi emerge singolarmente nell'attività percettiva. Tale attività, dunque, costituisce il rapporto riflessivo tra l'insieme e le sue parti." (5) dire quindi che l'azione è riflessiva significa dire che in ogni momento del suo svolgersi essa costituisce il senso del contesto in cui si dispiega ed è a sua volta costituita da esso. Lo studio del metodo documentario di interpretazione che K. Mannheim ha limitato alle procedure della sociologia professionale, è stato generalizzato da Garfinkel alle procedure della sociologia profana. (Celebre a questo proposito è l'esperimento che Garfinkel fece  con dieci studenti universitari ai quali fu detto che dovevano partecipare ad una ricerca sulla psicoterapia. In realtà i soggetti dell'esperimento incontrarono un collaboratore di Garfinkele non uno psicoterapeuta. Gli studenti dovevano porre allo psicoterapeuta fittizio un loro problema. Il terapeuta poteva rispondere solo con un "si" o con un "no" per cui le domande dovevano essere opportunamente formulate. Le risposte del terapeuta, cioè le sequenze di si e no, esano state precedentemente stabilite a caso eppure questa erano percepite, dagli studenti, come "risposte alle domande" e producevano nuove domande. Alcune risposte furono assunte come risolutive di domande, quelle incongrue erano risolte attribuendo particolari intenzioni al consigliere o un buon livello di conoscenza).

Indicalità e riflessività sono indissolubili. Se si descrive una situazione si contribuisce alla costituzione della situazione che si sta descrivendo. Non esiste un enunciato il cui senso possa essere compreso transituazionalmente, indipendentemente dal contesto. Anche un enunciato rivolto ad una comunità scientifica ed espresso con chiarezza, come la celebre frase di Durkeim "La realtà oggettiva dei fatti sociali è il fondamentale principio della sociologia" è aperta  a molte interpretazioni. Infatti "A secondo delle occasioni può essere interpretata da un gruppo di sociologi come una definizione dell'attività dei membri dell'associazione di sociologia, come il loro slogan, come il loro compito, come un'importante realizzazione, come una giustificazione, come una scoperta, come un fenomeno sociale o come una costruzione sul loro lavoro di ricerca." (6)

All'interno dell'atteggiamento naturale riflessività ed indicalità sono fenomeni privi di interesse, le proprietà riflessive dell'azione non sono neppure notate  a meno che non vengono evidenziate con l'aiuto di esperimenti di rottura. Garfinkel per esempio utilizza il" metodo del breaking"   che consiste nella rottura delle "routines" in tal modo esse vengono rese visibili. La ragione che spinge lo studioso ad adottare tale metodo è che le "operazioni necessarie per produrre (…) un'interazione anomica e disorganizzata dovrebbero dirci qualcosa su come le strutture sociali sono ordinariamente mantenute". (7) Uno dei tanti esperimenti condotti dallo studioso consisteva nel violare le regole di un gioco -il 

ticktacktoe - senza che lo sperimentatore spiegasse cosa stesse facendo. Lo scopo era di vedere se la trasgressione delle regole provocava sentimenti di confusione e anomia tra i soggetti dell'esperimento. I risultati furono interessanti. In primo luogo la trasgressione delle regole induceva i soggetti a ricorrere a tentativi di "normalizzazione" cioè di "aggiustamenti" delle regole agli eventi. Tale aggiustamento, necessario per mantenere un senso del mondo in comune, era reso possibile dal fatto che ogni regola comporta una clausola aggiuntiva quella "dell'eccetera" cioè nessuna regola o sistema di regole è completo in se stesso. Il secondo risultato notato da Garfinkel è che la percezione della stranezza di un comportamento cresceva quando un soggetto continuava a cercare di normalizzare la discrepanza tra comportamento e regole senza cambiare quadro di riferimento, anche in presenza di casi estremi di violazione.

 

 

CAPITOLO TERZO

ANALISI ISTITUZIONALE

 

 

Prima di passare alla trattazione del caso di Rita è opportuno far riferimento ad un altro paradigma teoretico: quello dell'analisi istituzionale. Dovendo descrivere la storia di Rita è doveroso precisare che qui non ci sarà “tutta” la storia di Rita o la “vera” storia di Rita ma la storia di vita di Rita così come è emersa dai rapporti che Rita intrattiene con istituzioni come la famiglia, la chiesa e in modo particolare con il dipartimento di salute mentale della A.S.L.BR/1 di cui io, in qualità di assistente sociale, che lavora nel dipartimento, rappresento l’osservatore partecipante. In questa prospettiva acquistano significato importanti concetti come quello di “istituente” ed “istituito”. Possiamo definire l’istituito come l’ordine stabilito, mentre l’istituente rappresenta l’autoproduzione di un ordine sociale cioè è l’attività che istituisce (l’istituito ne è il prodotto).” Nel 1965 Castoriadis nei suoi articoli nella rivista “Socialisme ou barbarie” sviluppava i concetti di Società istituente e Società istituita che hanno contribuito a dare all’Analisi Istituzionale un oggetto specifico e nuovo: la produzione istituente del sociale e, di conseguenza il lavoro di istituzione, nozione coniata da Claude Lefort, nel senso attivo del termine.” (8) In questo contesto quindi il termine istituzione indica sia un ordine istituito, sia il fatto di istituire un ordine. L’analisi istituzionale inoltre mette in evidenza come istituente ed istituito non riguardano esclusivamente gruppi settoriali specifici e diversi ma che tutti possiamo essere di volta in volta istituenti e istituiti. In altri termini “tali attribuzioni sono agite non solo per il ruolo o lo status soggettivi ma anche in quanto “richieste” dalle circostanze relazionali e dai contesti comunicazionali. L’attore sociale, in quanto concorre al mantenimento dell’ordine istituito, di fatto ne è l’istituente. Si può coerentemente sostenere -allora- che l’attore è sempre istituente, anche quando una tale funzione risulta occultata dallo status di un qualche suo ruolo sociale, in quanto così facendo concorre –comunque- a mantenere l’ordine istituito, e dunque egli è sempre l’istituente dell’istituito.” (9)

 

 

 

APPENDICE ALLA PRIMA PARTE

 

Fin qui una esposizione formale, canonica di quella che ritengo debba essere un’introduzione ad una tesi di ricerca. Ho studiato infatti che quando ci si approccia ad illustrare una ricerca è buona regola far riferimento ai fondamenti teorici che legittimano una ricerca, al paradigma teoretico di riferimento. Era mia intenzione quindi, almeno in questa prima parte, sostenere il ruolo della studentessa “media” o “classica” e questo sia perché mi sembra giusto esplicitare la scelta di campo che si fa e perché la si fa. (Potevo trattare il tema della transessualità con una ricerca di tipo quantitativo, per esempio rilevare presso il Tribunale di Brindisi quante richiesta di conversione andro-ginoide sono pervenute negli ultimi dieci anni, contattare le varie strutture, consultori, dipartimenti di salute mentale ecc. per sapere quanti casi di questo genere si sono avuti. Rilevare età, gradi di istruzione, ceto sociale e così via... Una ricerca di tal genere non la ritengo inutile ma diversa perché ci può dire alcune cose su questa problematica che la mia ricerca non dirà), e sia perché il riferimento al paradigma teoretico fa comprendere meglio, da più senso a quello che si è fatto e che si vuole comunicare. Ho letto che Garfinkel, in una delle sue pratiche di rottura delle routines, nel corso di un dialogo, si avvicinava fino quasi a toccare la punta del naso del suo interlocutore e che questi provava un senso di fastidio, d’imbarazzo. Ritengo che il malcapitato si chiedesse anche se per caso Garfinkel fosse matto, eccentrico, strano, poi tutto acquistava senso quando lo studioso spiegava ciò che aveva fatto alla luce della sua teoria.

Man mano che procedevo nella stesura di questi capitoli mi rendevo conto di non aver detto tutto quello che voglio dire ma solo una parte. E’ vero infatti che nell’approcciarmi a trattare il tema della transessualità ho scelto l’approccio della sociologia qualitativa e che l’approccio etnometodologico mi è sembrato quello più adatto ma è anche vero che non mi sento strettamente vincolata a tale impostazione. Mentre leggevo la premessa al mio relatore ho fatto un classico lapsus freudiano: ho letto al posto della parola “digressione” (“cercherò perciò di trattare il tema scelto non in maniera distaccata (…) ma in modo coinvolgente, personale con considerazioni e digressioni…”) “disgressione”. Una parte di me, quando fa queste digressioni, si sente trasgressiva e incoerente. Da una parte infatti affermo che l’approccio etnometodologico è quello più adatto, dall’altro sento il bisogno di prendermi più spazio avvertendo che non sarò rigorosa ma che spesso introdurrò miei vissuti, stati d’animo, riflessioni. Il fatto è che in questo lavoro non mi sento una “ricercatrice”, una “sociologa” ma una studentessa che vuole trattare un tema non con una parte di sé ma con tutta se stessa non volendo mettere in epochè nessun ruolo sociale che ricopro (donna, madre, moglie, assistente sociale, studentessa) in quanto uno influenza l’altro e ne viene a sua volta influenzato. Convinta che una stessa realtà può avere letture diverse, ma non per questo tali letture debbano essere per forza oppositive, si potrebbe considerare questa mia posizione non come un allontanamento dall’impostazione etnometodologica ma come un approccio profondamente etnometodologico dato che, fra l’altro, rompo una routine (quello della tesi fatta in modo formale, distaccato ecc.)     

 

 

 

 

                                            NOTE

 

 

 

(1)  G. Lapassade, In Campo. Contributo alla sociologia qualitativa, Lecce,        Pensa Multimedia 1996,  pag.107.

(2)  G.Lapassade, op. cit. pag108.

(3)  G.Lapassade, op. cit. pag.117.

(4)  Adler, P. e Adler P., Membership roles in field research, Sage Publication, U.S.A. 1987

(5)  G.Lapassade, op. cit. pag.79.

(6)  H. Garfinkel, H.Sacksh, On formal structures of practical actionis, in Theoretical sociology (a cura di J,Mc Kinney ed E.Tiriakan), New York 1970, pp.337-338.

(7)  H.Garfinkel, A conception, of and exeriment with "trust" es a condition of stable concerted action, in Motivation and social interaction (a cura di O. J.Harvey), New Jork 1963 pag.187.

(8)  G. Lapassade, L'istituente ordinario. Contributo alle scienze dell'educazione, Lecce, Pensa Multimedia, 1997, pag.52.

(9)  G. Lapassade, op cit. pag. 7.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

 

 

IL CASO DI  RITA

 

 

 

 

CAPITOLO PRIMO

 

LA RICERCA

 

         

Nella prospettiva teorica e metodologica che orienta questa ricerca, le categorie, “figlio-figlia”, “paziente”, “malattia”, “disturbo di personalità”, “transessuale”, che si riferiscono alla pratica quotidiana di istituzioni quali la famiglia, le varie strutture della A.U.S.L. e in particolare del Dipartimento di Salute Mentale con le quali Rita entra in contatto, vanno considerate come costituite dalle pratiche degli attori sociali, in quanto impegnati in interazioni quotidiane e di routine all'interno dei vari ambiti naturali e organizzativi. Con ciò intendo dire che attraverso una descrizione etnografica della struttura sociale e delle attività del D.S.M., della famiglia ecc. esplorerò quelle pratiche che forniscono alle categorie connesse alla definizione di genere (maschio-femmina) dei concreti fondamenti organizzativi. Ho cercato cioè di elaborare le “definizioni” relative a questa problematica non come io le concepivo ma  in base alle azioni relative al loro riconoscimento, alla loro gestione e alle loro conseguenze. In questa prospettiva la “transessualità”, l’essere maschio”, l’essere “femmina” sono costituite da quel complesso di pratiche che sono svolte quando gli attori sociali impiegano questi termini nel corso delle attività quotidiane che si svolgono all’interno delle istituzioni sociali: D.S.M., il “Centro Diurno” (una struttura riabilitativa semiresidenziale che Rita frequenta abitualmente e di cui parlerò più dettagliatamente in seguito) ecc. Queste pratiche comprendono i diversi modi di ricoverare un paziente (nella corsia per maschi o per femmine?), i diversi modi di accettare e considerare tutta una serie di atteggiamenti pratici (dal camminare al vestirsi ecc.)

Il mio ruolo in questa ricerca è quello dell’osservatore partecipante.

 

2.1 L’osservazione partecipante.

L’osservazione partecipante è ritenuta un momento fondamentale dell’inchiesta etnografica. Essa consiste in una ricerca “caratterizzata da un periodo di intense interazioni sociali tra il ricercatore e i membri di un gruppo osservati nel loro ambiente di vita. Nel corso di tale periodo i dati sono raccolti sistematicamente (…). Gli osservatori si immergono totalmente nella vita quotidiana dei soggetti, condividendone le esperienze”. (Bogdan e Taylor,1975) Ciò implica in primo luogo una negoziazione di accesso al campo. Tenendo presente che nel momento in cui si inizia a negoziare l’accesso al campo si è già nel campo Peter e Patricia Adler descrivono  diversi modi di negoziare tale accesso: 1) utilizzando la mediazione di alcuni soggetti che per un loro particolare status sociale hanno il potere di far accettare il ricercatore nella realtà sociale che si vuole studiare. (Un celebre esempio è quello di Whyte il quale potette svolgere la sua ricerca nel quartiere italiano di Harvard grazie, ad un’assistente sociale di Cornerville che gli presentò il capo di una banda di giovani il quale lo introdusse sia nella banda che nell’intero quartiere); 2) utilizzando metodi tradizionali: lettere di presentazione, conversazioni telefoniche, appuntamenti per colloqui ecc.; 3)oppure attraverso la “Covert Researcher” espressione questa che si può tradurre con “osservatore nascosto o clandestino”. Il ricercatore cioè entra in un’organizzazione senza dichiarare il vero fine della sua adesione. Gold  1958 distinse “l’osservatore completo” dall’osservatore come partecipante, dal partecipante come osservatore . Adler e Adler (1987) proposero tre tipi di partecipazione e di coinvolgimento: 1) la partecipazione periferica . (Il ricercatore partecipa sufficientemente alle attività di un determinato gruppo tanto da poter essere considerato  membro senza però essere collocato al centro delle attività. Ciò gli consente sia di non essere eccessivamente coinvolto e quindi più obiettivo sia di non essere implicato in attività devianti del gruppo studiato); 2) la partecipazione attiva. (Il ricercatore ricopre un ruolo, uno status all’interno del gruppo o dell’istituzione che studia  che gli permette di partecipare attivamente alle attività come membro, mantenendo tuttavia una certa distanza); 3) la partecipazione completa (questa si può avere: a) quando il ricercatore è già membro della situazione; b) per conversione. Questa forma di partecipazione presuppone l’immersione totale per la quale si diventa membri a tutti gli effetti. Un esempio riportato da Adler e Adler è quello di Benetta Jules-Rosette che partita per studiare i Bapostolo d’Africa, si inserì talmente nella loro cultura da adottare la loro religione, essere battezzata. Raccontò poi il suo battesimo. (Jules-Rosette,1976) Per quest’ultima forma di partecipazione gli autori raccomandano di non diventare “il fenomeno che egli studia”. Alla luce di quanto esposto possiamo parlare, in linea di massima, di un osservatore partecipante esterno e di un osservatore partecipante interno. Il primo deve negoziare l’accesso al campo, effettua la sua ricerca per il tempo necessario, in genere alcuni mesi, raramente qualche anno, poi lascia il campo per redigere la sua relazione. L’osservatore partecipante interno invece fa già parte del gruppo che sarà oggetto della sua analisi. In tal gruppo cioè egli ricopre un ruolo ed uno status. Non ha bisogno di negoziare l’accesso al campo, egli è già un attore di quel gruppo. In altre parole mentre l’osservatore partecipante esterno svolge fin dall’inizio un ruolo definito di ricercatore e deve calarsi in quello di attore ( di “partecipante”), l’osservatore partecipante interno invece parte già col ruolo di attore ed a partire da ciò deve accedere al ruolo di ricercatore. E questa è esattamente la mia posizione. Io cioè ho all’interno del Dipartimento di Salute Mentale un ruolo, uno status, quello di assistente sociale, che mi consente di non dover negoziare l’accesso al campo. Lavorandovi da circa quindici anni conosco bene la struttura e gli operatori posso accedere ai documenti formali, alle pratiche formali (riunioni d’équipe, Trattamenti Sanitari Obbligatori ecc.) e informali, quest’ultime spesso più significative delle pratiche formali. Ma l’essere al tempo stesso attore di un gruppo e ricercatore, se da una parte facilita il compito, dall’altra lo complica in quanto implica problemi di distanziamento. Un professore di sociologia a Chicago, E.C. Ughes, ha parlato di “emancipazione” riferendosi a quel processo in cui il ricercatore trova “un equilibrio sottile fra il distacco e la partecipazione”. Tale “sottile equilibrio” non è certamente facile da raggiungere. Il bisogno che sento di fare alcune digressioni, per raccontare mie riflessioni, in realtà risponde proprio alle difficoltà che, fin dal primo momento, ho avvertito, nel cercare quell’ ”equilibrio sottile” di cui parla Hughes e che solo in questo momento ho con sufficiente chiarezza. Ho già detto che non mi sento una ricercatrice, una sociologa ma una studentessa cioè una che studia, che va alla ricerca di capire di più, che non è ancora sufficientemente preparata per cui non in grado di essere obiettiva come vorrebbe. Specificare i miei pensieri, i miei stati d’animo allora ha lo scopo di correggere il tiro, di avvertire il lettore che ho rilevato questa o quella determinata realtà perché io osservatore ma anche attore della medesima realtà l’ho vista in tal modo. Parlando di Rita per esempio vedremo come i membri dell’équipe del dipartimento di salute mentale pur conoscendo Rita dallo stesso numero di anni, hanno di Rita un’immagine difforme, seppure nelle sfumature, ma questa sfumature producono atteggiamenti diversi forieri, a loro volta, di costruzioni sociali diverse. (Di questo parlerò più esaurientemente nei prossimi capitoli).

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO SECONDO

 

RITA

 

Rita ovviamente non è il vero nome dell’attore sociale in questione. Ha trentasette anni, è alta un metro e novantacinque centimetri, magra, pesa circa settanta chili, ha i capelli castano scuro, ultimamente li sta schiarendo con appositi shampoo, occhi scuri, gambe lunghe e affusolate, porta la terza misura di reggiseno e sull’attuale carta d’identità alla voce "stato civile" è scritto “nubile”. Fino a qualche tempo fa però c’era scritto “celibe”. Rita infatti è nata con tutti gli attributi sessuali maschili, era un maschio. Oggi se le si chiede: ”Chi sei?” risponde: “Sono una trans”. Non sono un “maschio” o sono una “femmina” ma sono una “transessuale”. Nonostante l’operazione chirurgica, le cure ormonali, il cambio del nome sui documenti ufficiali: carta d’identità, libretto sanitario, cartella clinica, libretto bancario, Rita fondamentalmente non si sente né “maschio” né “femmina” ma una “trans”. L’essere nata in un comune di medie dimensioni (circa trentacinquemila abitanti) del sud non le ha consentito quell’anonimato, che è un presupposto necessario a chi vuole imporre un’identità sessuale diversa da quella con cui è nata. Rita ha sempre usato abiti unisex e da alcuni anni abiti prettamente femminili, rifiuta infatti categoricamente pantaloni, tute e tutto ciò che potrebbe essere anche solo lontanamente unisex. Usa tacchi a spillo, anche se è molto alta, ha capelli di media lunghezza ma il suo sogno è averli molto lunghi (perché i capelli lunghi sono molto “femminili”), si trucca, usa accessori femminili, borsetta, foulard ecc. Nonostante ciò tutti nel paese la conoscono come un transessuale. I bambini quando passa la canzonano: “Arriva Rita-Rito!” (Qui il nome scelto, spiegherò poi perché ho scelto questo nome, non si presta molto a rendere l’idea ma se per esempio avessi scelto Maria i bambini avrebbero detto: Arriva “Mario-Maria”).Per il paese cioè il nome di questa persona è contemporaneamente la sua versione femminile e maschile. Rita quando fa nuove amicizie racconta subito la sua storia e la sua transessualità. Ciò non deve trarre in inganno, non ci deve far pensare cioè che Rita è una persona molto sincera, al contrario, Rita è molto bugiarda.

2-2 RITA E LA BUGIA

Se la bugia potesse farsi carne, avere un’esistenza materiale e spirituale si sarebbe senz’altro incarnata in Rita. Rita sommerge l’interlocutore o gli interlocutori, non importa se estranei o conoscenti, se maschi o femmine, se piccoli o grandi, se acculturati e prestigiosi o analfabeti e umili, di una marea di bugie. Bugie enormi e fantasiose raccontate o meglio interpretate con garbo e coerenza tanto da convincere sempre chi l’ascolta. Rita si esprime molto bene anche se ha frequentato la scuola pubblica solo fino alla terza media. Conosce molti vocaboli, velocemente ne apprende sempre e continuamente di nuovi, ha un tono di voce e una mimica facciale tale che quando parla incanta l’interlocutore che non la conosce. Con una descrizione romanzata, fantasiosa e lacrimevole della realtà cattura l’emotività altrui, lo commuove gli fa provare una rabbia, (la sua rabbia) verso un mondo che con lei è stato particolarmente ostile e crudele. Tale rabbia Rita non la esprime chiaramente, verbalmente, accesamente preferisce invece interpretare il ruolo di vittima e di martire. L’interlocutore prova subito un moto di simpatia, di pietà nei confronti di Rita e cerca di aiutarla in tutti i modi, se non lo può fare concretamente solidarizza comunque emotivamente. Nessuno sfugge a questo sottile affascinamento di Rita. La durata di questo idillio varia da pochi mesi a più di qualche anno, a secondo del tempo in cui ci si relaziona, delle circostanze, del grado di coinvolgimento emotivo dell’interlocutore, della sua perspicacia. Quando l’altro si rende conto di essere stato una vittima delle bugie di Rita è tardi perché possa continuare un rapporto di accettazione. L’irritazione che si prova è molto forte e profonda in quanto le bugie di Rita non mirano mai ad avere soldi (ciò porterebbe l’interlocutore ad essere più guardingo) ma a rubare un sentimento di benevolenza e tutti sono pronti ad elargire sentimenti di benevolenza perché ciò fa sentire buoni e in fondo non costa nulla. Di qui prima la pronta disponibilità a solidarizzare poi l’indignazione per essere stati imbrogliati. Una volta la dottoressa del dipartimento diede a Rita una banconota di grosso taglio per comprarsi un paio di scarpe. Si era d’inverno e Rita indossava un paio di scarpe aperte da dietro, vecchie e consumate di almeno tre numeri più piccoli (calza il numero 45) e con tacco a spillo con le quali camminava o meglio traballava pietosamente. Tutti eravamo convinti che quelle scarpe non potevano essere il frutto di un suo acquisto ma il dono di qualche persona “pietosa”. Rita aveva raccontato che i genitori erano talmente poveri che lei dato che abitava con loro, dato che divideva con loro "il misero e frugale pasto quotidiano, a casa mia il secondo è un lusso che  ci possiamo permettere raramente" ed essendo transessuale, si sentiva tenuta a consegnare la sua misera pensione di Invalidità Civile "trecentosettantacimquemila settecento cinquanta lire, pure le settecentocinquanta lire consegno". Esente da quest'obbligo era invece la sorella, "anche se lavora perché lei è normale, eterosessuale". Rita rifiutò e rifiuta decisamente sia quella banconota sia qualsiasi altra somma di denaro offertagli. Accetta invece con gratitudine indumenti, scarpe ecc. usati salvo poi a buttarli dopo poco tempo a volte senza averli messi neanche una volta.

Ho letto il caso di Agnés di GARFINKEL e sono stata colpita subito dalla profonda differenza che esiste tra Agnés e Rita. Entrambe si sentono donne psicologicamente e profondamente, entrambe vivono il loro sesso maschile come un'inutile e ingombrante appendice da togliere a tutti  costi, come un errore della natura, entrambe si vestono in modo femminile, hanno atteggiamenti femminili ma mentre Agnés, probabilmente perché: primo vive in una grande città e la grande città permette un anonimato che consente un'interpretazione di "genere" diverso da quello a cui si appartiene; secondo perché siamo all'inizio della seconda metà del novecento quando il movimento dell'omosessualità , della transessualità o più in generale di una sessualità più "libera" è agli inizi e non consente alcuna forma intermedia: o si è maschi o si è femmina mente solo su tutto ciò che potrebbe indicare l'appartenenza al genere maschile, Rita invece, apparentemente più bugiarda, è in realtà più sincera, più autentica perché cerca di imporre la sua reale condizione di transessuale e di essere accettata in quanto tale. (Utilizzo i termini "mentire", "sincerità" con disagio in quanto questi, nell'uso quotidiano, implicano un giudizio morale: è buono chi è sincero, è cattivo chi mente. Può sembrare quindi che voglia paragonare Agnés a Rita per affermare che quest'ultima è migliore. Niente è più lontano dalle mie intenzioni. Quello che invece voglio evidenziare è che Rita, con tutte le sue bugie, cerca qualcosa di più dal contesto sociale in cui è inserita e cioè di essere accettata per quello che è: un essere umano non maschio ma neanche completamente femmina: "Mi hanno costruito le grandi labbra, una vagina ma non ho un utero, non  ho le ovaia, non potrò mai avere figli, non sono una donna completa". Di qui il profondo "disagio" e di Rita e di chi si relaziona con lei, Rita cioè con il suo comportamento, con la sua esistenza rompe una "normalità" disorienta l'attore sociale che la vuole vedere o come maschio  (Come nel caso della famiglia o meglio di una parte della famiglia, i genitori, perché più tradizionalisti, più legati a quel primogenito nato maschio, la sorella invece ha accettato la nuova identità sessuale ma la vorrebbe vedere "solo" come femmina) o come femmina ed è questo invece il caso degli operatori del dipartimento di salute mentale che avendola accettata con tale identità di genere vengono anch'essi disorientati e quindi infastiditi da tutta una serie di atteggiamenti che Rita pone in atto per affermare un "suo" modo di essere. Nascono da qui tutti gli sforzi, i tentativi che la struttura fa per "normalizzare" Rita cioè per riportarla in uno schema di senso che ridia stabilità e tranquillità al modo di vivere, di concepire le cose e la realtà.. Ed è questo l'obiettivo di questa tesi: evidenziare gli sforzi, gli etnometodi che Rita utilizza per imporre una sua definizione di situazione e gli sforzi, gli etnometodi che il sociale utilizza per "normalizzare" l'inconsueto. Se da una parte i progressi della scienza, in questo caso in campo chirurgico e chimico (per ciò che concerne gli ormoni), i progressi della cultura: il movimento degli omosessuali, transessuali, lesbiche. Gli studi di genere, Freud, Yervis ec. hanno portato ad un diverso grado di accettazione della transessualità, questa accettazione avviene, quando avviene, a patto che l'interessato una volta che abbia saltato il fosso (abbia cambiato sesso) poi si presenti, si comporti come gli individui dell'altro sesso, cercando di dimenticare ciò che si era o meglio ciò che si è (cioè non un maschio, né una femmina) e di farlo dimenticare agli altri. In tal modo è garantita la normalità, il senso.

Un giorno, Dopo che Rita mi aveva dato un'ennesima versione della stessa storia, le ho detto che lei, raccontando tante bugie, avrebbe finito col perdersi, col non distinguere più la realtà dalla fantasia, col disorientare se stessa. In realtà ero io che temevo di disorientarmi, che temevo di non saper distinguere più la sua realtà dalla sua fantasia (e forse anche la mia realtà dalla mia fantasia), il vero dal falso. Avevo bisogno di certezze e di dati sicuri. Rita mi ha guardata negli occhi e non ha commentato. Mi colpisce sempre la convinzione con cui dà ogni volta una versione diversa. Non è possibile che non ricordi le altre versioni e anche quando gliele rammendo fa finta di non sentire e continua imperterrita la recita in atto. Tutto questo deve significare qualcosa, ma cosa? Rita ha sempre cercato di essere accettata come femmina, fin da bambina. Ha fatto di tutto per farsi riconoscere come tale. Si è vestita da femmina, ha imparato a cucire, lavare e stirare come una femmina. Ha preso gli ormoni si è operata, ha sopportato il discredito, i rimproveri, il rifiuto e il dolore dei suoi genitori, le umiliazioni, gli scherni, gli insulti degli altri, ma tutto questo non è servito a nulla. Nessuno l'ha riconosciuta come femmina: "Io non sono una donna doc, non sono una donna come te, come quelle che abbiamo incontrato vicino alla fotocopiatrice, io sono una transessuale primaria endogena, come donna io sono nata in sala operatoria". Rita non si fa illusioni in proposito, sa bene che non è un maschio ma che non è neanche una femmina, le bugie, le recite le servono per comunicare, e in un certo senso siamo noi a chiedergliele. Siamo noi che non vogliamo accettare questa realtà, la sua realtà, perché non ha senso in un mondo in cui tutto deve avere senso, ordine. Costringendo Rita a recitare noi possiamo dire: "E' una bugiarda, quella è tutta una bugia" ed ecco che lo scompiglio, il disordine che la sua esistenza comporta, si ricompone. Tutto acquista senso e ordine. Rita si presta a questa recita, a queste bugie anche se sa che gli altri lo sanno e che se non lo sanno ora lo sapranno dopo e la rifiuteranno, ma meglio essere rifiutati perché si è bugiardi piuttosto che per quello che si è nell'intimo, nell'essenza e poi cosi facendo può recitare la parte della vittima: "Tutti mi rifiutano". Più che recitare il termine più esatto è sceneggiare, Rita mette in scena, mostra, comunica il rifiuto di cui è oggetto.

 

2-3 RITA E IL SUO CORPO

Rita e il suo corpo sono sempre stati due acerrimi nemici. Fin da piccola infatti questo corpo ha espresso un'identità diversa da quella che lei sente dentro: "Quando andavo all'asilo mi facevano pranzare nella coppettina celeste, io volevo quella rosa così la buttavo a terra. Le suore allora mi punivano, mi facevano stare ore e ore inginocchiata sui ceci. Altre volte mi davano certi schiaffoni da farmi girare la testa. (Come sono pesanti le mani delle suore!) perché io volevo giocare con piattini e tazzine e non con cavalli e macchinine che buttavo a terra e a volte schiacciavo sotto i piedi. La suora diceva a mia madre: "Questo bambino è un ritardato mentale, è un oligofrenico, ha più materia bianca che grigia, tu lo devi mettere in istituto se nò ti farà passare tanti guai, ti farà piangere". C'era però anche una suora buona che mi accettava come ero e che mi riparava sotto il suo grande grembiulone, però quella suora non era benvista dalle altre consorelle".

Io: "Rita quando andavi all'asilo avevi quattro o cinque anni come fai a ricordarti certe cose?"

Lei: "Le cose che ti fanno soffrire te le ricordi e poi c'è mia madre che ancora oggi mi ripete ciò che le dicevano le suore".

Con l'adolescenza la situazione peggiora, Rita assiste impotente a quei cambiamenti che caratterizzano il sesso maschile: voce bassa e profonda, nascita dei peli ecc. Del suo corpo lei non accetta niente, non solo il sesso: Più volte ha ripetuto che è: "troppo alta, non bella, al massimo mi hanno detto "bona", mai bella, sono poco intelligente, c'è qualcosa di infantile in me sono ancora legata, con questo cordone ombelicale incancrenito a mia madre, alla mia famiglia". Sul suo corpo Rita sconta rabbia e frustrazione, non lo cura, anzi lo trascura, lo martorizza facendolo diventare il più chiaro e fedele portavoce del suo dramma interiore Questo appare evidente sia quando rifiuta di andare presso i laboratori della A.S.L. per curare le piaghe che ha ai piedi (che sono una conseguenza del diabete) sia somministrandosi quantità di insulina non adeguata alla sua necessità per cui spesso va incontro a crisi ipoglicemiche. Un giorno che l'avevamo portata per l'ennesima volta dal diabetologo questi ci disse chiaro e tondo: "Rita convive col diabete da oltre venti anni, se sbaglia è perchè lo vuole lei". Se volesse Rita potrebbe diventare una bellissima donna, magra, ha gambe lunghe e dritte, i lineamenti del volto sono fini e gradevoli, ma lei: a) non va mai dal parrucchiere: "perché non ho soldi", dice, ma non è vero, a parte la pensione, da qualche anno ha, dalla nostra struttura, un sussidio economico che gestiamo insieme e lei ha sempre rifiutato di prendere soldi per andare dalla parrucchiera: "Non ne vale la pena, a che scopo?, non sono bella e non lo sarò mai". Fino a qualche tempo fa tagliava da sola i capelli ora ha accettato di farlo fare ad una operatrice che pur non essendo esperta è almeno più brava di lei; b) nonostante la cura ormonale Rita ha un po’ di peli superflui sulla bocca e sul mento. Più volte l'operatrice suddetta le ha consigliato di non radersi e di fare l'elettrocoagulazione. La risposta è sempre la stessa: "Non ho soldi". Tale operatrice allora ha contattato un'estetista sua amica pregandola di fare il trattamento gratis. Per ben tre volte Rita è mancata all'appuntamento, a volte si è rasa poche ore prima sapendo che poi non poteva più fare il trattamento perché il pelo deve avere una certa lunghezza; c) trucco e abbigliamento. Rita si trucca pochissimo, non usa fard né rossetto né mascara. Assottiglia solo le sopracciglia e di tanto in tanto fa uso di uno smalto per le unghie. In passato si truccava di più perché voleva dimostrare a tutti di essere donna (lo ha detto chiaramente in un'intervista riportata nel paragrafo intitolato "Rita e gli "altri" Salvatore"). Dopo l'operazione non sente più questa necessità in maniera forte inoltre teme che usando un trucco pesante possa essere scambiata per una prostituta e infine vuole dare di sé l'immagine di una donna umile e sottomessa (come spesso ama ripetere). L'abbigliamento, non adeguato alla sua personalità è il suo asso nella manica, quello che meglio di qualsiasi altra cosa esprime ciò che lei vuole comunicare. Le scarpe, in genere un pò piccole (non è facile trovare il suo numero), hanno punta sfilata e tacco a spillo, queste oltre a farle sanguinare le dita, che a causa del diabete sono piagate, le danno un'andatura instabile e traballante. Data l'altezza e il tono umile che vuole imprimere alla sua persona cammina anche leggermente ricurva. La biancheria intima è curata l'abbigliamento esterno no. A dire della sorella spende parecchi soldi nell'acquisto di reggiseni, slip sottovesti. Rita infatti è una delle poche donne giovani che usa ancora la sottana. Tale sottana spesso si vede perché più lunga dei vestiti. Nel suo paese c'è un detto che dice che una donna che fa vedere la sottana cerca marito. Non usa mai pantaloni o tute ma gonne, camicette, magliette e vestiti. I colori in genere sono smorti, le lunghezze delle gonne e dei vestiti sono molto ridotte, le gambe infatti sono quasi tutte scoperte. Cambia molti abiti che si procura o dalla Caritas o da conoscenti (il suo medico di famiglia che è femmina, l'avvocatessa che le ha curato la pratica per il cambiamento di sesso, gli operatori dei servizi che contatta, persino da qualche utente più disgraziata di lei) o comprandoli con pochi soldi al mercatino dell'usato. Accetta volentieri ogni capo usato per poi stringerlo, accorciarlo, modificarlo grazie ad una macchina per cucire della madre. Il risultato è sempre pessimo. I primi tempi tutta l'équipe ha pensato che fosse una questione di soldi, di altezza e forse anche di avere poco gusto. Ci siamo preoccupati perciò di farle avere il sussidio economico, spesso le abbiamo dato dei consigli, abbiamo contattato la sorella pregandola di aiutarla sia nell'acquisto che nell'abbinamento dei capi di abbigliamento. Tutto è stato vano, Rita continua imperterrita ad adottare il suo stile. Abbigliandosi in questo modo punisce il suo corpo, attira l'attenzione, dato che non può farlo con la bellezza (che, dice lei, non ha) e suscita, nei più ingenui o in quelli che la conoscono poco, un sentimento di compassione e pietà; negli altri, quelli che la conoscono bene, irritazione e rifiuto. Spesso, nei momenti di crisi, butta tutta la sua roba dalla finestra. Non la butta nell'apposito cassonetto né in mezzo alla strada ma nel cortile della sua palazzina, suscitando le lamentele dei coinquilini e degli altri vicini. E' un altro suo modo per attirare l'attenzione e per dire "io sono qua con tutto il mio disagio". Una volta mi disse che così come taglia, straccia e butta la sua roba vorrebbe tagliare, stracciare e buttare anche il suo corpo solo che è troppo vigliacca per farlo. Se dal punto di vista estetico le cose non vanno bene, dal punto di vista della cura della salute le cose vanno ancora peggio. Non solo usa scarpe strette a punta sfilata facendo sanguinare le dita dei piedi ma poi non le cura neanche, né va a fare le dovute medicazioni in ospedale. Risultato è che spesso si crea del pus che emanando un terribile odore fa nauseare chi le sta vicino. Una volta una infermiera la rimproverò perché saltava le medicazioni ricordandole i gravi rischi a cui va incontro: "Si lo so, disse lei con tranquillità e per nulla turbata, anzi con un sorriso di compiacimento, qui bisognerebbe tagliare i piedi" "E come, fa l'infermiera, lo dici così, ti rendi conto cosa vuol dire avere un piede amputato?" "Tanto per quello che mi serve" Essendo affetta da "diabete mellito" dall'età di quattordici anni  sa iniettarsi benissimo l'insulina da sola eppure quando viene al Centro diurno preferisce farsela fare dall'infermiera. E' un altro modo per costringere gli altri ad occuparsi di lei. A volte è soggetta a crisi ipoglicemiche che la fanno star male e cadere per terra. Tali crisi sono dovute al fatto che fa l'insulina anche se non ha fatto colazione o non ha pranzato, pur sapendo benissimo che se non mangia non dovrebbe farla. Spesso queste crisi ipoglicemiche la colgono proprio quando è impegnata in attività socializzanti organizzate dalla nostra struttura: durante la sfilata di carnevale o nel corso di una festa natalizia o ancora durante una recita (è molto brava a recitare) Ciò, nonostante che si mostri sempre molto contenta di partecipare a tali attività che rompono la monotonia della vita quotidiana e le permettono di rapportarsi agli altri. Un giorno le ho chiesto: "Rita perché ti vengono queste crisi ipoglicemiche?"

Rita: "Perché faccio l'insulina anche se non ho mangiato".

Io: "Perché fai l'insulina se non hai mangiato?"

Rita: "Non lo so".

Io: "Come non lo sai, ormai sono anni che ti succede, un motivo ci deve essere, forse se lo capiamo poi sarà più facile controllare la situazione"

Rita: "L'insulina comanda gli zuccheri, l'insulina comanda a bacchetta gli zuccheri, noi diabetici abbiamo gli zuccheri che non funzionano allora facendo l'insulina, anche se non ho mangiato io comando gli zuccheri e così sconfiggo il diabete".

Un altro grosso problema di Rita è l'incontinenza. Dopo circa un anno e mezzo dall'operazione Rita comincia a perdere urine e a lavarsi poco. Da colloqui con la famiglia di origine emerge che lei ha sempre avuto il problema dell'enuresi notturna sia da piccola che da grande. (I genitori, in passato, l'hanno portata da diversi specialisti per verificare se c'era un problema fisico e tutti i medici che l'hanno visitata hanno escluso tale eventualità. I genitori sono arrivati quindi alla conclusione che Rita faceva la pipì a letto per dispetto). Adesso il problema si è aggravato perché Rita perde le urine anche nel pulmino che la va a prendere da casa per portarla al Centro Diurno, nel centro Diurno dove bagna anche le sedie, i divani, il corridoio ecc. Racconta Rita di averle perse persino in chiesa mentre andava a prendere la comunione. Lavandosi poco (anche se lei lo ha sempre negato) Rita emana un odore nauseabondo. Tutto ciò innesca meccanismi di esclusione. Rita viene rimproverata e sospesa dal Centro Diurno più volte.

 

2-4 RITA E LA TRANSESSUALITA'

Rita dice  di se stessa: ”Io sono un trans” ed in questa frase racchiude tutta la sua “drammaticità esistenziale”. Rita si presenta al mondo, alla vita con questo suo “essere” definito da un “non essere”: non è un maschio ma non è neanche una femmina. Chi è allora Rita? Non è certamente una pianta, né un animale ( non è un cavallo, non è un cane, non è un gatto né qualsiasi altro animale), è un essere “umano”. Ma che vuol dire essere un essere umano nel mondo della vita quotidiana, un mondo in cui tutti gli uomini, anche quelli della più sperduta tribù primitiva concordano nel distinguere l’umanità in maschi e femmine? E’ questo un principio generalissimo che nessuno mette in discussione su cui non si genera il non che minimo dubbio. Una di quelle certezze di base da cui tutti partiamo. Possiamo discutere sulla bellezza, sulla forza, sull’intelligenza, come su ogni altra caratteristica dell’essere umano. Tutti possiamo essere pronti a mettere in gioco un modello di bellezza, forza, intelligenza, riconoscendo che questi modelli sono suscettibili di variazioni, di definizioni e punti di vista differenti ma nessuno è disponibile a riconoscere, ad accettare un terzo o quarto o ennesimo “genere”: o si è maschi o si è femmine. Un giorno ho detto, a dei colleghi di lavoro che stavano enumerando le malefatte di Rita che, fra i nostri utenti, Rita è certamente la più povera di tutti e non mi riferivo all’aspetto economico. Rita è la più povera di tutti perché non ha neanche un’identità di genere. Tutti, anche lo schizofrenico più cronico, sanno almeno una cosa cioè se si è maschio o se si è femmina. Rita non sa neanche questo”. Nel corso dei colloqui avuti con i familiari di Rita questi più volte hanno definito la stessa come una persona “cocciuta”, “testa dura”, e su questa definizione hanno concordato poi tutti gli operatori che si sono occupati del caso. E’ vero Rita quando ha deciso di fare qualcosa non c’è verso di farle cambiare idea, non servono i ragionamenti, né le lusinghe, né le minacce, né le punizioni. Rita diventa molto determinata, una roccia inaccessibile, inattaccabile. Ed è tale determinatezza che emerge nei quotidiani tentativi che lei fa per essere accettata come trans. Tutte le bugie che racconta servono a far accettare all'altro una verità: la sua condizione di trans. Raccontando le bugie, (per esempio una volta, che le avevo fatto dei complimenti per la bella camicetta che indossava, mi disse che era quella di quando si era cresimata, che lei aveva pochi capi di abbigliamento: primo perché non aveva soldi, secondo perché era contraria ad indossare roba usata dagli altri (Rita invece si veste quasi esclusivamente di roba di seconda mano); un’altra volta raccontò che quando si sposò la sorella tutti i familiari andarono in chiesa con la sposa lei invece dovette restare a casa per “pulire la cucina, finire di riassettare e poi, vestita con un abito di tutti i giorni andare da sola in chiesa per sedermi all’ultimo banco, in fondo, lontana da tutti”) è come se Rita dicesse all’altro: “io sono un povero, un’emarginata, una vittima di un mondo ostile e crudele, una sfruttata, una disgraziata, ti prego accettami.” e come trans Rita è tutte queste cose. Le bugie sono dunque una strategia che lei adotta per spiegare la sua situazione di trans altrimenti inspiegabile, emerge da qui il paradosso che la caratterizza: dire la bugia per dire la verità. Può Rita gridare ai quattro venti: “Sono una femmina” (potrebbe farlo, adesso lo è anche anatomicamente, giuridicamente, anagraficamente) ma non lo fa perché questo per lei è mentire veramente su quello che si è. (Si può mentire su qualsiasi cosa in fondo non sono altro che bugie, dei peccati veniali, ma mentire, su ciò che si è, è un peccato mortale nel senso letterale del termine, nel senso che ti fa morire nell’essenza, nell’essere.) Rita con la sua verità esistenziale, non accettando di nascondere chi è sconvolge l’ordine sociale. Ne è rimasta sconvolta la famiglia (e questo per me è accettabile e comprensibile) ma ne è rimasta sconvolta anche un’altra istituzione sociale: l’Unità Operativa Psichiatrica in cui lavoro, e questo per me è meno accettabile e meno comprensibile perché sconvolge un altro ordine di senso quello cioè che una struttura psichiatrica per definizione, per compito istituzionale, per cultura, è uno spazio in cui essere accettati e compresi al di là di ogni regola comportamentale che disciplina i rapporti sociali.

 

 

 

 

 

2-5 RITA, LE ISTITUZIONI SANITARIE E L’UNITA’OPERATIVA PSCHIATRICA.

 

Il rapporto di Rita con le strutture sanitarie in genere è sempre stato, fino a quando non ha potuto fare il cambiamento di sesso e il conseguente cambiamento di nome, ambivalente e conflittuale. A causa dei suoi problemi fisici (dall’età di quattordici anni è affetta da “diabete mellito”, dopo qualche anno ha avuto “un’affezione polmonare”, il cambiamento di sesso ecc.) Rita ha avuto bisogno di ricoveri in strutture ospedaliere e di fare frequenti analisi di laboratorio. Queste ultime in particolare erano fonte per lei di grave disagio e sofferenza: “Ricordo che era terribile per me l’attesa in una sala d’aspetto piena di gente in quanto venivo chiamata, dall’infermiera di turno, col mio cognome e nome maschile”. Per quanto riguarda i ricoveri ospedalieri invece il problema era per certi versi anche più complesso. Rita infatti non voleva ricoverarsi nel reparto maschile. Ogni volta era costretta a spiegare la sua situazione mettendo i medici in difficoltà. Questi infatti se da un punto di vista umano comprendevano la sua situazione, dall’altro si trovavano con un paziente di sesso maschile, con un nome e cognome maschile, per cui formalmente erano tenuti a ricoverarla nel reparto maschile e poi “che avrebbero detto le altre donne ricoverate?” Quando era fortunata la soluzione veniva trovata ricoverandola in una stanza singola. (Date le sue condizioni economiche Rita non poteva permettersi una stanza a pagamento). Superato questo problema il resto diventava più semplice: primo perché poteva interpretare un ruolo, quello dell’ammalata, non ambiguo che le restituiva un’identità seppure provvisoria. Nell’ospedale e per l’ospedale lei diventava un’ammalata. Secondo perché era circondata da persone che si prendevano cura di lei.

A giugno del 1981 Rita, che all’epoca aveva diciassette anni e mezzo contatta il consultorio familiare del suo comune, su “sollecitazione della madre che per prima si era rivolta alla psicologa del consultorio per avere un chiarimento d’idee sulla reale situazione del figlio” (vedi documento n.1). Rita chiarisce subito che “aveva accettato di venire in consultorio solo per accontentare la madre ma era convinto che nessuno avrebbe mai potuto aiutarlo, tanto meno uno psicologo il cui unico intervento, a suo parere, poteva essere finalizzato solamente, in base alle sue esperienze precedenti, a recuperare una normalità che sentiva di odiare.” (Vedi documento n.1). Rita conclude il colloquio chiedendo di “dimenticarlo in quanto l’unica sua speranza poteva essere l’intervento di cambiamento del sesso, di cui risultava già all’epoca informatissimo, ma che, dato l’alto costo, sapeva benissimo che non lo avrebbe mai potuto affrontare e di fronte a tale realtà ogni parola, ogni colloquio risultava inutile.” (vedi documento n.1). Si ripresenta invece dopo cinque anni. "Nell'aspetto esteriore si era decisamente più femminilizzato: capelli più lunghi, viso perfettamente depilato e leggermente truccato, pantaloni e maglietta di gusto squisitamente femminile, uso di collant nonché, a suo dire, di biancheria intima femminile. Rispetto al primo incontro si evidenziò che il disagio legato al sesso irrisolto era andato aggravandosi: espose chiaramente e drammaticamente le sue problematiche, il suo disagio, le sue esigenze, il senso di estraneità al suo apparato genitale (tante volte in quegli anni aveva preso in considerazione l'idea di automutilarsi) che trovava ripugnante. (vedi documento n.1) Questa volta le viene prospettata "la possibilità di affrontare i suoi problemi in modo più costruttivo grazie all'applicazione della legge 164, del 14/4/82, che autorizzava il cambiamento di sesso." ( vedi doc. n.1) Sempre nella stessa relazione si legge che Rita ritorna in consultorio dopo tre mesi "in uno stato di grande depressione: aveva preso in considerazione la possibilità di darsi la morte tramite eutanasia e ci chiedeva il nome di un medico disponibile a fare ciò." (vedi doc. n1) Rita più volte mi ha parlato di avere avuto  qualche idea di suicidio ma che non le ha mai messo in pratica perché "vigliacca", in effetti lei è molto legata alla vita per cui è probabile che abbia recitato la parte dell'aspirante suicida per esprimere la sua disperazione affinchè gli operatori non si limitassero a prospettargli la possibilità… ma prendessero delle iniziative concrete. Cosa questa che avvenne.

Nel 1997 Rita si presenta alla nostra Unità Operativa psichiatrica inviata dal Consultorio perché "depressa". All'inizio quindi ha colloqui solo con la figura medica. Ed è nel corridoio del nostro servizio, che funge da sala di aspetto, che conosco Rita. Non notarla è impossibile molto alta, magra, vestita generalmente di scuro, con abiti femminili puliti ordinati ma consumati e corti (allora si pensava che essendo molto alta e indossando indumenti smessi da altri, se li procurava tramite la "Caritas" del paese, non trovasse quelli della giusta lunghezza), con una sottile giacchettina di lana, anche d'inverno e con scarpe (vecchie e consumate) sempre qualche numero più piccolo e aperte da dietro Rita è l'immagine di una "povera disgraziata". Capace di stare anche molte ore seduta  al suo posto, in attesa che arrivi il suo turno, non dà mai segni di impazienza. A volte esce dalla stanza della dottoressa con ancora le lacrime agli occhi. Comincio a salutarla, come faccio con tutti gli utenti, anche con quelli di cui non mi occupo direttamente. Qualche volta le offro qualche rivista per ingannare l'attesa (lo faccio anche con altri). Inizia così il nostro rapporto.  (In realtà ho visto Rita la prima volta alcuni anni prima al supermercato del mio quartiere. Entrambe facevamo la fila al bancone dei salumi. Mi colpì la sua altezza e il suo modo di presentarsi. Il suo abbigliamento, il taglio dei capelli e tutto il resto non denotavano chiaramente il suo sesso. Cercando di non farmi notare l'ho guardata a lungo per capire se fosse un maschio o una femmina. Me ne sono andata col dubbio. Dopo circa un anno mi è capitato di parlare con una mia amica psicologa, la stessa del consultorio a cui si era rivolta Rita, del problema della transessualità e tale amica mi ha detto che stava trattando il caso di un ragazzo "molto alto" che aveva questo problema. Mi è tornata alla mente l'immagine della persona incontrata al supermercato e ho collegato le cose. Quando ho rivisto Rita al servizio d'igiene mentale non l'ho riconosciuta subito, nonostante l'altezza, perché questa volta lei si è presentata chiaramente come una donna.) I nostri primi dialoghi avvengono quindi nel corridoio del servizio. Rita mi parla subito della sua transessualità, della solitudine dei difficili rapporti con la famiglia e con gli altri. Pian piano questi colloqui informali diventano una consuetudine tanto da indurre Rita a cercarmi prima di fare il colloquio con il medico o dopo averlo fatto. Faccio presente la cosa, alla dottoressa, con qualche timore (mi sarò intromessa indebitamente in un rapporto terapeutico?). La dottoressa invece non appare contrariata anzi è sollevata perché può condividere la pesante problematica di questa utente con un altro operatore. Durante questi colloqui Rita mi dà una versione fantasiosa e romanzata della sua vita, della sua storia. Una versione dove realtà e fantasia si fondono per restituire l'immagine di una persona debole, fragile, sensibile, succube, sfruttata, incompresa, che descrive bene la sua verità esistenziale. Una volta Rita mi dice che la sua famiglia è molto povera, che il padre non lavora e che fa tanti debiti per cui lei è costretta a consegnare la sua misera pensione di invalidità civile (ottenuta perché diabetica grave, fa l'insulina tre volte al giorno) fino all'ultima cento lire; che ha consegnato alla famiglia tutti gli arretrati della pensione (svariati milioni) e che anche questi sono stati consumati dal padre. (Ho saputo poi dalla famiglia, e lei ha confermato la cosa, che non solo consegna la pensione saltuariamente, in genere quando non ha alcun legame sentimentale, o forse sarebbe meglio dire sessuale, con qualche ragazzo ma che i soldi degli arretrati della pensione sono stati dati tutti a un noto ragazzo, con tendenze omosessuali, con cui ha avuto contatti in quel periodo, ragazzo che è sparito quando sono finiti i soldi). Un'altra volta mi racconta che ama studiare, che ha frequentato la scuola dell'obbligo fino alla quinta elementare perché la direttrice la sospendeva sempre in quanto voleva stare seduta nel banco con le femmine, si atteggiava da femmina e spesso andava a scuola vestita da femmina. Dopo qualche anno mi ha raccontato invece che, in possesso della terza media (cosa questa confermata dalla famiglia) si è iscritta alla scuola di avviamento professionale dove ha conseguito l'attestato di segretaria d'azienda. Un'altra volta ancora mi racconta che la sorella sposata vive in Germania in una bellissima villa con tanto verde intorno ed una magnifica piscina e che lei l'ha supplicata di prenderla con sé "sono disposta anche a farle da serva, ad accudire i bambini" e che la sorella l'ha rifiutata perché si vergogna di lei, non può presentarla ai suoi amici durante i party e altri incontri mondani. (La sorella sposata vive effettivamente a Monaco ma occupa un appartamento popolare al ventisettesimo piano di un grande stabile). Durante questi primi mesi io l'ascolto sempre con disponibilità, provo pena per lei e rabbia per gli altri, per la direttrice della scuola elementare, per il padre, per la sorella. Non dubito mai che Rita mi stia mentendo. Di tanto in tanto le do qualche consiglio pratico come quando le ho suggerito di prendersi la licenza media in un corso serale. Mi offro di prendere i dovuti contatti con la scuola, di aiutarla a preparare i documenti e di convincere la famiglia. Svolgo insomma con solerzia (il tono è ironico) il ruolo dell'assistente sociale anche se il contesto è ambiguo perché io sono l'assistente sociale del servizio d'igiene mentale ma Rita formalmente non è una mia utente. Rita ovviamente rifiuta "rivivrei lo stesso disagio di quando andavo a scuola, sarei il bersaglio delle loro prese in giro e poi non mi interessa fare i programmi previsti dalla scuola media, mi interessano le problematiche sociali più da adulti", e per non contrariarmi aggiunge che forse lo farà dopo aver cambiato sesso e nome. Le propongo allora di frequentare l'Università della terza età che tiene i suoi corsi presso la biblioteca del suo paese. Lì avrebbe incontrato gente matura, poco propensa a prendere in giro gli altri, avrebbe affrontato temi di attualità e soprattutto avrebbe rotto il suo isolamento. Rita si mostra titubante accetta che mi informi più precisamente sulla data e frequenza delle lezioni. Cosa che faccio, ma lei poi rifiuta. I nostri colloqui vanno avanti per mesi senza che io sospetti mai che lei stesse mentendo, qualche volta penso solo che forse esagera un po’. D'altra parte Rita racconta le sue storie di emarginazione sempre con dignità senza usare mai un tono di voce esageratamente pietoso, con un linguaggio misurato, obiettivo, senza mai eccedere troppo nel descrivere la crudeltà altrui, senza mai esprimere giudizi di condanna verso gli altri. E poi i racconti di Rita non mirano mai ad avere un beneficio (un sussidio economico per esempio o qualsiasi altro intervento utilitaristico).

Un giorno un'infermiera dell'équipe mi fa presente che Rita le ha chiesto di frequentare il nostro "Centro Diurno" (La nostra unità operativa psichiatrica gestisce infatti una struttura riabilitativa semiresidenziale: il Centro Diurno. Tale struttura ha iniziato la sua attività circa quattro anni fa. Può ospitare fino ad un massimo di venticinque utenti. E' aperta tutti i giorni feriali dalle ore 8.00 alle ore 18.30 ed è gestita da una cooperativa che all'uopo ha stipulato una convenzione con l'A.U.S.L. Gli operatori gestiscono diversi laboratori: pittura, fotografia, sartoria ecc. Attraverso tali attività e su un progetto terapeutico individuale, concordato con il dirigente della  unità operativa psichiatrica, si attuano interventi terapeutici finalizzati alla cura e al recupero. Il centro è frequentato da ragazze e ragazzi giovani, fino massimo a 50 anni, che vivono un disagio psichico.) Mi colpisce non tanto la richiesta di Rita, conoscendo il suo isolamento sociale, anche io da qualche tempo stavo pensando di proporre a lei e all'équipe un inserimento in tale struttura, quanto il fatto che tale richiesta lei la abbia fatto a quell'infermiera e non a me con cui ha avuto molti più colloqui e con la quale ha maggiore confidenza. L'infermiera in questione è molto religiosa, va spesso a messa, (Rita ci va quasi tutti i giorni) apparentemente è quella che parla di meno, è poco sicura, non ha molto potere nell'influenzare le decisioni dei vertici dell'équipe. Mi sento risentita e ne sono consapevole, nel contempo però mi sento anche sollevata. Ho già detto prima che anche io stavo pensando di proporre all'équipe l'inserimento di Rita nel Centro Diurno, se non l'avevo già fatto era perché cercavo il modo migliore per farlo. Sapevo che ci sarebbero state delle resistenze e che tali resistenze sarebbero aumentate se la proposta fosse partita da me. Teoricamente l'équipe dovrebbe essere una struttura democratica all'interno della quale il parere dei vari membri dovrebbe avere lo stesso peso per cui, terminata la discussione, dovrebbe emergere la decisione migliore per il benessere dell'utente. Di fatto è una struttura gerarchica dove pesano ruoli e livelli che si occupano. Su tutti prevale il parere dei medici, viene poi il parere della psicologa, la quale però ha molta influenza sul responsabile del servizio, che è un medico. Viene infine il parere delle assistenti sociali (siamo in due) e degli infermieri (sono in otto). Tra me e la psicologa non corre buon sangue. Partiamo da due posizioni, diametralmente opposte, di considerare il "disagio psichico". Per lei gli utenti sono "quasi" tutti irrecuperabili (il "quasi" l'ho messo per sforzarmi di essere il più obiettiva possibile), per me sono "quasi" tutti recuperabili (anche qui il "quasi" ubbidisce allo stesso sforzo, ritengo che tutti possono migliorare la loro qualità di vita). Per lei il disagio psichico è una "malattia" che necessita di farmaci e di direttive ben precise. Se il paziente non segue le sue direttive e quelle dei medici allora non vuole o non può guarire, in ogni caso lei si è liberata di un problema. Per me il disagio psichico più che una malattia è un "modo di essere" il risultato di conflittualità interne (psicologiche) ed esterne (modalità con cui abbiamo strutturato la nostra realtà sociale). Io non ho direttive chiare, precise, a cui riferirmi. Quando strutturo un rapporto con un utente un po’ sono io che seguo lui un po’ è lui che segue me. Cerco sempre di considerare più punti di vista, il suo, il mio, quello della madre, del padre, dei fratelli, degli insegnanti (se va a scuola) degli altri membri dell'équipe ecc. Il mio primo obiettivo è quello di incontrarlo come persona e di farmi incontrare come persona che in quel contesto è anche un'assistente sociale col compito di favorire il suo reinserimento sociale. Partendo da posizioni così differenti è chiaro che spesso ci scontriamo. Per lei, come credo anche per la maggior parte dell'équipe, io sono un'idealista, un'utopista, lei è una realista. Per me io sono un'idealista, con i piedi per terra, ma anche tenacemente legata ai miei ideali, voglio qualcosa di più dello status quo. Per me lei è una realista che non ha solo i piedi per terra ma anche la testa cosicchè non vede tutte le possibilità che ogni essere umano ha. (E' chiaro che questa è la mia lettura della situazione). All'interno della struttura la psicologa ha più potere di me e non solo perchè lei ha il decimo o l'undicesimo livello e io il sesto ma anche perché lei col suo realismo calma l'angoscia, la frustrazione, il senso di inadeguatezza che prende gli operatori di fronte ad una "patologia" che non dà buoni indici di "guarigione". Io invece, con la mia posizione, aumento l'angoscia, la frustrazione, il senso di inadeguatezza, perché sembro dire agli altri e a lei in particolare, perché lei esprime più di tutti l'altra posizione, "se tizio non migliora è perché noi non siamo abbastanza bravi". (Veramente non so neanche se per gli altri  è un "noi" e non un "voi", per me comunque è un noi ). Tornando a Rita quando l'infermiera mi ha detto della richiesta dell'utente, accanto al risentimento, alla sorpresa, c'è stato anche il sollievo perché sapevo che se la proposta l'avessi fatta io, la psicologa si sarebbe opposta fermamente e quindi, per il gioco delle alleanze con chi ha più potere, rischiava di essere bocciata. Ho considerato anche il perché l'infermiera l'avesse detto prima a me e non direttamente all'équipe, probabilmente sperava che io facessi mia tale proposta e fossi io a dirlo in équipe. Non potendolo fare (per le ragioni su esposte) ho assicurato comunque il mio appoggio e ne ho parlato con la dottoressa che segue il caso per assicurarmi anche il suo appoggio. (Mi sorge il sospetto che Rita sia più intelligente di quello che credo. Se lo ha detto prima a quell'infermiera e non a me o alla dottoressa un motivo ci deve essere, che abbia colto le nostre dinamiche relazionali?) L'infermiera dunque esprime la richiesta dell'utente in équipe, subito la psicologa esprime il suo dissenso: Rita con la sua problematica sessuale, col fatto che ne parla apertamente e con la "fame" di maschi che ha può essere un pericolo per il gruppo. Interviene la mia collega (l’altra assistente sociale): “Va bene, ma che cosa può succedere, in cinta non esce!”. La battuta suscita ilarità, la tensione, o almeno la mia tensione, si placa. La mia collega ha un certo potere all’interno dell’équipe perché più realista di me e meno angosciante nei confronti del gruppo. Interveniamo io e la dottoressa ad appoggiare la proposta, anche gli altri si dichiarano d’accordo. Rita è ammessa al Centro Diurno. (Ho capito poi perché Rita ha fatto la sua richiesta prima a quell’infermiera e poi a me e alla dottoressa. La psicologa ha ragione quando dice che Rita ha “fame” di maschi, specie ora che ha fatto da poco l’intervento chirurgico di conversione andro-ginoide e che quindi può sperare in un rapporto uomo-donna normale e nel Centro diurno ci sono diversi maschi. Tale struttura inoltre è frequentata da Giacomo (il nome, come tutti gli altri nomi che scriverò, naturalmente è fittizio). Giacomo è il fratello minore di Salvatore. Salvatore è un ragazzo col quale Rita sta vivendo una tormentata storia d’amore di cui ha parlato sia a me che alla dottoressa per cui teme che noi colleghiamo le due cose e le impediamo di frequentare il Centro Diurno. Preferisce perciò tastare prima il terreno e confida in una buona parola dell’infermiera.

 

2-6 RITA E SALVATORE

 

Salvatore è il primogenito di tre germani. Il padre, muratore, non ha mai avuto un buon rapporto con la moglie. Spesso la picchiava e l’ha continuato a fare fino a quando Salvatore e Giacomo sono cresciuti e diventati abbastanza forti da opporsi anche fisicamente. La madre, casalinga, ha cercato nei figli degli alleati instaurando con loro un legame molto stretto ed oppressivo. Risultato di tale situazione sono stati tre figli problematici: Roberta, la secondogenita, psicotica, ha fatto vita da reclusa fino a qualche mese fa quando, deceduta la genitrice, ha finalmente potuto frequentare il Centro Diurno. (A nulla sono valsi i tentativi fatti in passato. Una volta che, dopo aver inserito il secondogenito in una Casa Famiglia, cercavo di convincere a far frequentare a Roberta la nostra struttura diurna, la madre mi disse: ”Ti sei presa il primo non ti permetterò di prenderti il secondo”). Giacomo, l’ultimogenito, è schizofrenico. A volte ha espresso il suo disagio anche picchiando la madre e procurandole diversi lividi, oltre che con rapporti incestuosi con la sorella e altri comportamenti devianti. Salvatore, il primogenito, in passato ha fatto uso di droghe leggere, è stato qualche volta in carcere e ha tendenze omosessuali anche se lui si ritiene un eterosessuale. Rita lo descrive come “un ragazzo bellissimo, così bruno, giovane (è circa sei anni più giovane di lei) con la pelle liscia che sa di gioventù”. Descriverò il rapporto intercorso tra Rita e Salvatore  riportando la registrazione grafica del colloquio che  ho avuto, a tal proposito, con Rita. Tale colloquio segue il protocollo dell’intervista semistrutturata:

“Rita come hai conosciuto Salvatore?”

“E’ lui che ha conosciuto me, mentre andavo in chiesa appare un bel ragazzo bruno con gli occhi a mandorla, i capelli neri neri tutti verso dietro. Era tempo d’estate, lui portava una camicetta un po’ sbottonata da cui si vedevano i peli neri e mi dice:  

“Ciao bella vuoi venire a fare un giro con me?”

 Io allora ero più giovane, sono passati quasi cinque anni, avevo una gonna corta una camicetta e una giacchettina fatta da me all’uncinetto, scarpe con tacco sottile e alto. Io ho pensato: che bel ragazzo come è bono, guardo dietro di me e vedo tre adolescenti, femmine vere, con scarponi e pensai che era rivolto a loro l’invito per cui chiesi a lui: ma ce l’hai con me?

 “Si ce l’ho con te”. 

Era in macchina con i finestrini spalancati e la radio a tutto volume. Mi avvicinai e dissi: Vuoi sapere l’orario?, non ho l’orologio.

 ”No ce l’ho l’orologio, voglio uscire con te”.

 Io era da molto che non uscivo con un ragazzo, le pupille mi si dilatarono, lui aveva dei denti bellissimi. Io non seppi resistere e salii in macchina”.

Io:“Dove siete andati?"

“In giro per il paese, dissi: come ti chiami? 

“Salvatore”,

che bel nome sembra di origine latina

 “E' quello di mio nonno, tu ti chiami invece Rita, io ti seguo da molto tempo, quando vai in chiesa, a fare la spesa, tu cammini sempre con la testa bassa”.

 Ci fermammo in una strada di campagna, lui cominciò ad accarezzarmi le ginocchia e poi più su. Io stringevo le gambe perché più su c’era lui (il mio sesso maschile stretto stretto in un paio di slip elasticizzati, ho avuto tre ernie per questo). Cominciai ad accarezzarlo anche io, sentivo la sua mano con i peli sul dorso. L’inizio è stato bello perché non siamo approdati subito al sesso. Abbiamo parlato a lungo. Lui mi raccontava le sue difficoltà a trovare lavoro. Dopo quella sera ci siamo rivisti di nuovo, ci siamo fatti tante effusioni  lui però, il seno me lo accarezzava (avevo già iniziato la cura ormonale e il mio seno era turgido) ma non mi baciava né si lasciava baciare sulla bocca. Io volevo sentire la sua lingua sotto l’arcata della lingua mia, volevo sapere cosa provavano le ragazze e quando gli chiesi perché non mi baciava lui rispose che era fatto come il padre il quale non ha mai baciato la madre. Abbiamo continuato ad uscire, veniva a prendermi da casa, suonava il campanello e io scendevo. Ai miei dicevo che era Rossella, una ragazza che è esistita veramente, era un’ex fidanzata di Salvatore, i miei erano talmente “televisionati”, sempre incollati davanti al televisore, che non si accorgevano di niente. L’otto dicembre Salvatore mi porta  a casa sua, una casa popolare nella 167, tu la conosci no?, i genitori erano in campagna, e sul divano abbiamo finalmente cominciato a consumare. Fino ad allora c’erano stati solo abbracci e carezze. Io dicevo: stringimi, fammi male, come mi avvicinavo alla bocca però il ragazzo si irrigidiva, io dicevo: che c’è puzzo, ho l’alito cattivo? “No, diceva lui, semmai sono io che puzzo perché fumo”. Quando lui si apriva la camicetta per me si apriva un paradiso, con i suoi capezzoli alti, con i peli neri che scendevano giù fino all’ombelico. Mi piaceva leccarlo tutto come un gelato in piena estate, non avevo mai dei cali di desiderio. Io dicevo a me stessa: non ti affezionare  devi fare i conti con l’anagrafe, (l’anagrafe è una tiranna, ti presenta sempre il conto ed è salato). Vacci piano ancora devi essere operata. C’erano due Rite in me, una mi invitava ad essere prudente, l’altra mi diceva: fallo, quest’occasione non ti capiterà più, l’operazione chissà quando la potrai fare (il professore B… diceva che ero la duecentoeunesima e l’allora ministro aveva stabilito che in un anno a Bari massimo si potevano operare quattro trans quindi chissà quando sarebbe toccato a me).”

Io:“Se stavano così le cose come mai poi sei riuscita ad operarti in tempi più ristretti?”

“Sono stata operata prima a causa della vasculopatia che andava peggiorando e che non mi avrebbe più permesso di fare l’intervento, devo ringraziare anche gli operatori del consultorio e il dirigente di questo servizio psichiatrico che ha fatto molto per me. Quella sera Salvatore è venuto a prendermi dalla chiesa, quando mi ha detto che voleva portarmi a casa sua io ho fatto la ritrosa, mi vergognavo, temevo che qualcuno mi vedesse e lo riferisse a mio padre, ho chiesto di entrare dal portone posteriore e complice il buio tutto è andato bene. (I suoi genitori erano sempre in campagna). Lui ha acceso il televisore, ha bevuto della birra, io sono astemia. Allora usavo gonne più corte, ero più moderna, e un maglione con babbo natale disegnato (come ero stupida avevo più di trent’anni e mi vestivo come un’adolescente), lui continuava a bere e faceva grossi rutti, io accettavo tutto, sarebbe stato buffo se mi fossero venuti a me. Io mi strofinavo a lui e non ho pensato più a Cristo, ai santi e al mio desiderio di farmi suora, la “sponsa Christi” aveva ceduto. Mi lasciai andare l’ho spogliato, accarezzato, leccato, lui mi ha spogliata, mi ha distesa sul divano e ha messo il suo pene tra il mio seno, io cercavo il suo viso ma lui non voleva e ha eiaculato (lui era un “eiaculatio praecox”). Quando abbiamo finito lui non ha più voluto essere abbracciato, questo mi ha fatto soffrire. La solita fretta che i ragazzi hanno di “venire”. Ci siamo lavati, seduti sul divano e io mi sono accoccolata su di lui, avevo voglia di stare ancora abbracciata a lui. Salvatore invece mi ha detto:

 “Ma sei insaziabile, abbiamo appena finito di consumare”.

 Io gli ho risposto: “Guarda che quello che ha consumato sei stato tu, io non ho consumato un bel niente”. Io non avevo avuto neanche un’erezione (lui, il mio sesso, riposava in pace, non ho mai avuto un’erezione, solo notturna, qualche volta da ragazzo, forse il diabete fa diventare impotenti) il mio orgasmo era sempre psicologico. Ad un certo punto lui mi ha detto:

“Sembri Marlene Dietrich, le stesse gambe lunghe”.

 Quel paragone con una donna vissuta tanti anni fa mi ha lasciata perplessa, avrei voluto essere paragonata ad un’attrice più moderna, Francesca Dellera per esempio. Dopo quella volta siamo usciti di nuovo ed abbiamo passato il capodanno insieme ed è stato il primo capodanno bellissimo della mia vita. Abbiamo stappato lo spumante a casa sua, solo che avevo ancora “lui” e questo triangolo mi faceva soffrire. Il giorno dopo Salvatore mi ha detto: “Stasera ho voglia della tua pizza”.

 Io sono saltata, Salvatore cosa stai dicendo questo lo fanno gli omosessuali. “Stasera io ho voglia di te, ho voglia di farti una sega”.

 Mi ha detto. Io mi sentivo male, sudavo abbondantemente, come fai a dire che ho il pene. Lui ha gettato la maschera, ha detto che sapeva che ero un maschio:

 “Tu sei un maschio, puoi vestirti da donna, puoi fare quello che vuoi ma io so che sei un maschio ne ho conosciute tante come te. A Lecce fra le prostitute ce n’era una come te, che aveva la sorpresa come te”.

Andarono in una strada oscura di Lecce e Salvatore prima le ha accarezzato il senone. Lei teneva le gambe strette strette, ma lui conosceva un sistema: ha dato un pugno sulle ginocchia, quella ha aperto le gambe e c’era il pene. Salvatore ha rivoluto indietro le cinquantamila lire che le aveva dato e le ha detto che era fortunata perché non la riempiva di botte, poi l’ha buttata fuori dalla macchina. “Madonna mia se fossi stata io al suo posto tu…”

“Tu sei la mia ragazza, sei un’altra cosa”.

Quella sera è riuscito a togliermi gli slip, io mi sono coperta gli occhi con la mano, mi sono sentita estremamente in soggezione, mi sono vergognata da morire. Salvatore diceva che aveva voglia del mio pene, come mai? Lui non è un omosessuale, ha avuto rapporti con ragazze che prendevano la pillola, ragazze vere, una volta ne ha messo in cinta una e poi l’ha fatta abortire perché non voleva sposarsi, era legatissimo alla madre. Mi ha accarezzato e me l’ha toccato, poi visto che non c’era possibilità di resurrezione ha lasciato perdere. Io immediatamente mi sono rivestita e gli ho chiesto di promettermi di non toccarmi più il pene, faremo finta che in quel posto non c’è niente.

“Quante storie per una pizza!”

Ma se è proprio quello che ci divide, tu non mi vuoi baciare per quello.

“No, non è vero quello non ci da nessun fastidio”.

Quella sera ci lasciammo con questa promessa: lui non  avrebbe più chiesto di guardare il mio sesso né di toccarmelo. Continuammo ad uscire. Una sera a febbraio andammo a Martina Franca a vedere le maschere. Io non sono mai stata a vedere una sfilata. Di carnevale devo evitare accuratamente di camminare per le vie principali del mio paese perché i ragazzi mi danno fastidio per cui fui felicissima. Quella sera lui fu particolarmente gentile con me, mi colmò di tante piccole attenzioni, ma c’era una sorpresa, un’amara sorpresa. Al ritorno mi ha detto:

“Ho voglia di te”.

Anche io ho voglia di te, di notte di giorno, dimentico anche di mangiare e poi ho le ipoglicemie. Siamo andati a casa sua. Ha bevuto la solita birra e mi ha chiesto di abbassarmi la gonna. Perché devo abbassarmi la gonna avevi promesso che non mi avresti più guardato il pene.

“No, non mi interessa il pene ma il culo”

Il culo no è la parte più sporca della persona.

“Se sei sporca vai a lavarti”.

No sono pulita, lui si è tolto gli slip da cui uscivano tantissimi peli e mi prende da dietro. Io sento un dolore terribile, è la prima volta per me, non mi piace, è un rapporto ambiguo, da omosessuali e poi è vietato anche da nostra madre chiesa.

“Ma non dire scemenze, ti ho tenuta contenta, ti ho portato a vedere le maschere, tu dici sempre che quando si ha si deve restituire, ora è il mio turno di essere tenuto contento. (Mia sorella mi ha fatto leggere poi un libro che parlava di queste cose e c’era scritto che l’ano stimola terminazioni nervose che la vagina non ha). Quando abbiamo finito io ho detto a Salvatore che non mi piace da dietro ma davanti. Lui mi ha detto che davanti non abbiamo niente. Aspettiamo allora, aspettiamo che mi opero poi sarà bellissimo. Per qualche giorno non ho più potuto sedermi, dovevo usare un cuscino. Mia sorella mi chiese se avevo le emorrodi, “Tu non me la racconti giusta io e te lo sai ci conosciamo bene”. Dopo un po’ di tempo, una sera, Salvatore si spoglia completamente, era come vedere il paradiso. Salvatore facciamolo davanti non da dietro.

“Questa volta ti tengo contenta”.

Ma c’era un’altra sorpresa. Sentire i suoi peli su di me (io avevo solo lo slip, non lo toglievo mai) era una libidine indescrivibile. Dopo esserci accalorati Salvatore tira fuori una pomata comprata dalla farmacia e chiede di nuovo un rapporto anale. Questa volta almeno fu un po’ meno doloroso.

Io:“Rita, quando Salvatore ha cominciato a chiederti dei soldi?”

“Devo precisare che era disoccupato, a casa non gli davano soldi, sono gente povera. Lui qualche volta ha anche rubato, delle sciocchezze, nei supermercati, scatolette di carne, wurstel, una volta un profumo da donna, era il mio onomastico. L’ho rimproverato: Non ti permettere più, riportalo dove l’hai preso.

“Non ho il coraggio”.

L’ho messo in borsa senza aprirlo, sono andata nello stesso supermercato e l’ho rimesso a posto. Un giorno voleva comprarmi un paio di scarpe, io rifiutai: non voglio regali voglio solo un bacio. Lui appoggiò appena le sue labbra sulle mie come quando ti accarezza il vento, evidentemente, pensai sono poco attraente. I soldi che gli ho dato, pochi in verità perché pochi ne avevo, glie li ho dato sempre di mia spontanea volontà e sono sempre stati soldi spesi bene perché servivano per la benzina o per riparare la macchina o per andare in pizzeria. I miei familiari mi hanno sempre rimproverata per questi soldi, specie mia sorella, ma loro non mi hanno mai portata in giro, non mi hanno mai fatta divertire. Una sera, mentre ero con Salvatore incontro mia sorella col suo ragazzo così ho dovuto fare le presentazioni. Tornata a casa mia sorella ha cominciato a dire che Salvatore ha delle brutte nomine, e perché io no!, non parliamo di brutte nomine.

“Quello ha la fedina penale sporca”

Vuol dire che glie la laverò io.

“E’ stato nel carcere minorile, ha un passato poco pulito”.

A me parli di passato poco pulito?, io non ho voce per parlare, dove lo trovo un ragazzo che mi porta in pizzeria?

“Tu gli fai comodo a quello, chi paga la pizzeria, chi la macchina quando si rompe, chi la benzina? Se lo trovo una sera glie ne dirò quattro.”

Una sera sono stata male, con la febbre altissima, non potevo uscire né potevo dirglielo perché non ho il telefono, non sono uscita per alcuni giorni. Salvatore ha chiesto mie notizie a mio fratello, lui non gli ha detto che ero malata perché mia madre gli ripete sempre che i fatti nostri non li dobbiamo dire a nessuno. Salvatore una sera suona il campanello di casa, io stavo un po’ meglio per cui mi sono potuta alzare e ho visto che era lui. In quel periodo andavo d’accordo con mamma per cui le ho chiesto se potevo far salire in casa un amico così evitavo di parlargli nelle scale. Mamma mi da il suo permesso. Offro a Salvatore un caffè, lui chiede a mamma il permesso di fumare. Fu così che quando non c’era papà o mia sorella Salvatore saliva in casa. Mamma non impediva la cosa. Una sera però mia sorella è rincasata prima del solito, ha trovato Salvatore è ha fatto una scenata terribile, è diventata una furia, ha cacciato in malo modo il mio ragazzo, io i suoi ragazzi non li ho mai cacciati di casa, mi sono sempre fatta i fatti miei. Sono iniziati da allora una serie di brutti litigi con mia sorella durante i quali lei spesso mi cacciava di casa. In quel periodo mia sorella si stava lasciando col ragazzo per cui scontava il suo nervoso su di me non potendolo fare con mio fratello che era sotto la protezione di mamma. La mia vita era diventata un inferno, proposi allora a Salvatore di lasciarci:

“Tu devi lasciare me? Io devo lasciare te”.

Non accettava questa umiliazione. Decidemmo allora di incontrarci vicino al campo sportivo, lontano da casa, ma mia sorella lo venne a sapere, poi vicino alla cantina sociale, in periferia, ma mia sorella lo venne di nuovo a sapere, poi in estrema periferia, vicino ad un seminario. I nostri incontri cominciarono a diradarsi, ero sempre più depressa, cominciai a vestirmi di nero, a dimagrire e infine mi allettai. Il medico di famiglia disse che se continuava così mi avrebbe dovuto ricoverare in neurologia. Io non volevo perché mi mettevano nel reparto maschile. Piano piano ho trovato la forza di reagire, di tirare avanti grazie anche agli psicofarmaci e ho iniziato a frequentare la vostra struttura. Dopo un lungo periodo di assenza ha rivisto Salvatore, gli ho detto che frequentavo il vostro servizio e lui mi detto che ci veniva anche il fratello. (Ho conosciuto il fratello di Salvatore, io sono stata l’unica ragazza di cui Giacomo non è stato geloso, quando l’ho rivisto al vostro centro lui mi ha riconosciuta subito e mi ha detto: ”Tu sei Rita, sei la fidanzata di mio fratello!”. Io sono stata così contenta.) Ho ripreso i rapporti con Salvatore, nel frattempo mi ero anche operata. Lui è venuto anche al policlinico a trovarmi ero piena di drenaggi. Mia sorella mi assisteva e quando l’ha visto ha detto subito: ”Nascondi la sacca delle urine che sta male farla vedere” poi è uscita dalla stanza perché con lui non voleva parlare, faceva su e giù nel corridoio e fumava. Salvatore si sedette vicino a me io volevo tanto abbracciarlo, stringerlo forte ma non potevo. Gli dissi: anche adesso non mi baci? Lui mi baciò sulla fronte, avevo le labbra piene di piccole ferite, un effetto dell’anestesia. Ritornerai a trovarmi?

“Io vorrei tornare a trovarti ma vedi tua sorella mi odia eppure non le ho fatto niente”.

Era piuttosto freddo, distante.

“Rita, ma tu ne avevi parlato con lui della tua decisione di operarti?”

Si, Salvatore però non era d’accordo, diceva che non era importante tanto “lui” (il sesso maschile) non ci dava nessun fastidio. Come, dicevo io, tra me e te c’è proprio quest’intruso, c’è questa protuberanza che ci divide, come la linea Maginot, come il muro di Berlino che divide la Germania est da quella ovest. Quando sarò operata tu ti avvicinerai a me come io mi avvicino a te.

“A me non importa niente, poteva darmi fastidio se avevi l’erezione come me”.

Io però sono stata irremovibile, per me era troppo importante. Era bello quando lui mi chiedeva se mi piaceva il suo pene. Si, dicevo io, ne ho visti tanti quando ho fatto il militare, ma belli come il tuo mai.

Io:“Rita tu hai fatto il militare?”

Si, diciotto mesi, in marina a Taranto presso l’ospedale militare, gli ultimi tre mesi mi trasferirono a Brindisi, lì stavo bene. A Taranto mi facevano tanti dispetti: lassativi nel cibo, lo sgambetto e io cadevo con tutti i piatti per terra, gli altri graduati ridevano “così impari a fare la femmina, dicevano, la natura ti ha fatto maschio e maschio devi essere”. Poi piano piano hanno imparato ad affezionarsi a me visto che non sono aggressiva, che non graffio, sono la solita ragazza sottomessa. In camerata eravamo in diciotto, tutti maschi e ci dovevamo spogliare. Poi hanno iniziato con il sesso ed è stato terribile.

Io: "Ti hanno violentata?”

No, non mi hanno violentata, la violenza è quando ti prendono in due-tre e ti fanno qualcosa, loro invece volevano essere fatti i pompini, nella loro fantasia non c’ero io, c’era la loro ragazza. Se non lo facevo erano mazzate.

Io:“Allora ti hanno usato violenza”

No, violenza no, violenza è quando ti prendono in una stradina ….

Io:“Nella strada o in caserma sempre botte sono”

Si ma la violenza è quando ti penetrano nella vagina io allora non avevo la vagina. Essere violentata vuol dire che qualcuno ti prende, ti bacia con la forza cioè sono loro che fanno con violenza qualcosa a te, qui ero io che facevo qualcosa a loro. A Brindisi fu diverso, nelle stanze eravamo in tre, c’era più pulizia, più igiene, non facevo docce con ammucchiate. Anche là però qualche episodio spiacevole è successo. Quando non avevano i soldi per le prostitute mi costringevano a toccarli. (Sempre io a loro, loro a me mai, mai che mi hanno regalato un abbraccio, una carezza). A casa quando andavo in licenza non dicevo niente, loro erano contenti che facessi il militare perché speravano che diventassi un vero uomo e poi anche perché non stavo con loro a dare fastidio e preoccupazioni. Quando finalmente finì il servizio militare ed ebbi il congedo, tornai a casa. Mio padre e le mie sorelle non furono contente, solo mia madre mi accolse bene, mio fratello, faceva le medie e non disse niente. Ora che ci penso mio fratello è stato l’unico in casa che non mi ha mai dato fastidio, con cui non ho mai litigato.

Io “Rita però all’esperto del tribunale tu hai raccontato che non hai fatto il militare, che sei stato riformato per problemi di salute” (vedi documenton.2)

C’è un’inesattezza, allora mi vergognavo, come, una ragazza che fa il militare?”

(Questa intervista è stata fatta ad aprile del duemila. La storia del militare non mi convinceva. L’ho riportata ugualmente perché non è poi così importante se i fatti sono o non sono realmente accaduti ma è importante anche come Rita immagina che i fatti possano accadere. Mi sono ripromessa comunque di verificare, con calma, la storia chiedendo, a tal proposito, notizie ai genitori. Dopo qualche settimana è venuto il padre in ufficio per raccontarmi le ultime “malefatte” di Rita e per chiedermi di metterla in “istituto”, anche in “manicomio” dovunque purchè lo liberassi di una presenza scomoda. Gli ho chiesto se Rita avesse espletato il servizio di leva e il padre ha confermato che era stata chiamata in marina ma che a causa dei suoi problemi di salute “non ha fatto neanche un giorno di militare”).

Io:“Torniamo a Salvatore, dopo l’operazione che successe?”

Dopo l’operazione io tornai a casa, ero ancora in convalescenza quando una sera sentii suonare il campanello. Capii subito che era lui, uscii sul pianerottolo (il citofono non funziona) e chiesi, chi è?, nessuno rispose, presi le chiavi, ancora mi chiudevano da dietro e poi non mi aprivano più la porta e scesi giù. Salvatore era in macchina, mi chiese di uscire, gli risposi che non potevo, avevo ancora il palloncino nella vagina, per farla dilatare, la pancia gonfia, poi però uscii. Gli dissi, Salvatore lo sai che adesso non c’è più nulla che ci divide? Mi aspettavo un po’ di entusiasmo invece lui fu freddo:

“per forza ti hanno operata.”

Non mi vuoi vedere? Mi alzo la gonna, lui guarda la pancerina e dice:

“Si, si ho capito adesso non c’è più niente”.

Non mi chiese di avere rapporti, né allora (non avrei comunque potuto perché i medici si erano tanto raccomandato: ”niente rapporti prima che passino almeno tre mesi”) né mai. Abbiamo fatto solo sesso orale, io bevevo il suo sperma che aveva un sapore diverso da quello degli altri, che sapeva di latte, zucchero, per me, che non potevo averlo nel mio utero, era un modo per averlo dentro di me. Dopo quattro, cinque mesi mi portò a Lecce, io non ci volevo andare, gli dissi: andiamo a casa tua,

“No ci sono i miei genitori”.

Andiamo in campagna,

“No ci sono i miei familiari”.

Andiamo vicino al cimitero, dove sono finiti tanti amori, lì nessuno ci disturberà,

“No”.

Andiamo al mare. Mi tenne contenta andammo al mare lui tenne la mia testa fra le sue braccia, io sentivo il suo respiro ed ero contenta, mi sentivo come una principessa delle favole e glie lo dissi.

“Vedi come ti tengo contenta io? Anche tu mi devi tenere contento, devi lavorare”.

E dove posso andare a lavorare? Devo andare a lavare le scale?, devo fare le pulizie a casa di qualcuno?, conosci qualcuno che sta cercando delle collaboratrici domestiche? Pensavo che si trattasse di un lavoro vero, invece mi porta a Lecce, in una strada buia, di periferia, mi fa vedere una ragazza molto bella, truccata, con una pelliccia e gioielli e mi fa:

“la vedi quella, quella è un’albanese, prima era una poveraccia peggio di te, ora ha pellicce e gioielli”.

Si avvicina e le chiede il prezzo. Poi si avvicina ad un’altra e ad un’altra ancora, le apostrofava come se le frequentasse da tanto tempo, a tutte chiedeva il prezzo e poi andava via, qualcuna di loro disse: “e quella vicino a te non è una donna?”.

 “No, è solo un’amica”

Io soffrivo da morire e quando non ne potetti più dissi, senti quelle la fica non ce l’hanno mica meccanica ma di carne ed ossa come me. Con loro devi consumare anche i soldi del preservativo, io ti faccio risparmiare anche quelli.

“Con te non mi sento pronto”.

Io pensavo: forse se lo accontento dopo sarà più buono con me e mossa da compassione le diedi centomila lire che avevo con me, tieni, gli dissi, scegli quella che più ti piace, l’albanese, la venezuelana, quella che vuoi.

“e tu che farai?”

Lasciami in una chiesa.

“Ma che chiesa e chiesa, Ti lascio qui, aspettami qui”.

Io mi sentivo male, lui non tornava, passò la polizia e mi chiese i documenti. Non ce l’ho i documenti, dissi, perché  non porto la borsetta, me la possono rubare. Un poliziotto disse che non sembravo una prostituta perché avevo la faccia pulita. “Dacci i tuoi connotati, come ti chiami, dove sei nata ecc.” Mi chiamo Rita Mancini, sono di Napoli e diedi indirizzo, numero telefonico, tutto inventato.

Gli chiedo: “Rita Mancini è un nome che ti sei inventata in questo momento?”

No, no è il nome vero che diedi allora, è il nome di Santa Rita da Cascia, Santa Rita da Cascia al secolo era Rita Mancini e io pensavo, Santa Rita aiutami tu. Il poliziotto mi fa: “E benedetta Rita vieni da Napoli per fare la prostituta qua”. Io non sono una prostituta, prendo la pensione, sto aspettando mio fratello. “Vedi che se fra un’ora ti ritroviamo qua ti portiamo in caserma” e se ne andarono. Dopo un poco si ferma una mercedes enorme e scende una ragazza bellissima, con dei capelli meravigliosi, con una pelliccia costosissima, tutta truccata e ingioiellata e con una voce di un maschio, una voce baritonale più forte di quella di Maria de Filippi, mi dice:

“Hei bella questa è zona mia se non sparisci ti spacco in due!”.

Spiego che non so che zona è questa, che non sono di Lecce e che sto solo aspettando un amico.

“Smamma che tu mi freghi tanti soldi”.

Sbattè lo sportello e se ne andò.

Io:E Salvatore dove era?”

A consumare con una prostituta, con una prostituta sì, che è andata con tanti uomini e che non sai mai se ha una malattia, con me, che non sono mai andata con nessuno, no. Quando Salvatore tornò io ero in lacrime, gli raccontai tutto. Lui bestemmiò, bestemmia piuttosto facilmente:

Io:“Perché non hai dato i documenti alla polizia?”

Io i documenti non ce li ho perché la mia tessera d’identità è ancora intestata ad un maschio. Lui mi disse:

“Qui dobbiamo venire tutte le sere, tu ti devi mostrare carina, gentile, ma non fessa, ti devi anche far rispettare. Quando si avvicina un cliente tu devi chiedere trentamila lire  per bocca, oppure per bocca e fica”.

No, io voglio fare l’amore solo con te e poi ho paura, da quando mi sono operata non l’ho mai fatto.

“La rimessa poi si allarga e non senti dolore”.

Io voglio stare con te.

“Starai con me, lo faremo davanti, vedrai come è bello”.

Salvatore mi hanno detto che è un piacere intenso che parte dal basso.

“Si è bellissimo ma se lo vuoi provare prima ti devi prostituire”.

Io dicevo di no, tutto, ma prostituta mai, mi tornavano alla mente le parole di mio padre, noi siamo una famiglia molto religiosa. Salvatore in macchina aveva un birillo di legno che il fratello aveva rubato al “Centro Diurno” e con quel birillo mi massacrò di botte. Io ero piena di lividi e insanguinata. Quando tornai a casa dissi che avevo avuto un attacco di ipoglicemia e che ero caduta. I miei mi rimproverarono: ”Perché esci?, resta a casa, c’è la televisione”. Quando tornò mia sorella e mi vide subito prese l’acqua ossigenata , le bende, mi disinfettò  e fasciò. “A te non è stato un attacco di ipoglicemia, non ne hai i segni, a te è stato Salvatore che non ha avuto i soldi e ti ha picchiata”. Da allora ogni volta che mi pagavo la pensione ne davo quasi metà a lui, più pagavo la benzina e tutto il resto. Dopo circa un mese, le ferite erano quasi guarite, dissi a Salvatore: facciamo l’amore e io ti pago. Come si paga un gigolò. Siamo andati a casa sua, ci siamo spogliati, questa volta non c’era più “lui” fra di noi. Salvatore si è messo su di me, giunto alle piccole labbra mi ha fatto schiattare di voglia ma non mi ha penetrata, non voleva. Fu come un matrimonio non consumato. La centomila lire l’avevo data per niente. Dopo di allora ci rivedemmo solo un’altra volta: questa è l’ultima volta che ci vediamo, gli dissi.

“No dai, che dici, io mi sono abituato a te”.

Tu ti sei abituato a me? Io mi sono abituata a te che sei bello come il sole, a me nessuno mi vuole, neanche gli schizofrenici che frequento al “Centro”, ma sono decisa come non lo sono stata mai (eccetto che per l’operazione). Nel lasciarlo ho sofferto molto ma mi sono vendicata anche a nome di tutte le ragazze che lui ha lasciato, e che cosa non sono mica degli oggetti gli altri! E poi dovevo scegliere tra mia sorella e lui. Mia sorella un giorno mi disse: “Io a te non ho mai detto che non devi avere un ragazzo, puoi scegliere chi vuoi, anche un mio ex ragazzo, non mi dà fastidio, ma non Salvatore. Salvatore è un delinquente, uno che non ha voglia di lavorare. Quello può fare solo un mestiere: il magnaccio”. Io ebbi paura, mi venne la tremarella, mia sorella non sapeva quanto c’era andata vicino. Io dovetti scegliere come quando una madre ha suo figlio in grembo, è in pericolo di vita e deve scegliere tra la sua vita e quella del bambino. Io dovevo scegliere tra mia sorella e Salvatore.

Io:“Perché dovevi scegliere?

Perché quei due quando si incontravano erano come l’arcangelo e lucifero, non so chi dei due è lucifero ma quando si incontravano erano parolacce da tutti e due, minacce da tutti e due, menavano tutti e due.

Io:“Perché si sono menati?”

No menavano me, mia sorella una volta mi ha tirato una bambola di porcellana che mi ha spaccato due denti e mi ha ferita sul viso. Salvatore era intelligente capì che c’era lo zampino di mia sorella:

“E’ stata lei a farti cambiare no?”

No, gli ho detto, io non sono cambiata, l’unico cambiamento che ho fatto è stata l’operazione, ma tu non ti sei mai infiammato di me, non mi hai mai coccolata. Dimenticati di me e io di te conserverò il ricordo di una storia importante. Gli ho chiesto un ultimo abbraccio, un bacio: “Scordatelo” mi disse e me ne andai. Tornai a casa a pezzi. Lui ha cercato di riabbordarmi, è venuto perfino qui al “Centro” a cercarmi ma io non ho ceduto. Per non

essere rintracciata ho cambiato chiesa e così sono uscita dalla sua vita.

 

2-7 RITA E GLI “ALTRI SALVATORE”

Salvatore non è stato l’unico ragazzo di Rita anche se per lei è stata la storia più importante, quella che, a suo dire, le ha dato di più. Altre storie hanno preceduto e seguito quella di Salvatore. Storie “squallide” (come le ha definite lei)  di ordinario sfruttamento e sopraffazione: “A parte quella di Salvatore le altre sono solo squallide storie di persone perverse che hanno voluto sfogare con me la loro perversione. Mai qualcuno che ha voluto stare con me”. Nonostante ciò Rita non si arrende. Determinata ha sempre cercato nell’altro (di sesso maschile) non solo il “principe azzurro” col quale vivere “felice e contenta” ma qualcuno che accettandola confermasse la sua identità, il suo essere nel mondo. Parte svantaggiata e lo sa. Non solo per la presenza dell’”intruso” (il suo pene che ad ottobre del 1997 eliminerà definitivamente) ma anche per un corpo che, nonostante le cure ormonali, non risponde ai canoni classici della femminilità: Sono troppo alta, legnosa, non vedi? Ho solo la terza misura di reggiseno, cos’è la terza misura a tutta me? Niente. Ho chiesto di fare l’intervento col silicone, mi sarei accontentata anche degli scarti degli altri interventi, ho detto ai medici che ero disposta a dare un rene in cambio, ma non c’è stato niente da fare. Non ho bei fianchi, solo le gambe, anche se troppo lunghe, almeno sono diritte. Io vorrei essere piccola come te. Tu si che sei molto femminile”. Cerca Rita di sedurre cercando di sfruttare il più possibile ciò che ha ed ecco minigonne mozzafiato,(per mostrare le gambe) abiti semi trasparenti, poco scollati e attillati che mettono in risalto la sua magrezza: “Io sono una donna nata dopo, dovrei avere qualcosa in più da mostrare”. Non usa un trucco pesante. Assottiglia solo le arcate sopracciliari: non vuole essere scambiata per una prostituta. Assume un atteggiamento umile, sottomesso, non dice mai parolacce né alza mai la voce. Se contrariata piange. Fiumi di lacrime che non servono solo a manifestare un dispiacere ma anche a far affogare i tentativi che l’altro fa per imporre un suo punto di vista. Se contrariata Rita piange e continua imperterrita a proporre la sua posizione, il suo punto di vista senza cedere di un millimetro. Tutto questo le sembra “molto femminile”. (Questo atteggiamento cambia radicalmente quando Rita è in famiglia. Con i genitori, le sorelle, Rita alza la voce e le mani, dice parolacce e diventa molto volgare). Rita si rapporta agli altri ragazzi mettendo in atto un sottile gioco di seduzione (vestendosi in un certo modo, frequentando certe strade e quartieri, mostrandosi gentile, disponibile e sottomessa. Dai suoi racconti, veri o inventati che siano non emerge mai che è lei a prendere l’iniziativa, sono sempre loro, i ragazzi, a farlo perché anche questo è “molto femminile”) per poi scaricarli: “In questo sono come mia sorella che lascia sempre i ragazzi per prima”.

Riporterò ora un’intervista semistruturata fatta su questo tema:

“Rita quando hai avuto la tua prima storia con un ragazzo?”

“Ero adolescente, si chiamava Carlo, aveva dodici anni, un anno più piccolo di me, andavamo a scuola insieme. Non è stata subito una storia di sesso. Ho iniziato a frequentare Carlo andando anche a casa sua, abbiamo fatto i compiti insieme. Io non ero brava in matematica, lui si; io andavo bene in italiano, storia … e lui no perciò ci aiutavamo a vicenda. E’ successo che, quando la madre non c’era, e spesso non c’era perché i genitori di questo ragazzo gestivano un bar, abbiamo iniziato ad abbracciarci, a darci qualche bacio. E’ stato bello fino a quando non abbiamo iniziato a fare sesso. Ho dovuto fare i conti con il mio corpo che rifiutavo. Mi sentivo molto imbarazzata. “Lo so come sei fatta” mi diceva. Ho interrotto il rapporto perché andava bene fino a quando c’erano gli abbracci i baci, poi mi imbarazzavo, non mi sentivo appagata. La coppia Dio l’ha fatta uomo e donna. Questa coppia, la mia e di Carlo, era per me la massima trasgressione. Non era trasgressione mettere calze da donna, pantaloni femminili, ma che la coppia fosse di due maschi si. Dio li creò maschio e femmina. Non facemmo più i compiti insieme. Lui si arrabbiò: “Come faccio con i compiti di italiano, di epica … e poi per me va bene”. “Per me no perché io sono femmina solo nella mente. Ci stiamo trascinando nella polvere tutti e due e questa polvere poi la mangeremo. Dopo tanti anni ho rivisto Carlo, non l’avevo riconosciuto, lui riconobbe me, mi disse che sta a Milano, che si è sposato, però non porta la vera.

Io:“Pensi che non si sia sposato?”

“No, no gli uomini non portano sempre la fede. Mi chiese come stavo, se avevo trovato qualcuno. Gli risposi di no ma che in compenso mi ero operata”.

Io:“E dopo Carlo?”

Sono state  storie consumate in strade di campagna, senza importanza. In confronto alla storia con Salvatore le altre sfigurano e finisco col dimenticarle. Io credo nel grande amore. Per i miei genitori, che sono fascisti, una mia relazione con un maschio è vista come un rapporto tra omosessuali. Per loro io sono sempre un maschio. Il fascismo condanna ciò perché è stata un’epoca di virilità. Tante volte mamma e papà dicono che se era per loro io per loro al confino dovevo andare, anche ora che sono operata”.

Io:“E la storia con Mario?”

Con Mario è stato un rapporto platonico. Di lui mi ricordo solo un bacio sulla fronte. A lui piacevano i ragazzi. Mario, quando l’ho conosciuto aveva poco più di vent’anni, io ero qualche anno più grande (mi sono sempre piaciuti i ragazzi più piccoli di me, quelli più grandi non mi interessano). L’ho conosciuto tramite il gruppo della chiesa. E’ stato proprio lui ad inserirmi nel gruppo parrocchiale, io frequentavo la chiesa stando sempre in disparte. Mi venne vicino, era un bel ragazzo, capelli ricci, occhi chiari, vestiva sempre elegantemente, era profumato, aveva qualche gioiellino. Disse: “Donna, nessuno ti ha condannata e nemmeno io ti condanno”. Io ero stupita, queste parole le ha detto Cristo. “Scusa cosa ho fatto per essere condannata?”

“Non accetti il sesso con cui sei nata”.

 “Guarda che la frase che hai citato va bene per quella donna del vangelo e per quello che lei aveva fatto, io non ho rubato il marito o il fidanzato a nessuno”. Si presentò, disse che mi conosceva e mi invitò nel gruppo. Prima chiese il permesso al parroco che fu d’accordo a patto che non facessi stranezze. (Cioè voleva dire a patto che non usassi gonne corte, trucco pesante, delle scarpe non mi disse niente, disse solo di non fare molto rumore con i tacchi). Mario mi portò a qualche festa, a conoscere i suoi e cominciarono le chiacchiere. Le malelingue sono dappertutto anche in chiesa. Poi invitai i miei a conoscere i familiari di Mario (il padre è un analista, la madre un’infermiera professionale, i due sono separati) e fu uno sbaglio”.

Io:“I genitori di Mario ti conoscevano?”

“Si, il mio paese non è molto grande”.

Io. “Ti accettavano?”

“Si, anche perché Mario diceva che eravamo amici ed era la verità”.

Io:“Perché fu uno sbaglio far conoscere i tuoi genitori ai familiari di Mario?”

“Perché mio padre non sa parlare con le persone. Fece vedere chiaramente che non accettava questa amicizia. Poi il vedermi ai fornelli, a servire, a lavare i piatti gli dava fastidio perché erano faccende da donne. (Eravamo stati invitati a pranzo in campagna). Mia madre invece non fa problemi, parla poco, dice solo si e no. Mio padre ha la lingua lunga, più lunga della mia. Successe poi che mi dovevo cresimare. Mario voleva fare lui da padrino, io preferivo una suora o una donna anziana. Lui insistette e mi fece da padrino. Contattò una pasticceria, mi volle regalare un anello d’oro grosso, vistoso, non era per me. Sembrava un anello che portava Cesare Borgia, lo regalai a mia sorella, quella sposata che sta a Monaco. Facemmo la festa a casa mia. Lui però non ce la fece a pagare queste spese e cominciò a chiedermi soldi. Poi lui cercava casa, col padre e la sua nuova compagna non andava d’accordo e gli servivano soldi. Io non sono pentita di averglieli dati tanto se non li davo a lui li avrei dato a mio padre o a qualche altro. Mario era molto religioso e bigotto. Diceva che satana si presenta con la minigonna, gli abiti scollati, i facili costumi, i tacchi alti. Io dicevo che satana si presenta solo con il male. Mi faceva ridere con il suo fanatismo religioso. Per lui il sesso era il demonio. Io dicevo che se il sesso è vissuto con quel romanticismo che nella nostra epoca è andato a farsi friggere, non è peccato. Se conosci il ragazzo, se gli vuoi bene, diventa una comunione, un anello invisibile che unisce. “no, diceva lui, tu non parli con la tua bocca, ma con quella del demonio”. Mi faceva impazzire, gli volevo bene ma con quei discorsi mi creava imbarazzo, metteva troppo il vangelo nella vita quotidiana e guai a noi se mettiamo troppo il vangelo nella vita quotidiana, ci ridurremmo ad essere degli straccioni, delle nullità. Staremmo più vicino a Cristo ma ciò ci denuderebbe completamente. Ci farebbe rinunciare anche ad un abito decente, ad u paio di scarpe decenti, ci ridurrebbe come San Giovanni Battista che mangiava locuste nel deserto. La parola di Cristo bisogna ascoltarla ma non alla lettera. Mario non aveva un lavoro stabile. Aveva studiato ma non aveva né lauree e forse neanche un diploma. Diceva che aveva fatto teologia e filosofia e che al terzo anno di seminario se ne era uscito perché non sopportava la vita chiusa. La richiesta di soldi divenne sempre più pressante. In tutto gli ho dato quattordici milioni praticamente tutti gli arretrati della mia pensione, senza che mi sono divertita, senza che abbiamo mai fatto nulla a livello sessuale. Anche se in campagna abbiamo dormito insieme non è mai successo niente. Lui mi giudicava, non voleva che dipingessi le unghie, che portassi gonne corte e tacchi alti perché attiravano i ragazzi. Diceva: “Sembri una Gaysha”. Aveva ragione ma era un mio modo per dire al mondo: Sono una donna. Ora non mi trucco più cosi perché non ho bisogno di dimostrarlo. A casa cominciarono a protestare, c’era sempre più aria di burrasca e siccome non amo le guerre di secessione preferii interrompere il rapporto. Anche perché lui si faceva vedere in giro con tante ragazze belle e alla fine era solo un gay che mascherava il suo stato di omosessualità. Non era come me che ho sempre scoperto subito le carte mostrandomi per quello che ero, una transessuale. Lui nascondeva perché temeva di perdere il rispetto degli altri, faceva catechismo ai bambini, era intelligente, furbo. Io del mondo esterno me ne sono infischiata, l’importante era mostrare la mia femminilità interiore. Lui frequentava bellissime ragazze per conoscere i loro fidanzati.. Tutto sommato mi  ha fatto partecipare alle feste, mi ha portato in giro quindi i soldi che gli ho dato è stato come un rimborso spese. Quando mi sono lasciata con Mario, nessuno del gruppo si è fatto più vedere, sono tornata più sola di prima. Anche il prete a stento mi salutava per strada. Io ho cambiato chiesa. Dopo Mario ci sono stati ragazzi con cui mi sono incontrata poche volte. Brevi storie in cui ti usavano e basta. Mi ricordo un rapporto con un ragazzo minorenne, sedici-diciassette anni. Io allora mi avvicinavo alla trentina, avevo fatto il trattamento ormonale ma non l’intervento. Con questo ragazzo mi è piaciuto moltissimo, forse perché vedevo in lui la mia giovinezza che era andata via. Ci siamo visti in una rimessa dove metteva lo scouter e dove c’era uno specchio, degli attrezzi per i lavori agricoli, un po’ di tutto. Ci siamo distesi sul letto, io su di lui. Lui mi aveva fatto togliere i vestiti. “Fammi vedere cosa c’è sotto”. Restai con reggiseno e mutandine bianche di pizzo. Disse che ero meglio spogliata che vestita però non si lasciava baciare. Mi dovevo fermare solo nella zona dei pantaloni. Mi faceva capire che il gioco era tutto delineato dall’ombelico in giù. Il fatto che non si lasciava baciare mi pesava per cui poi ho interrotto. In questo sono come mia sorella che lascia sempre i ragazzi per prima. Io mi rifugiavo nel sacro per fuggire al sesso. Quando andavo a messa lui protestava: “Ma quanto dura questa messa?, io ho bisogno di te”.

“Tu hai bisogno di me solo per usarmi, per fare delle schifezze”. Quando si rivestiva io andavo alle sue spalle per abbracciarlo ma lui si arrabbiava. Sto meglio adesso che non ho nessuno cosi nessuno mi spezza la dentiera, non ho lividi. Io non ho chiesto niente a nessuno solo amore e sentimento. Cosa ho avuto in cambio? Solo fretta. La ragazza che pretende la discoteca, la catenina, viene accontentata a me che non pretendo neanche un bicchiere d’acqua non danno neanche l’essenziale. Ultimamente sono andata al cimitero a portare le palme ai defunti. Sono andata a piedi: Mia madre mi aveva dato i soldi per l’autobus ma ho preferito usarli diversamente. Ho comprato i fiori che voleva mamma, la verdura che voleva mamma e ho fatto il mio dovere. Sono tornata a piedi editando di passare da una strada centrale perché abitano dei parenti che è meglio non incontrare ed ho fatto una strada più periferica ma molto trafficata dalle macchine. Ho incontrato Giovanni. (Giovanni è un ragazzo di un paese limitrofo che Rita ha conosciuto una sera che stava aspettando il pulman. Lui si fermò e le offri un passaggio. Andarono in una strada di campagna e fecero del sesso. Lui non fu violento ma “gentile ed educato” poi però non si videro più). Giovanni voleva darmi un passaggio. Mi disse: “Ho voglia di te”.

“No, torno dal cimitero e non voglio perdere quell’aria mistica”. Ero piena di Cristo perché nel cimitero si è a contatto con la morte e attraverso la morte si raggiunge la resurrezione e quindi Cristo. Lui mi detto: “Sali che fai da sola in questa strada periferica e trafficata?” Aveva aperto lo sportello e spostato il borsello dal sedile, rimase male perché non salii. Mi invitò di nuovo: “Non ti porto da nessuna parte, ti porto da tua zia”. Non andai, quando dico no è no. Ero piena di Cristo.

L’ultima storia l’ho avuta con Federico. Una sera Federico mi fa :

“Vuoi uscire con me?”

“No, gli dissi, non sto uscendo con nessuno e da quando non esco con nessuno mi trovo bene cosi”. Lui mi prese per mano e mi tirò in macchina:

“Sali o ti meno”.

“Voglio scendere, voglio andare a messa, sta suonando a tocco”. Ma Federico non volle sentire ragioni mise in moto e partì anche se io gli dicevo che volevo scendere. Fermò in una strada di campagna:

“Voglio un pompino”. “E perché proprio da me? Esci con una ragazza una della tua età, io ho quarant’anni (era una bugia, ne ho trentasette), sono malata.”

“Sono venuto fin qua …”. Mi ha costretta a fare sesso orale ed ad ingoiare lo sperma perché è maniaco della pulizia. Io dicevo:

“Ma questo è sesso, sesso sporco, non è amore”:

“Questo mi piace di più di quando lo faccio con le ragazze”.

“Ma io voglio amore, voglio le carezze, i baci. Non si è fatto baciare neanche sull’ombelico dove i peli si attorcigliano. “Non mi piace baciare” diceva. Salvatore si lasciava almeno baciare, stringere. A Federico invece interessava solo sentire il pene sbattere nelle gengive, nella gola. Le ultime volte è stato terribile perché voleva un rapporto anale, ma a me non è mai piaciuto perché è un rapporto che si ha tra omosessuali. Poi non lo vedo dietro, non mi accorgo se mi vuole bene o no. Io glielo dicevo e lui rispondeva:

“Ma quante cazzate dici”.

Io poi mi sono indebolita, forse gli ormoni mi hanno indebolita e non ho più opposto resistenza. Ho sentito un dolore terribile. Lui non mi accarezzava neanche i capelli. Io dicevo: “basta” e piangevo. Lui mi picchiava (pugni, schiaffi) e continuava ad avere rapporto. Alla fine gli ho detto chiaro e tondo che con lui non uscivo più.

“Io non sono cattivo, tu mi fai diventare cattivo. Tutto per una pizza nel culo”.

“Siamo usciti tre volte prima di avere il rapporto anale (tre volte in cui abbiamo fatto sesso orale): La volta successiva mi sono opposta decisamente: Lui mi ha mollato un pugno gonfiandomi il naso: Io sono scappata e mi sono rifugiata in una chiesa, lì non ha avuto il coraggio di cercarmi. Senza amore mi sento come una prostituta che non si fa pagare. Prima del concilio di Trento si diceva che noi donne non abbiamo un’anima, così per questi ragazzi siamo come corpi senz’anima”.

2-8 RITA E LA “VOCAZIONE” RELIGIOSA”.

“L’identità, dicono P.L. Berger e T. Luckman, è un elemento chiave della realtà soggettiva, e come tutte le realtà soggettive, è in rapporto dialettico con la società”. (1) Rita, abbiamo visto , avverte problemi d’identità di genere fin da quando andava all’asilo. Tutta la sua storia è una ricerca incessante di una identità che la definisca e le assegni un posto.   Una identità che, alla domanda: “Chi sono io?”, dia una risposta accettabile e non angosciante. Una risposta accettabile sia da Rita che dalla società. Fino a prima della conversione andro-ginoide, alla domanda “chi sono io?” la società (la famiglia, la scuola, l’altro generalizzato) rispondeva: “tu sei un maschio e se non riconosci di essere un maschio sei un depravato”. Rita si diceva: “tu sei una femmina che, per un errore della natura, si ritrova un sesso maschile, se correggi questo errore tutto tornerà normale, naturale”. Rita affronta dunque l’operazione con grande determinatezza, ne è profondamente convinta, non l’hanno dissuasa il parere contrario dei genitori, né quello di Salvatore (“perché lo vuoi fare “lui” non ci dà nessun fastidio”), né quello di altri. L’operazione, col suo tagliare, cucire e ricucire le restituirà finalmente la sua identità di donna.. Sarà donna a tutti gli effetti, anatomicamente, giuridicamente, anagraficamente: potrà esibire con orgoglio la sua tessera d’identità, andare in qualsiasi ambulatorio e aspettare insieme a tutti gli altri senza il terrore di essere chiamata con un nome maschile che non è il suo, può persino sperare di costruire un futuro con Salvatore. Accetta Rita di sottoporsi, periodicamente, con assiduità, ad una psicoterapia che farà a Bari da un noto professore: “la legge lo prevedeva, la legge prevedeva che noi trans prima di essere autorizzate ad operarci dobbiamo fare diversi anni di psicoterapia e io li ho fatti. Lo psicoterapeuta me lo aveva detto, mi aveva detto: “Rita non farti illusioni, dopo l’operazione non cambierà niente” ma io non ci credevo, pensavo che me lo dicesse per dissuadermi e invece aveva ragione, oh se aveva ragione!”. Dopo l’operazione infatti le cose non cambiano: a casa continuano a chiamarla col suo nome maschile, al Centro di salute mentale continuano a chiamarla col nome femminile, come si è fatto fin dal primo giorno in cui si è presentata ma non la si accetta come donna a tutti gli effetti (come vedremo meglio anche in seguito), nel paese e per il paese lei resta sempre una trans, i ragazzi continuano a canzonarla: “Arriva Rita-Rito” e a fargli scherzi stupidi e crudeli e infine (ma non per importanza) Salvatore la rifiuta più di prima. In Salvatore Rita ha riposto tutte le sue speranze, Salvatore è l’unico che può confermarle la sua nuova identità, darne consistenza e tangibilità, Salvatore col suo volerle un po’ di bene rappresenta il padre, la madre, la società tutta, se lui l’accetta allora poi l’accetteranno tutti gli altri. Ma Salvatore non l’accetta, la cerca, esce con lei, non riesce però ad avere, con Rita, un rapporto sessuale da uomo a donna, da maschio a femmina, neanche quando lei lo paga. Cerca allora di sfruttarla, di farle fare la prostituta. Rita comprende bene la situazione, un giorno mi dice: “Sai Teresa ad attrarre i maschi (Salvatore) era la mia ambiguità, il mistero, l’essere maschio e femmina, svelato il mistero, tolta l’ambiguità, non interesso più”: Paradossalmente Rita adesso è più trans di prima. Se la transessualità prima era tutta rappresentata in un pezzo di carne, in un muscolo, in un qualcosa di concreto, l’intruso (come lo definisce a volte Rita) che si può rimuovere, tagliare, buttare via, ora però che l’operazione è fatta, il concreto è eliminato, la sua transessualità non è stata eliminata, gettata, distrutta, permea invece la sua essenza, il suo essere nel mondo è perciò più profonda. Come liberarsene? Rita cerca un posto fisico e simbolico che le restituisca o meglio che le dia quell’identità chiara, certa non ambigua che da sempre cerca perché indispensabile per vivere. Un’identità che sia accettata e accettabile sia da lei che dalla società. Tale posto fisico e simbolico viene ravvisato nella comunità religiosa. Rita comincia a chiedere di andare in convento, di farsi monaca. Lei vuole così mettere in atto quello che Berger e Luckman chiamano processo di ristrutturazione. “La ristrutturazione richiede processi di risocializzazione, i quali somigliano alla socializzazione primaria, perché devono ridistribuire radicalmente i valori di realtà e quindi riprodurre in misura notevole l’identificazione fortemente affettiva che univa l’individuo con l’ambiente familiare. Questi processi si differenziano dalla socializzazione primaria in quanto non partono da zero, e quindi devono risolvere il problema di demolire e disintegrare la precedente struttura convenzionale della realtà soggettiva”. (11) Rita questo problema, cioè demolire e disintegrare la precedente struttura convenzionale della realtà soggettiva, non ce l’ha, lei, con tutta la sua realtà esistenziale, è già a pezzi. Berger e Luckman continuano affermando che il “prototipo storico di ristrutturazione è la conversione religiosa (…) la comunità religiosa (…) fornisce l’indispensabile struttura di plausibilità per la nuova realtà. (…) Questo richiede la segregazione dell’individuo dagli “abitanti” di altri mondi, soprattutto dei “coabitanti” del mondo che ha appena lasciato. L’ideale sarebbe una segregazione fisica; se questa non è possibile per qualsiasi ragione, la segregazione viene postulata per definizione, vale a dire per mezzo di una definizione degli altri che li annichilisce. (…) In ambedue i casi egli non è più “incatenato a dei miscredenti” e così è protetto dalla loro influenza potenzialmente distruttrice della realtà” (12).

Siamo alla fine del 1998 inizio del 1999, la storia con Salvatore è ormai finita, Rita inizia a vestirsi di nuovo di scuro, anzi adesso usa esclusivamente tutti abiti neri :”Sono in lutto” dice. Lei è sempre stata religiosa, credente, viene da una famiglia religiosa, un fratello del padre è prete, una sorella del nonno suora (è morta alcuni anni fa all’età di 97 anni). Va tutti i giorni in chiesa ad ascoltare la “Santa Messa”. Usa la chiesa come una seconda casa, un posto fisico dove, se non è accolta nel senso più profondo del termine, almeno non ne è cacciata, dove non viene derisa, insultata, dove può far finta che il messaggio d’amore, di accettazione, di accoglimento del vangelo cristiano è rivolto pure a lei, un posto dove rifugiarsi quando è in difficoltà. (lo abbiamo visto prima quando a Lecce chiede a Salvatore di lasciarla in chiesa e Salvatore si opporrà perché aveva altri scopi, altri obiettivi; lo vedremo poi in un altro episodio in cui Rita racconta una breve relazione che avrà con un altro ragazzo). Rita non è un elemento attivo all’interno della comunità parrocchiana, non fa parte di nessuna associazione né ha rapporti amicali con qualcuno. Fino ad ora non solo non ha mai pensato ad entrare in un ordine religioso ma si è anche opposta energicamente quando i genitori volevano imporle di farlo. Più volte infatti si è lamentata, con noi del servizio del fatto che il padre voleva farla entrare in convento:” In convento ti tagliano i capelli e i capelli sono molto femminili, non ci si può truccare, si devono avere abiti lunghi, a volte fino ai piedi e poi hanno tante di quelle regole stupide…Io non sopporto le suore, ti ricordi quando venni qui, all’inizio, ti chiesi se c’erano delle suore. Se ci fossero state le suore non ci sarei mai venuta”. (Il nostro servizio è allocato in un ex istituto per bambini prima gestito da suore). Ora invece chiede di essere aiutata ad entrare nell’ordine delle Benedettine, se non è possibile in qualsiasi altro ordine religioso. Il suo sogno, dice, è vestirsi da monaca. Il suo ideale è Santa Rita da Cascia: “Santa Rita da Cascia ha avuto tutto, è stata una donna eccezionale, prima si è sposata, ha avuto dei figli e poi si è fatta suora. Io quando ho rifatto il documento d’identità, dopo l’operazione, volevo chiamarmi Rita ma ci volevano troppi soldi perché dovevo cambiarmi completamente il nome”. Rita  contatta l’ordine delle Benedettine ma non viene accettata, probabilmente la sua “fama” l’ha preceduta, mi chiede perciò di contattarlo io: “Tu sei assistente sociale a te danno ascolto, se ci metti una buona parola tu…Per diversi mesi Rita chiede a tutti di essere aiutata ad entrare in una comunità religiosa senza raggiungere lo scopo.

Riporterò ora la trascrizione di due colloqui avuti a fine aprile e inizio di maggio del duemila seguendo il protocollo dell’intervista semistrutturata. Chiaramente quanto ho scritto fin’ora è il risultato di numerose conversazioni avute nel corso di questi ultimi anni ad iniziare dal 1997:

“Rita, quando hai avvertito in te una vocazione religiosa?”

“Più che una vocazione religiosa è, o meglio era un ideale”.

“Quando ha cominciato ad essere attratta dalla chiesa?”

“Nei primi anni dell’adolescenza, volevo essere donna e monaca. Donna ci sono riuscita, monaca no. Mi sarebbe piaciuto vestirmi da monaca con il sorgole, la pettorina dove c’è un taschino per mettere il necessaire come l’orologio, un crocifisso. Delle maniche molto larghe. Le monache di oggi non vestono più così. Hanno accorciato le gonne, eliminato il sorgolo e la pettorina. Si sono laicizzate al massimo. Sono sempre stata attratta dall’ordine delle Benedettine perché la loro fondatrice, Santa Scolastica, sorella di San Benedetto, mi attrae per il suo essere sposa di Cristo, perché loro portano i capelli rasati, portano il velo lungo, sono rimaste fedele alla regola della loro fondatrice. Non si sono secolarizzate, non si sono fatte prendere dalla mania di modernizzarsi”.

“Hai sempre detto che le tue prime esperienze con le suore non sono state buone, poi come mai hai deciso di entrare in un ordine religioso?”

“Volevo essere monaca per assomigliare a suor Michelina quella che col suo grembiulone copriva tutte noi”.

“Hai frequentato il catechismo?”

“Si non mi sono mai allontanata dalla chiesa, ho fatto la prima comunione e la cresima. (Quando ero ricoverata al policlinico per l’operazione, la mattina veniva il cappellano a darci la comunione allora io dicevo a mia sorella di aiutare il prete, di portargli il vassoio, di suonare il campanellino. Lei, che è atea, ha sbuffato e dopo mi ha anche rimproverata. La mattina dopo, come arrivava l’orario del prete, se ne andava a prendere il caffè. Io ho sempre fatto la comunione, tutti i giorni). Mi faceva catechismo una suora che mi rimproverava sempre perché io facevo l’inchino e l’inchino lo facevano le femmine, i maschi dovevano fare al massimo una genuflessione. Io invidiavo le bambine per i loro abiti che quel giorno (quello della prima comunione) erano bellissimi. Io invece ero vestito con abiti maschili che poi ho tagliato con un forbicione in mille pezzi, così come avrei voluto tagliare quel bambino che ero allora. Ero innamorato di Cristo forse perché vengo da una famiglia molto religiosa. Ho uno zio prete, laureato in lettere e filosofia. Ha sempre insegnato, non ha mai avuto una parrocchia. Una mia prozia era monaca, figlia della carità di Santa Caterina Labourè. E’ morta a novantasette anni. Io speravo che lei mi lasciasse in eredità un suo abito, sapeva che volevo farmi monaca ma non mi ha mai aiutata: “Visto che ho sbagliato io non voglio che sbagli anche tu, qui ti mettono sotto, trovati un ragazzo e sposati”. Questo mi disse prima di morire”.

“Ma perché volevi farti suora?”

 “Io volevo farmi suora per essere protetta dal mondo. Pensavo che le grate mi proteggessero dal mondo, che il recinto del monastero non facesse passare la cattiveria. E poi le monache vanno vestite bene non come me che sembro una stracciona. Dicevo: come sono eleganti con quella cuffietta bianchissima, stirata, con quella fede d’oro. Se fossi stata monaca sarei stata ben vestita. Il no di madre Giuseppina (la madre superiore delle Benedettine) mi ha messo a terra, Almeno mi avessero fatto provare. Io pensavo se le Benedettine mi hanno rifiutato figuriamoci le agostiniane, le clarisse”

“Come hai contattato suor Giuseppina?”

“Andavo sempre a trovarle ma loro non mi ricevevano mai. Ed è che sono di vita attiva, figuriamoci se fossero state di vita contemplativa. Un giorno stavo al Centro Diurno e stavo male, avevo litigato con gli operatori perché non volevo mettere i panni (da qualche tempo Rita è incontinente) che per me sono come un cilicio. Allora pensai: Ora me ne vado, ma dove vado? A casa no che li sto pure peggio. Me ne andai a piedi, senza dire niente agli operatori altrimenti mi avrebbero ostacolata. (L’istituto delle suore è in un altro comune e dista dal Centro Diurno circa sei chilometri). Per la strada si fermarono due vecchi con la loro macchina e mi diedero un passaggio. In macchina mi sentii male. Non avevo mangiato, avevo fatto lo stesso l’insulina ed ero andata in ipoglicemia. Arrivati all’istituto questi due anziani suonarono il campanello ma le suore non aprivano. Loro continuavano a suonare e suonavano, suonavano. Le pensionate si affacciarono tutte e dissero che le suore stavano riposando e che loro non potevano aprire a nessuno. I vecchi insistevano perché io stavo male in macchina, tremavo tutta, avevo come una specie di attacco epilettico. Loro mi buttarono l’acqua in faccia, mi bagnarono tutta. Alla fine, dopo tanto baccano, una suora uscì fuori. Io gli baciai il vestito, la mano ma non servì a niente. Nel frattempo avevano chiamato la polizia, l’ambulanza”.

“Chi aveva chiamato la polizia e l’ambulanza?”

“Le suore che mi avevano visto da dietro le vetrine delle loro grate. Uscì solo suor Carmela di settant’anni che poteva fare? Dissero i carabinieri che erano venuti con una gip: “Ci avete chiamato come se ci fosse un ladro, un’assassina ed invece ci troviamo di fronte ad una deficiente”. Le suore fecero una brutta figura. I carabinieri mi chiesero i documenti io glieli diedi perché ormai avevo fatto il cambio del nome e quindi potevo portare tranquillamente la tessera d’identità. Mi misero sull’ambulanza e mi portarono al Servizio d’Igiene Mentale. Ecco come è finita una vocazione. Le suore si sono allontanate dal vangelo, non dalla Regola che rispettano moltissimo, ma dal vangelo si altrimenti non mi avrebbero respinta”.

“Perché ti hanno respinta?”

“Cristo non ha mai respinto nessuno, neanche le prostitute, neanche le adultere. Cristo diceva: “Ti siano rimessi i tuoi peccati, vai in pace e non peccare più”. Quando volevano lapidare l’adultera con grosse pietre, come quelle che buttavano a me i ragazzini, Cristo diceva a loro: “Scagli la prima pietra chi non ha peccato e poi donna nessuno ti ha condannato vai…” Senza dire dell’ospitalità di San Benedetto e di sua sorella Santa Scolastica. Non c’era questo egoismo. Mi hanno respinto perché sono povera, non ho un corredo, una dote”.

“Come facevano a saperlo?”

Perché glielo dissi io un’altra volta che avevo parlato con loro. Si  è fatto tanto rumore per niente. Sono tante le delusioni che ho avuto. Parlano di crisi religiosa e poi respingono. Io speravo di costruire la religiosa dopo aver costruito la donna, in modo poi da unire la donna alla religiosa. Come monaca almeno mi sarei sentita realizzata, mi sarei specchiata nelle consorelle. Cristo a detto: ”Dove sono due o tre di voi io sarò là”. Oggi se non hai le conoscenze non puoi fare neanche la monaca”.

“E la tua prozia monaca, tuo zio prete?”

“La prima riposa in pace, mio zio se ne frega. Non c’è nessun rapporto, non ci frequentiamo. Praticamente i miei genitori non hanno rapporti con i familiari”.

 

2-9 RITA E LA SUA FAMIGLIA.

Il nucleo familiare di Rita è composto da sei membri: due genitori e quattro figli (prima due maschi e due femmine ora sono invece tre femmine e un maschio). Il padre, di sessantotto anni, nonostante sia pensionato, continua a fare il contadino per un bisogno economico: "prendo qualche diecimila lire in meno a giornata perché non sono più come quando ero giovane, ma almeno lavoro". Non ha mai frequentato la scuola pubblica. Ha imparato a leggere e a scrivere con una maestra che faceva scuola in casa. Nel suo paese, sessanta-settanta anni fa i figli dei contadini disertavano la scuola pubblica (probabilmente perché gli orari non si conciliavano con le esigenze lavorative). Un giorno Rita ha raccontato di aver incontrato questa maestra di suo padre: "Veramente non so neanche se era una maestra diplomata o semplicemente se era una che sapeva leggere e scrivere. La signorina A…  mi ha detto che ha tenuto mio padre all'asilo, alla scuola e anche al catechismo ed era il più "trubbe" (irrequieto di tutti.) Non so se l'episodio è vero comunque denota il concetto che Rita ha di questa figura genitoriale. Concetto che in un'altra occasione ha approfondito ed ampliato: "Da piccolo mio padre era un bambino terribile e violento sempre pronto a fare a botte con gli altri. Lui mi ha raccontato che una volta con un morso ha quasi staccato un orecchio ad un coetaneo. Spesso la gente andava a casa di mia nonna a lamentarsi e mia nonna diceva: "Che posso fare?" Anche il mio bisnonno, mi hanno detto,  era cattivo e crudele tanto che morì da solo in una "lammia" (la lammia nel mio paese è una casa di campagna col tetto piatto, il trullo invece ce l'ha a punta) perché nessuno voleva avere più a che fare con lui. Lo trovarono parecchio tempo dopo la sua morte. E mio padre è violento come suo padre, suo nonno che era un alcolizzato. Mio nonno faceva il carrettiere, aveva sette figli. Quando la sera tornava a casa spesso era ubriaco e aveva accessi d'ira: Mia nonna ha avuto tante di quelle botte che ha trovato un po’ di pace solo dopo la morte del marito. Anche mio padre prima beveva molto e tornava a casa spesso sbronzo. Da quando ha avuto problemi alla prostata lui dice che ha smesso, ma mia madre non ci crede, quello nell'ape avrà certamente qualche damigiana di vino però a casa non torna più ubriaco. Lui ha rapito mia madre cosicchè lei poi è stata costretta a sposarlo. Si sposarono nel 1955. Mio padre spesso picchiava la mamma tanto che per le botte perse il primo figlio che aveva nel grembo. Poi mia madre si ammalò di tubercolosi. Eravamo molto poveri ed abitavamo in una casa molto umida. Fu anche ricoverata in un sanatorio ma per fortuna c'erano già le medicine appropriate e guarì. Dopo un anno dall'aborto, mamma era ancora ammalata di tubercolosi, nacqui io. Forse sono state le medicine che mamma ha preso a farmi nascere così, col sesso sbagliato. Quando nacqui papà era emigrato a Francoforte, in Germania. Mi hanno detto che lui era molto orgoglioso che il suo primogenito fosse maschio. La prima volta che mi ricordo ho visto papà dovevo avere tre o quattro anni. Lo cacciai via: "Chi è questo mamma? Caccialo via", ora è lui che caccia me: Mia madre diceva a mio padre: "Non ti conosce, non ti ha mai visto". Per me vedere questo maschio così alto, forte e mascolino fu uno spavento. Mi ricordo che nonostante mi accordasse con le caramelle e le cioccolate io continuavo a cacciarlo. Poi cominciò a picchiarmi per i miei comportamenti femminili. Mi picchiava sempre in testa.

Quando papà era lontano, a Francoforte e io non lo conoscevo pensavo che il mio papà fosse un fratello di mamma: Questo è uno che non ha mai avuto figli, era un tipo più donna che uomo. Cioè era uomo, faceva il macellaio ma non aveva una macelleria, non lavorava mai in compenso faceva i lavori di casa, scopava, spolverava. Al contrario mia zia faceva l'uomo, ha sempre lavorato fino all'ultimo". Rita continua a tenere, nei confronti del padre un comportamento poco conciliante. Spesso vengono alle mani e litigano anche per apparenti futili motivi (una volta per esempio, perché Rita aveva mangiato tutto il salame che c'era in frigo) . "L'altro giorno siamo andati a cena a casa di mia sorella Anna. Io non mi sono seduta vicino a lui perché sennò avremmo litigato".

"Perché avreste litigato?"

"Perché lui provoca".

"Come provoca?"

"Comincia a dire che deve pagare questo e quello, che io non aiuto la famiglia, la sfrutto ecc…"

Il padre continua a chiamare Rita con un nome di maschio e parla di lei come se fosse ancora maschio.

La madre ha sessantanove anni. Per Rita è analfabeta: "Lei dice che sa leggere però quando c'è qualcosa da leggere dice sempre che non ha gli occhiali e che non vede bene e se lo fa leggere dagli altri. E' sempre depressa però non vuole prendere le medicine, non è come me. Con mio padre non è mai andata d'accordo. Prima prendeva sempre botte ora è diventata una donna più forte, se mio padre fa la mossa i picchiarla lei dice: "Ora chiamo Oronzo (Oronzo è il figlio più piccolo) e lo mando  dai carabinieri". A casa spesso, dopo che hanno litigato, dormono in stanze separate. Poi fanno la pace e tornano a dormire insieme. Tanti anni fa, noi figli non eravamo ancora nati, papà gli aveva fatto gli occhi neri, e non col rimmel , mamma scappò e andò dietro alla processione che fanno, a giugno, nel mio paese. Mamma è una donna molto religiosa. Lei dice che mentre era dietro la processione fu illuminata da Gesù che gli disse: "Separati ora che non hai i figli". Mia nonna però la convinse a restare con mio padre: "Che dirà la gente? Ti chiameranno svergognata, sarai marchiata". Insomma la convinse a stare col marito e ricominciarono le liti e le botte. Questo fatto mia madre l'ha sempre rinfacciato a mia nonna. Con me mia madre a volte è buna e comprensiva, a volte no, è come la gatta al lardo. Periodi che mi accetta e periodi che mi respinge. Il suo figlio preferito però è Oronzo, lo sta rovinando quel ragazzo, sempre appiccicata a lui, vanno a fare la spesa insieme, vanno a messa insieme, fanno tutto insieme (eccetto il sesso naturalmente) per il resto è come se fossero una coppia. Qualche mese fa Oronzo è stato licenziato, lei (mia madre) non l'ha più mandato a lavorare: "perché ho paura a restare sola" dice, gli ha fatto perdere tre occasioni di lavoro, una come commesso in un negozio,, una presso un rivenditore di frutta e verdura e una presso un sindacato o un patronato. Un giorno mia sorella Anna si è infuriata con mia madre e le ha detto chiaramente che lei era stata brava ad educare le figlie femmine ma che era un disastro con i maschi, "hai rovinato il primo ora vuoi rovinare anche il secondo?".

Anche la madre continua a chiamare Rita col suo nome maschile. Lei però, a differenza del coniuge, quando parla con noi operatori, se ne rende conto e spesso si corregge. (Più volte abbiamo invitato la famiglia ad usare il nome femminile quando si rivolgono a Rita. Rita ha due sorelle: 1) Caterina di trentatrè anni, sposata, vive a Monaco di Baviera in Germania, ha due figli. Di lei Rita parla poco e quando la nomina è sempre per mettere in evidenza che non l'ha voluta con sé a Monaco; 2)Anna di trentadue anni. Di Anna Rita parla molto e spesso, in genere usa toni accesi, le rimprovera che per colpa sua ha lasciato Salvatore ma la stima, la rispetta e la teme. Spesso durante i litigi tra Ria e il padre Anna è intervenuta prendendosi qualche colpo e rischiando grosso, come quando ha tolto di mano a Rita un coltello col quale minacciava il padre. (Episodio confermato e riferito da tutti i membri della famiglia). Ho avuto con Anna diversi colloqui. Forte, schietta, sincera, senza peli sulla lingua è quella che ha cercato e cerca di stare il più vicino possibile a Rita nei confronti della quale nutre un grande affetto. Quando la nostra psicologa conobbe Anna disse: “Che strano tra Anna e Rita è Anna che ha il ruolo maschile, Rita quello femminile. Si sono invertiti i ruoli”. Anna, nel momento del bisogno è sempre vicino a questa nuova sorella. E' lei che è stata vicina a Rita quando si è operata: "e non è stato facile, mi ha detto un giorno, perché Rita era capricciosa. Ad un certo punto non resisteva più, voleva andar via, togliersi tutti i tubi che aveva". E' lei che è andata in un sex-schopping  per comprare "l'intruso" che i medici avevano consigliato per far allargare la vagina. Anche questo non fu facile: "Mi vergognavo, mi sentivo in imbarazzo. Certamente il gestore del negozio avrà pensato che era per me". E' lei che ha medicato le ferite quando Salvatore l'ha picchiata, è lei che ha sempre cercato di inserirla fra i suoi amici: "Poi però non l'ho più fatto, mi metteva troppo in imbarazzo,, si avvicinava ai ragazzi, li accarezzava, si alzava la gonna per far vedere a tutti che non aveva più l'apparato sessuale maschile". Anna attualmente convive con un ragazzo: "E' stata lei che non si è voluta sposare, dice Rita, il ragazzo era pronto a farlo, lui l'adora".

In fine c'è Oronzo, ventiquattro anni, celibe, ultimogenito. Anche di Oronzo in genere Rita parla poco: "Oronzo è sempre stato quello che non mi ha mai difesa né mi ha mai criticata, si è sempre fatto i fatti suoi. Peccato che mamma lo sta rovinando. Alla morte dei miei genitori lo so, Oronzo andrà a vivere con Anna o con Caterina, il problema sarà il mio che nessuno mi vuole, neanche le suore mi hanno voluta.

Tutta la famiglia quando parla di Rita usa il suo nome maschile, nonostante l'operazione il cambio dei documenti e l'atteggiamento inequivocabilmente femminile. Tale atteggiamento è iniziato molto presto, quando Rita era ancora un "bambino piccolo": "Mettevo gli abiti di mia nonna materna che quando restò vedova venne ad abitare con noi. Mettevo le sue gonne, le sue scarpe…quelle di mia madre no, mai, lei era molto gelosa delle cose sue non mi faceva mai entrare nelle sua camera da letto, non mi faceva toccare niente. Volevo molto bene a mia nonna, è morta da diversi anni,. Spesso mi coricavo con lei e anche se facevo la pipì a letto non si arrabbiava mai. Era nonna che mi comprava i giocattoli delle femmine. Io dicevo: "Nonna comprami la bambola". Lei diceva: "No che poi tua madre chi la sente". Invece poi mi accontentava sempre. Io mi rifugiavo sempre sotto le sue sottane quando tirava "butta aria" cioè quando ero in difficoltà e lei mi compativa, mi comprendeva. A sei-sette anni i miei genitori mi portarono a visita presso la "Nostra Famiglia" (una struttura per bambini handicappati ) Mi fecero entrare in una bella stanza dove c'erano tanti giocattoli. Io mi buttai su quelli femminili, mamma intanto raccontava tante cose su di me, sul marito: "Ho trovato un uomo rozzo, violento. ( Io stavo sdraiato a terra e giocavo). Ho sposato un uomo sbagliato, così nascono i figli sbagliati. Mia madre è stata una svergognata, mi ha impedito di separarmi". Poi mi hanno portata anche da altri medici sia per l'enuresi notturna, mi pare che si dice così, sia per le tendenze femminili. Tutti dicevano la stessa cosa: "Suo figlio è sano ha un apparato uro-genitale perfetto".

Rita ha vissuto i suoi primi anni d'infanzia in un mondo prettamente femminile (la madre, la nonna, le suore dell'asilo). Il padre era assente perché emigrato in Germania. La figura maschile più presente, lo zio materno, a cui la madre era particolarmente legata, era "più donna che uomo". Le altre figure maschili del parentado, i nonni il padre, erano persone violente, almeno così le descrive lei.

Rita ha, all'interno della famiglia, un comportamento aggressivo e violento. Alza la voce e le mani, dice le parolacce, bestemmia i morti ecc… Nella nostra struttura, che Rita frequenta quasi tutti i giorni, tranne brevi periodi, da circa quattro anni, lei non ha mai alzato la voce e le mani, non ha mai detto una parolaccia, neanche quando provocata, né agli operatori né agli altri utenti, né ha mai usato un linguaggio volgare (tranne quando racconta le sue esperienze sessuali, ma lì riporta le parole dei ragazzi e in genere fa precedere la parola volgare da un breve attimo di esitazione). Fuori dalla famiglia Rita interpreta la parte della donna secondo quello che è il suo ideale o l'immagine che della donna ha interiorizzato. Nella famiglia invece esprime tutta la sua aggressività. Spesso i genitori ci hanno detto: "Non la vedete cosi, lui con voi si mostra buono buono a casa invece diventa una iena. Non lo sopportiamo più, voi dovete aiutarci a separarci da lui. Dovete metterlo in manicomio o dove volete basta che lo portate via". Spesso l'hanno cacciata di casa poi però l'hanno sempre riaccolta. "La vigilia di natale dell'anno scorso, ha raccontato Rita, stavo a letto con la sola camicia da notte. Vennero mio padre e mia sorella. Mia sorella era furiosa, disse a mio padre: "Buttiamola con tutto il lenzuolo in mezzo alla strada, con i suoi documenti e speriamo che passa quel furgoncino che rapisce le persone per donare gli organi". Girava voce nel paese che di notte circolava un furgone nero che prendeva quelle persone sole e disperate che non erano in casa e le portava via. Fortuna che c'era mia madre e mio fratello che si opposero".

"Ma tu ce avevi fatto per farli arrabbiare?"

"Non mi ricordo, forse avevo comprato una sottoveste e un paio di calze da un negozio, non avevo pagato e il negoziante si era rivolto a mio padre per avere i soldi. Io non ho neanche le chiavi della mia camera altrimenti mi sarei chiusa. Fecero accorrere tutto il condominio: A mio padre piace fare la sceneggiata napoletana".

Rita spesso chiede di andare in una casa famiglia ma il nostro dirigente non è d'accordo: "Se ne andrebbe dopo pochi giorni" e viene il sospetto che forse l'insistenza con cui Rita chiede di entrare in questa struttura è dovuta proprio al rifiuto categorico del nostro responsabile. A volte parla di voler andare ad abitare da sola in un altro paese, ma ha paura: "Io vorrei abitare da sola ma non posso perché se anagraficamente sono una trentasettenne di testa ho appena diciannove anni, sono infantile".

"Perché ti senti infantile?"

"Se fossi intelligente mi sarei presa una casa modesta, non avrei sprecato tanti soldi nel vestirmi, con la pensione e il sussidio potevo tirare avanti".

Economicamente Rita non è autosufficiente, la sua pensione non supera le quattrocentomila lire mensili a cui bisogna aggiungere il nostro sussidio, circa trecentomila lire mensili (la pratica per il sussidio viene rinnovata ogni anno ma non è detto che sarà approvata). Rita inoltre non sa gestire il denaro "Lo so sono una scialaquatrice, i soldi in mano mia non durano, ma in fondo che sono i soldi? Solo un passamano". Rita non ha mai rimpianto il denaro dato ai ragazzi, neanche i quattordici milioni a Mario, anche se in cambio ha ricevuto più soprusi e frustrazioni che considerazione e affetto. L'unico tentativo concreto che lei ha fatto per separarsi dalla famiglia è stato quello di entrare in un ordine religioso. Lì aveva visto la possibilità di poter ristrutturare la propria identità. "E' vero che ho un passato torbido ma il noviziato in cosa consiste? Nella nascita di una nuova donna, in una rinascita, tanto è vero che si lascia il passato alle spalle, si cambia nome. Lì non ci sono gli specchi, non come nel mondo, non sarei costretta a specchiarmi continuamente, accetterei meglio i miei difetti. Mi specchierei nelle altre consorelle e sarei tutt'uno con loro, saremmo una cosa sola, saremmo "chiesa". Ora invece mi specchio nello specchio vero e piango". D'altra parte spesso lei riconosce di essere legata alla famiglia: "Forse c'è qualcosa di psicologico in me che non va, forse perché non sono intelligente, forse perché non sono buona a nulla, io non riesco a tagliare il cordone ombelicale, ormai incancrenito, che mi tiene legata alla mia famiglia, ai miei genitori, a mia sorella. Con mio fratello no perché con lui non ho mai litigato, forse perché l'ho cresciuto io, ci sono tredici anni di differenza".

 

3 - 9 RITA E IL CENTRO DIURNO

Il Centro Diurno è una struttura riabilitativa gestita da una cooperativa che all'uopo ha stipulato una convenzione con l'A.U.S.L. BR/1 e la cui supervisione è affidata al dirigente della Unità Operativa Psichiatrica. Ospita, in regime di semiresidenzialità (è aperta dalle ore 8.00 alle ore18.30) utenti che a causa del loro disagio psichico presentano una forte conflittualità e con la famiglia e col "mondo sociale" più in generale. E' perciò una figura intermedia che evita lo sradicamento dalla famiglia e dal proprio ambiente sociale. Gli operatori di tale struttura gestiscono diversi laboratori: pittura, sartoria, psicomotricità ecc. Attraverso tali attività e su un progetto terapeutico individuale, concordato con il dirigente dell'Unità Operativa Psichiatrica, si effettuano interventi terapeutici finalizzati alla cura e al recupero. Rita è inserita nel Centro Diurno agli inizi del 1998. A tutti è presentata come femmina, col suo nome femminile.

In un primo periodo non emergono difficoltà. Rita si pone nei confronti degli operatori e degli altri utenti con un atteggiamento collaborativo. Gentile, educata, è sempre pronta a collaborare nelle attività e ad aiutare i suoi compagni. Privilegia le attività prettamente femminili, cucire, lavare i piatti, il pavimento ecc. Si dice pienamente soddisfatta di tale inserimento: "E' una gioia per me sentirmi chiamare col mio nome di donna. Finalmente non ho più da trascorrere giornate vuote e piene solo di solitudine". Anche gli operatori sono soddisfatti: "L'inserimento di Rita non ha presentato nessuna difficoltà lei ha subito fatto amicizia con gli altri, è collaborativa".

I problemi cominciano dopo i primi mesi quando Rita non solo ha raccontato a tutti, con dovizia di particolari, la sua storia di transessualità e le sue esperienze sessuali, ma comincia a far proposte di rapporti intimi a tutti i maschi con cui si relaziona: agli educatori, all'autista, agli altri utenti, non importa se giovanissimi o maturi, se biondi o bruni. Le sue gonne si accorciano ancora di più tanto che basta che si sieda o che si pieghi un pò perché le sue gambe restino completamente scoperte. Il suo abbigliamento, ritenuto "indecente" comincia a disturbare tutti gli operatori, sia quelli del Centro Diurno che quelli dell'Unità Operativa, con cui ha contatti quotidiani, sia perché il Centro suddetto è allocato nello stesso stabile sia perché Rita viene tutti i giorni nell'infermeria della U.O.P. per la terapia. Se all'inizio il suo abbigliamento "indecente" è tollerato perché addebitato alla sua povertà economica (Rita dice di non potersi permettere di acquistare abiti nuovi per cui usa solo quelli regalati da altri) tale tolleranza comincia, man mano che ci si rende conto che il modo di vestire non è dettato da una necessità ma da una scelta, a scemare sempre di più fino a diventare intolleranza. (Più di qualche operatore le ha procurato degli abiti più lunghi, più "decenti", abiti che Rita o non ha usato o prima di usarli li ha debitamente accorciati). Più volte Rita viene ripresa e rimproverata. Si arriva persino a sospenderla, per qualche giorno, dal Centro, per punizione. A Rita, la nostra équipe ha approvato un sussidio economico per l'ammontare complessivo di circa tre milioni. Un sussidio che è cogestito. La somma infatti viene depositata su un libretto bancario al portatore, intestato a lei e custodito nelle nostra cassaforte da dove viene preso quando bisogna fare un prelievo in vista di una necessità, di una spesa. A gestire praticamente questa somma siamo io, in qualità di assistente sociale, e lei. La scelta della cogestione, al posto dell'autogestione (nel cui coso è l'utente che porta a casa la somma e la gestisce come meglio crede) è concordata con Rita la quale la preferisce in quanto: "Se porto i soldi a casa se li prendono tutti i miei genitori e se li spendono per cose loro". Spiego che questi soldi devono servire per le sue necessità, non per le necessità della famiglia e che bisogna documentare anche come viene speso il denaro. Concordiamo che per ora i genitori non sapranno niente di questo sussidio per evitare inutili conflitti. Rita non chiede mai di prelevare denaro per fare acquisti. Più volte la sollecito in tal senso invitandola a comprarsi scarpe e vestiti nuovi. Lei rifiuta sempre: "No, lasciamoli per quando arriveranno le spese dell'avvocatessa. Spendere dei soldi per me non ne vale la pena" (Rita dopo l'operazione ha in corso la pratica per il cambiamento anagrafico del nome). Più volte gli operatori mi sollecitano a comprare vestiti per Rita e più volte faccio presente che Rita non è d'accordo e che su questo punto è irremovibile. Un giorno, siamo ad aprile del 1998, Rita chiede di prelevare dal suo conto bancario 400.000 lire per comprarsi le scarpe e una magliettina. La cifra mi sembra consistente e glielo faccio presente. Lei dice che per trovare il numero giusto di scarpe deve andare per forza a Bari dove c'è un solo negozio che vende scarpe di tutte le dimensioni, da quelle per i nani a quelle per i giganti. Considero che fin 'ora non solo non ha mai chiesto dei soldi ma che, sollecitata, non li ha neanche voluti per cui non sollevo ulteriori obiezioni. Dopo una settimana noto che Rita continua ad usare sempre le stesse scarpe vecchie, piccole e sgangherate. La chiamo per sollecitarla ad acquistare le scarpe nuove e lei fa presente che quei soldi li ha dovuti dare a casa perché c'era il canone dell'acqua e della luce da pagare:

“Non ti preoccupare, non ti mortificare (in realtà ero arrabbiata), sono serviti per una buona causa, è meglio così, io posso tirare avanti con le scarpe che ho". Da quando Rita è venuta per la prima volta al nostro servizio ad oggi, nessuno di noi ha conosciuto la famiglia di Rita perché lei preferiva così: "Cosa devono venire a fare, mio padre lavora tutto il giorno, mia madre è sempre depressa e non esce mai". Dopo l'episodio delle scarpe insisto, con Rita, nel voler fare una visita domiciliare e per conoscere i suoi genitori e per spiegare il programma terapeutico che sta facendo da noi e per precisare gli obiettivi del sussidio economico. Lei gentilmente ma fermamente si oppone: "Tanto tutto è inutile, loro non capirebbero, sono molto poveri, hanno tanti problemi e poi ti tratterebbero male, se vedi come hanno trattato male l'assistente sociale del consultorio! Quella poverina cercava di aiutarci e loro la prendevano a male parole. Quante gliene dicevano! Sono fatti così non c'è niente da fare, con loro non si può parlare, non si può dialogare". Faccio presente che sono abituata a rapportarmi con famiglie "difficili" poco collaborative, "aggressive", che questo fa parte del mio lavoro, ma lei è irremovibile, sembra un po’ in ansia. E' chiaro che non vuole che li incontri che teme qualcosa. Mi sorge il dubbio che Rita non è come appare, che forse quello che dice non è poi tutta la verità e che forse teme che scopra come stanno veramente le cose. Comincio a rivedere tutto quello che fino ad ora ha raccontato a me e agli altri e a considerare che forse quelle che in un primo momento mi erano sembrate "esagerazioni" fossero in realtà delle vere e proprie bugie. Contatto la psicologa del consultorio che l'ha conosciuta prima di noi. Le chiedo se Rita è manipolativa. La psicologa in un primo momento appare sorpresa poi dà una risposta che io giudico di tipo diplomatico, una risposta che si dà quando non si sanno come stanno veramente le cose, una risposta che non afferma né nega: "Ma forse… in certe occasioni può darsi che… ecc." Ma se le cose stanno come sospetto Rita è molto manipolativa, non ci dovrebbe essere alcun dubbio. Ci penso ancora su per un bel po’ poi decido di chiederle la documentazione delle spese sostenute col sussidio (cioè la fotocopia della bolletta ENEL e dell'acqua) ricordandole l'impegno che abbiamo nei confronti dell'amministrazione. Rita dopo un po’ di giorni non mi porta né la fotocopia riguardante l'ENEL né quella riguardante l'acqua ma la fotocopia delle ricevute relative al canone di fitto mensile che i suoi genitori pagano per l'appartamento che occupano e qualche scontrino di un negozio che naturalmente porta la data del giorno prima. Ho la conferma che Rita ha mentito. ( E' stato solo dopo molti mesi che Rita mi dirà che quei soldi li ha dati a Salvatore). Riconsidero tutta la sua storia, osservo con un'attenzione diversa come  si pone, ciò che dice, ciò che fa.(Chiedendomi cioè se quello che mostra è solo ciò che consapevolmente, deliberatamente, vuole mostrare). Ipotizzo che quei soldi saranno serviti a pagare qualche ragazzo. Decido, per il momento, di non dire niente agli altri operatori per non aggravare ulteriormente la posizione di Rita. (Anche se questo mi comporta una certa conflittualità interiore). L'intolleranza degli operatori per il suo abbigliamento è diventata molto forte e molto evidente. Inutili, fino ad ora, si sono rivelati tutti i miei tentativi fatti per cercare di spiegare che Rita ha col suo corpo un rapporto non adeguato, che ancora non ha imparato bene a vestirlo da femmina, che è come quelle persone che per tanti anni non hanno mai potuto avere qualcosa e che quando l'hanno esagerano. Me la prendo con la psicologa: perché invece di chiamare Rita nella sua stanza per rimproverarla su come si veste non l'aiuta a riconciliarsi col suo corpo ad accettarlo? Ormai il rifiuto nei confronti di questa utente ha raggiunto livelli molto alti, la si tratta con distacco fino ad essere a volte persino sgarbate e tutto apparentemente per le sue gonne troppo corte. Anch'io provo, seppure in modo attenuato, perché razionalizzato, questo moto di rifiuto e la cosa non mi piace, rompe un ordine di senso (l'assistente sociale, la struttura psichiatrica devono accogliere colui che è portatore di un disagio non rifiutarlo). Cerco di spiegarmi il perché, cosa è che urta tanto, in fondo in televisione ed in giro si vede anche di peggio. Possibile, mi chiedo, che siamo diventati tutti una massa di bigotti? Considero che quando lavoravo al SERT venivano ragazze vestite con minigonne corte come quelle di Rita, con scollature profonde che non lasciavano niente all'immaginazione, con magliette tanto striminzite da lasciare l'ombelico scoperto eppure non davano "fastidio", né a me né agli altri operatori. Nessuno di noi pensava minimamente a riprenderle, a rimproverarle. Perché nella struttura psichiatrica si? E' l'avere a che fare con i "matti" che ci "autorizza" a dettare norme di comportamento? O è il fatto che Rita ha delle gambe lunghe e dritte ad urtare? In questo caso però il rifiuto deve coinvolgere solo il personale femminile mentre coglie anche quello maschile. C'è qualcosa di più che non riesco a cogliere. (Solo quando ho iniziato a fare questa tesi ho capito che ad urtarci tanto non era ovviamente la lunghezza della gonna ma il fatto che Rita con la sua transessualità, con la sua ambiguità, col suo non nascondere l'ambiguità rompeva un ordine di senso incriticabile, inattaccabile, inconfutabile: o si è maschi o si è femmine). So bene che è solo una questione di tempo e che la verità verrà a galla ma spero che gli altri operatori venendo maggiormente a contatto con la sua sofferenza, con il suo disagio riescano ad accettarla di più. I rapporti tra Rita e gli operatori invece diventano sempre più conflittuali. Rita comincia a presentare problemi di incontinenza. Perde urine dappertutto, sui divani, sulle sedie, nelle stanze, nel pulmino. Rifiuta i panni perché teme che si possano vedere e perché vuole sentirsi libera. Dopo varie contrattazioni accetta di mettere quelli di una certa marca che sono meno ingombranti e che costano di più. Usiamo i soldi del sussidio. Dopo qualche mese non vuole più usare neanche quelli. La portiamo a visita di controllo a Bari, dove ha fatto l'intervento. I medici, dopo accurate analisi ed ecografie, escludono decisamente che il problema possa essere una conseguenza dell'intervento. Ipotizzano una probabile conseguenza del diabete o un fatto psicologico. Rita intanto continua a fare altre analisi, a perdere urine e a non voler usare i panni. Viene sospesa dal Centro Diurno per l'ennesima volta. Questa volta però finiti i giorni di sospensione non rientra al Centro. Sono preoccupata. Non ho mai concordato con la pratica della "sospensione" mi ricorda la scuola dell'obbligo di una volta quando i bambini "cattivi e indisciplinati" venivano sospesi. Si è capito poi che non era quello il modo migliore di risolvere i problemi. Più volte ho fatto presente questa mia posizione, più volte questa è caduta nel vuoto. La psicologa sostiene questa prassi insieme al dirigente. (Oggi non si sospende più, dopo tanto insistere ma soprattutto dopo che diversi utenti, colpiti da "sospensione", non volevano più tornare al Centro Diurno si è rinunciato a tale pratica). So che Rita, anche se al Centro non si trova proprio bene, a casa sta anche peggio. Cerco un modo per riagganciarla. (Durante il tirocinio avevo parlato di questo caso col tutor interno e con gli altri tirocinanti. Il professore mi aveva chiesto di scrivere la storia di vita di questa ragazza ma io avevo rifiutato temendo di falsare il mio rapporto con Rita. Sapevo che non era un problema etico, il tutto sarebbe stato fatto in forma anonima e che non ci sarebbero stati elementi atti ad identificare il soggetto e quindi, in qualche maniera, a danneggiarlo. Sapevo che il problema era un problema mio, di mie sicurezze, o meglio di mie insicurezze. Temevo che scrivendo questa storia il mio rapporto con Rita potesse essere influenzato, falsificato. Temevo cioè di rapportarmi a lei in modo non corretto, di farle domande atte non a capire meglio la situazione che stavo affrontando ma la sua storia, il suo passato e che questo secondo fine finisse per prevalere o influenzare negativamente il mio rapporto con Rita. Non mi sentivo tranquilla e ho imparato, con gli anni, a non fare qualcosa di cui non mi sento tranquilla perché finisco per farla male. Il professore aveva capito le mie difficoltà e non aveva insistito. Infatti se poi ho deciso di fare la tesi su questo caso è perché ho acquistato più sicurezza. Certo ho dovuto affrontare alcuni problemi etici tipo; dire o non dire a Rita che stavo facendo una tesi sulla sua problematica? Il dubbio non scaturiva dal timore che Rita potesse non essere d'accordo ma dal mio timore che lei, sapendo che ciò che mi avrebbe detto sarebbe stato poi riportato, scritto, "abbellisse", "romanzasse" ancora di più la sua realtà esistenziale. Non dirlo mi è sembrata una scorrettezza intollerabile, maggiore del rischio su accennato per cui gliel'ho detto. Rita si è mostrata subito d'accordo anzi mi ha pregato di chiamarla tutte le volte che ne sentivo la necessità: "Sono felice di poter fare qualcosa per te dopo che tu hai fatto tanto per me". La verità è che a Rita piace molto parlare di sé). Ritornando al discorso che stavo facendo prima, io sono alla ricerca di un modo per ripristinare un rapporto con lei. Al Centro Diurno non può ritornare perché l'ultima volta che è stata sospesa le è stato detto chiaramente che senza i panni non può essere riammessa, ma neanche la posso "lasciar perdere". Come servizio psichiatrico non la possiamo rifiutare né con i panni né senza i panni. Dopo lunghe riflessioni decido di proporre a Rita di scrivere la sua storia di vita, di farlo nella mia stanza dove può venire anche senza i panni (avrei provveduto io a pulire tutto). In questo modo posso riaccogliere Rita ed evitare le proteste degli altri operatori. Propongo il progetto al dirigente della struttura psichiatrica che lo accoglie molto favorevolmente anche perché alcuni giorni prima era andato il padre di Rita a lamentarsi del comportamento della figlia e a minacciare di mandarla via di casa. Propongo quindi il progetto anche a Rita che accetta con entusiasmo. In un primo momento si offre di pulire ciò che eventualmente sporcherà, poi mi propone di mettersi il panno. "Guarda che non sei obbligata" le dico, "No, no lo voglio mettere io così sto più tranquilla che non ti sporco niente". Siamo andate avanti per qualche minuto io ad insistere perchè non mettesse il panno lei ad insistere perché lo voleva mettere. Con stupore mi sono resa conto che in questo copione le parti si erano invertite e che in pochi minuti di colloquio avevo ottenuto ciò che per diversi mesi, con lusinghe e minacce non si era riusciti ad ottenere. Rita si presenta il giorno dopo puntuale, mette il panno e comincia a scrivere con entusiasmo. Dato che ha il panno le propongo di ritornare al Centro diurno così può stare lontana da casa tutto il giorno e non solo le ore in cui sono in servizio. Accetta volentieri ma a patto che continui ad usare i mezzi di trasporto pubblici perché quando esce di casa e quando torna a casa vuole andare “libera”. Accetto. Dopo diverse  settimane Rita decide di mettere il panno anche quando esce di casa, si è stancata di viaggiare con i mezzi pubblici. Da allora frequenta regolarmente il Centro Diurno, ha anche allungato un po’ le sue gonne, quel poco che basta perché gli altri operatori non la ritengono indecente. I rapporti con tutti gli operatori (quelli della struttura psichiatrica e quelli del Centro Diurno) sono migliorati. Rita continua a dire le sue bugie o meglio, come le chiamo io, le sue verità fantasiose, a mettere in atto tutta una serie di provocazioni per attirare l’attenzione. (Qualche giorno fa per esempio è andata a letto completamente nuda. Chi vuole il pomeriggio può riposare per un’ora). Ma adesso tutti abbiamo imparato a conoscerci di più, ad accettarci di più per cui è diventato più facile comunicare, convivere.

Tempo fa quando le “verità fantasiose” di Rita procuravano scompiglio, disorientamento e rifiuto pensavo che se fossi riuscita a far accettare a Rita la sua pur difficile situazione Rita avrebbe smesso di rifiutarsi e quindi non avrebbe avuto più bisogno di dire bugie. Volevo cambiare Rita e Rita ha cambiato me. Sono stata io a cambiare, ad accettarla per come è perché, in questa situazione esistenziale, non c’è un modo “giusto” o “sbagliato” di essere ma ci sono solo tanti “modi” di essere che socialmente sono più o meno accettati, più o meno rifiutati. Tutti volevamo cambiare Rita e Rita ha cambiato tutti noi perché oggi tutti noi l’accettiamo, o meglio cerchiamo di accettarla per quella che è.  Sono grata a Rita per averla conosciuta, per avermi messo in condizione di riflettere e modificarmi. Mi ha fatto capire ancora di più il valore di un essere umano. Un valore che trascende qualsiasi caratteristica esso può avere. Non rinuncio alla speranza che anche Rita cambi. Spero di metterla in condizione di riflettere e modificarsi perché possa accettarsi e vedere la bellezza che è in lei (una bellezza che trascende i tratti somatici, il colore della pelle, le doti intellettuali) come in tutti noi. La bellezza di appartenere al “genere” umano.

 

3-10 RITA E IL SUO CONCETTO DI NORMALITA' E ANORMALITA'

Questo sottocapitolo  è il frutto di un colloquio avuto con Rita in data 17/8/2000 e non era previsto. La tesi infatti era stata terminata un mese fa ma le cose che sono emerse durante questo colloquio mi sono sembrate così importanti  da doverle riportare. Occorre precisare che la registrazione puntuale del colloquio (la parte tra virgolette)  riguarda solo la seconda parte del colloquio, la prima parte la sintetizzerò con mie parole e questo perché avendo terminatala tesi, ma non il mio lavoro con Rita, non ritenevo opportuno registrare parola per parola tutto il colloquio. Procediamo con ordine: Ho avuto il mio ultimo colloquio con Rita, prima di andare in ferie, a giugno scorso. Rita aveva deciso di non frequentare più il Centro Diurno perché a causa del suo diabete e delle crisi ipoglicemiche che si intensificano quando va al  mare gli operatori l'avevano esclusa dalle escursioni marine. Questa almeno era la versione che aveva dato a me. I genitori non erano d'accordo con questa decisione, a loro però Rita aveva dato un'altra versione; aveva detto infatti che non avrebbe più frequentato il Centro perché le facevano lavare sempre i piatti e fare altre faccende domestiche. Durante tutto il colloquio Rita aveva abilmente invertito le parti nel senso che era lei a consolare me . Mi diceva infatti di non preoccuparmi,  che tanto questo era il suo destino cioè quello di essere un'esclusa, che per lei non c'era posto in questo mondo e che il suo posto era in "Transilandia" cioè il Paese dei trans solo che questo Paese ancora non esisteva. Io mi sentivo impotente frustrata e addolorata. Impotente perché avevo già tentato, senza successo, di farla partecipare alle escursioni marine; frustrata e addolorata perché Rita non lottava contro questa esclusione ma l'accettava escludendo a sua volta tutti me compresa che invece non avevo nessuna voglia di escluderla e che vivevo questa situazione come un'ingiustizia che la "società" (in questo caso il Dipartimento di Salute Mentale) faceva non solo nei confronti di Rita ma anche nei miei confronti. Come essere umano uguale a Rita infatti mi sentivo offesa da questa decisione presa dai miei colleghi di lavoro e addolorata perché escludendomi e collocandomi dall'altra parte (quella dei normali, degli eterosessuali) Rita mi emarginava dal suo mondo. Ho trascorso le mie ferie riflettendo su questa situazione. Rita infatti si intrufolava nei miei pensieri impedendomi, a volte, di concentrarmi persino sugli esami da preparare. (Cosa questa che mi è successa spesso da quando ho iniziato a fare questa tesi tanto da farmi tornare in mente le parole del mio professore di tirocinio. Durante il tirocinio  avevo spesso esplicitato la mia difficoltà sia a scegliere l'argomento della tesi sia  a trattarlo. Il mio tutor interno mi ripeteva spesso che con la mia esperienza io la tesi ce l'avevo tutta in testa dovevo solo scriverla. Io non capivo, nella mia testa c'era il vuoto e poi ero restia a trattare il caso dei miei utenti sia perché mi sembrava di sfruttare il disagio altrui, sia perché non mi sentivo sufficientemente preparata. Temevo infatti che questo compito potesse influenzare negativamente il mio rapporto con gli utenti e che questi potessero considerare non autentico il mio interessamento. Se oggi ho potuto fare questa tesi lo devo al mio professore di tirocinio, all'esperienza e alle riflessioni che mi ha fatto fare). Durante queste riflessioni sono giunta  alla conclusione che il processo di emarginazione non è mai esclusivamente univoco ma biunivoco, cioè non è solo una sola parte che esclude l'altra perché anche l'emarginato, a sua volta, mette in atto, consapevolmente o inconsapevolmente, meccanismi di esclusione. Tornata dalle ferie ho chiesto agli operatori del Centro Diurno se Rita avesse ripreso a frequentare la struttura, il responsabile mi ha risposto di no e che a lui erano giunte voci che la davano in procinto di contrarre matrimonio. Contatto Rita telefonicamente e fissiamo un colloquio per il 17 agosto. Rita arriva puntuale, dice di aver smesso di assumere psicofarmaci, di non essere più incontinente e che tutto sommato sta bene, "Certo ho qualche periodo di depressione ma poi lo supero senza ricorrere agli psicofarmaci". Racconta che in questo periodo ha avuto delle avventure una con un ragazzo "biondo, occhi azzurri, bellissimo e pensare che a me piacciono i mori!". Un'altra con un ragazzo del suo paese, figlio di un noto medico che la voleva sposare ma lei ha rifiutato perché "non c'era il vento della passione. Era qualche anno più grande di me e a me piacciono quelli più giovani. Con lui non provavo niente anche se è stato molto buono con me, mi ha portato in pizzeria, al mare, in mezzo alla gente senza vergognarsi. Spesso la gente faceva commenti cattivi: "Nanne sctone chiù femmene" (non ce ne sono più femmine) ma lui non se ne importava, mi diceva: "Non ti preoccupare chiacchiereranno per un po’ poi si stancheranno e passeranno ad altro" ma a me a volte mi davano fastidio, ci restavo male e così ho cominciato a pensare che tutto sommato preferisco le mie avventurette che durano poco ma almeno  non devo fingere di essere quella che non sono. È inutile io non sono una donna normale, né mai lo potrò essere e poi che cos'è questa normalità? È un cacamento di cazzo, io ne ho fin sopra i capelli della normalità. La società è divisa tra maschi e femmine, tra normali e anormali. I normali hanno anche loro la loro parte di anormalità ma la nascondono dietro una maschera per difendere la loro rispettabilità, per difendere una immagine di perfezione che si sono dati, io invece ammetto di essere così, imperfetta, ma sono più vera. Perché infondo che cos'è la normalità? La normalità non esiste. Noi ci siamo prefissi che ci sono le categorie, quelle degli eterosessuali, che sono normali e poi ci sono le distonie sessuali: i transessuali, gli omosessuali, le lesbiche. Io sto bene con loro, con loro non devo fingere, non devo rispettare nessun criterio di rispettabilità, sono libera. E poi anche gli eterosessuali hanno la loro parte di maschile e femminile solo che non lo vogliono ammettere. Io ho rifiutato di sposarmi perché non c'era, da parte mia, nessuna passione, certo mi avrebbe garantito una normalità ma io non voglio la vita di voi normali. Cosa mi sarebbe aspettato dopo? La vita dei miei genitori con tutti i loro litigi, le loro ipocrisie. Ho l'esempio delle mie sorelle: la prima più conformista, abito bianco, matrimonio religioso ecc…La seconda più trasgressiva, non porta la fede, non si è voluta sposare, non ha voluto fare figli, non vuole piantare altre croci. Io preferisco la seconda. A me piacciono i ragazzi giovani, sposati o no non importa, non voglio formalizzare la mia vita, mi va bene l'avventuretta. Ho avuto un rapporto con un ragazzo sposato, non mi ha turbato più di tanto. Di recente ho visto Salvatore con la nuova ragazza, un'eterosessuale, non ci ho sofferto molto anzi ho pensato ma perché prima ci ho sofferto tanto?, d'altra parte è meglio così, loro possono circolare senza avere problemi dalla gente. E' meglio avere le avventurette,ti danno molto di più perché l'avventura la trovi come la vuoi tu, per sistemarsi (sposarsi) bisogna accontentarsi di persone che hanno dai 40 anni in su. I coetanei sono una rottura di scatole, con quelli molto più grandi è come uscire con il padre. A me piacciono i giovani, ma non sono una pedofila, conosco la differenza. I giovani hanno la pelle fresca. Noi donne, diciamo la verità, vogliamo il massimo e chi celo dà il massimo, il marito no, l'avventura si. Nell'avventura non c'è la routine, si prende e si dà quello che si ha, quello che si vuole. Tutto diventa più facile e più bello, c'è il senso della libertà, soffiano i venti della passione. Che importa se ha moglie o altre ragazze, il mio futuro non lo voglio programmato. Questa è l'altra faccia di Rita, quella che sta nel retrobottega. Ho avuto un'avventura con un ragazzo di 30 anni, sposato con figli, io raccomandavo a lui di trattare bene la moglie, di portarla fuori, di farle dei regali perché una moglie ha bisogno di avere delle chance. Va bene così io non posso permettermi di avere una vita normale, è una trasgressione questa che non mi è concessa, abbiamo visto con Salvatore come è andata a finire. Neanche la vita religiosa era quella giusta per me, io se adesso trovassi quelle monache che mi hanno respinto le ringrazierei come ringrazio Luca (Luca è il ragazzo che la voleva sposare) Grazie a Luca ho capito che non sono fatta per la vita matrimoniale. Sono una Trans"

Io: "Una trans è tale nel momento di passaggio, tu adesso sei una donna a tutti gli effetti"

Rita: "No io sono sempre una trans, sono stata un ragazzo e questo non lo posso cancellare tanto che quando conosco un ragazzo lo dico subito, mi piace la chiarezza. Ricordi quando Salvatore scoprì che una prostituta con cui era andato era un maschio come la riempì di botte? Bene io allora pensai che non avrei mai nascosto la mia realtà, non ha senso. Se l'altro vuole in me una femmina vera non la troverà, se cerca un maschio non lo troverà, non c'è niente del ragazzo che ero io sono questa: un trans. Una prostituta può mettere una pietra sul suo passato e ricominciare daccapo, io no. E' inutile mettere una maschera che poi cade, allora è meglio che mettosubito le cose in chiaro. Sono convinta di essere una donna ma al novanta, novantacinque per cento, rimane però quel cinque per cento scoperto che non so come coprire. Io ho il pomo d'Adamo, ho le ginocchia sporgenti, voi donne ce l'avete meno sporgente, persino l' ombelico è diverso. Anche il mio seno è diverso dal vostro è più separato, vedi l'abito che porto? (prendisole) potevo portarlo senza camicetta da sotto, col caldo che fa mi farebbe piacere, ma io non porto mai abiti scollati perché penso che si veda la separazione dei seni. Per l'avventura non devi essere perfetta, per il tuo ragazzo si. Non devi fare questo, non devi fare quello, devi curarti, essere come piace a lui. Io sono stanca di tutto ciò, voglio essere come sono, come mi va di essere. L'avventura mi permette di essere me stessa. Forse si tratta di insicurezza, di immaturità oppure di una giovinezza vissuta troppo in fretta o meglio senza rendermene conto perché ho vissuto un percorso del corpo tutto al maschile, non ho avuto un'adolescenza, una giovinezza da femmina e quindi è come se volessi recuperare quel tempo. Questa è la vita che voglio fare, è l'unica vita che posso fare".

 

 

 

                                                   NOTE

(1)P.L.Berger, T.Luckman, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il  Mulino, pag.235.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 CONCLUSIONI.

 

Per prima cosa, bisogna dire che in questo capitolo non c’è alcuna conclusione definitiva né ce ne potrebbero essere. In un mondo in cui niente è assoluto e definitivo ma tutto rappresenta una tappa in vista di una prossima meta, una migliore comprensione di questa cosa complessa che definiamo vita o realtà esistenziale, non ci sono né ci possono essere conclusioni definitive. Ci saranno allora solo alcune considerazioni o meglio riflessioni su quello che in genere viene definito un caso di “marginalità”, sul modo di esporlo, trattarlo, comunicarlo.

Le riflessioni non seguono un ordine gerarchico, seguono piuttosto un dispiegarsi del pensiero.

Ho scritto la storia di Rita, o meglio quel frammento della storia di Rita che si è intersecata con la mia storia, senza soffermarmi troppo a considerare se stavo o non stavo rispettando ad litteram un metodo scientifico e questo per diversi motivi:

1)Sono convinta che non c’è un metodo Scientifico (con la S maiuscola) di descrivere la realtà. In un mondo in cui le ultime conquiste della scienza, in tutti i campi, mettono in crisi, modificano o ribaltano le penultime conquiste scientifiche, come si può parlare di un metodo scientifico con la S maiuscola, assoluto? D’altra parte Popper, Kuhn e altri hanno illustrato meglio di me e prima di me questo concetto;

 2)questo non vuol dire cadere nello spontaneismo e nel pressappochismo. Sono convinta che è necessario invece esplicitare il punto di vista attraverso cui si dà lettura di una realtà per rendere più comprensibile non la realtà, che nella sua oggettività è sfuggente inafferrabile, manifestandosi solo nella soggettività, ma la lettura che della realtà si dà. Facendo un esempio classico e forse scontato si può dire che nel fornire la foto di un qualsiasi soggetto il fotografo (se il suo obiettivo è quello di rendere il più comprensibile possibile tale soggetto fotografato) dovrebbe esplicitare il più possibile la sua posizione nel fotografare (se l’ha fotografato dall’alto, dal basso, in ombra, in luce ecc.) E questo è quello che ho cercato di fare nella prima parte della tesi quando ho parlato dei paradigmi teorici di riferimento, intendendo per riferimento quel “punto facilmente riconoscibile dagli altri, per segni o per altri dati, che serve a riconoscere un luogo per orientarsi e sim."” (F. Palazzi, Novissimo dizionario della lingua italiana, Ceschina, Milano 1939). L’esplicitazione di tali paradigmi teorici quindi non è da intendersi come adottare in “toto” una metodologia ma solo un “rifarsi” ad una metodologia. Quando ho scelto l’argomento della tesi, ho fatto precedere la trattazione dell’argomento da un periodo di riflessione per capire che cosa volevo dire e come lo volevo dire nelle linee generali. (E’ chiaro che non sapevo a quali considerazioni sarei approdata e ciò non mi dava insicurezza o ansia ma al contrario mi stimolava). Ho scelto l’ambito della sociologia qualitativa e l’approccio etnometodologico perché questo, fra i vari approcci al tema della marginalità, mi è sembrato quello più rispondente a ciò che volevo fare. Qualcuno può obiettare che questo è poco scientifico e per certi versi si può anche concordare ma, e qui ritorniamo al primo punto di questo discorso, che cos’è “Scientifico”? Inoltre io qui non mi presento in veste scientifica, l’ho pur detto nei primi capitoli, non mi sento una “Ricercatrice” (con la R maiuscola), rivendico il mio statuto di studentessa, di ricercatrice (con la r minuscola) e questo non per assumere una posizione di “falsa modestia” (detesto la falsa modestia come detesto, con la stessa intensità l’arroganza, la presunzione) ma per esplicitare dei limiti che mi riconosco.

Intendo il lavoro della tesi come uno spazio che l’Università dà allo studente per dibattere un argomento alla luce di quanto si è studiato, appreso, maturato, mediato con la propria realtà interiore. Un componimento quindi che per certi versi è e deve essere originale. Ritengo perciò che l'obiettivo non è constatare se lo studente ha capito o non ha capito il discorso che porta avanti la sociologia qualitativa e l’etnometodologia (nel caso specifico), questo l’università l’ha accertato quando lo stesso ha fatto i vari esami sull’argomento, ma la sua capacità di riflessione su un argomento dove il riferimento a paradigmi teorici ha la funzione di favorire una maggiore comprensibilità delle riflessioni esplicitate;

3)man mano che portavo i capitoli della tesi al mio relatore questi rilevava che a volte non c’era una descrizione obiettiva ma che vi erano espressi dei giudizi di valore di carattere personale. L’osservazione è giusta e corretta. Sono fermamente convinta che qualsiasi osservazione si faccia (e questo vale ancora di più quando osserviamo l’uomo e il suo essere nel mondo) questa è sempre permeata di un giudizio di valore (anche quando si sceglie di non esprimere nessun giudizio di valore, si adotta un giudizio di valore) quindi tanto vale esprimerlo chiaramente, mi sembra più corretto. Potevo ricorreggere la mia tesi, smussare le posizioni contestate, dare una veste diversa ai contenuti ma devo ammettere che, sapendo di non poter essere obiettiva come avrei voluto e dovuto, se mi presentavo in tale veste, mi è sembrato più onesto ed eticamente corretto far emergere chiaramente tali giudizi, in tal modo il lettore ha la possibilità di orientarsi meglio. Quello che voglio dire con questa lunga dissertazione è che all’interno di questo lavoro io sono presente in veste di osservatore partecipante interno e che in quanto tale sono molto coinvolta. L’essere “molto coinvolta” non mi impedisce però di mettere in atto anche uno sforzo di distanziamento. In quanto soggetto coinvolto ho preferito allora raccontare la storia di Rita così come essa è stata vissuta da me, così come si è presentata nella sua fattualità quotidiana, il che implica letture personali e giudizi di valore perché io faccio parte di questa quotidianetà.

In questo lavoro ho inteso mettere in evidenza “la produzione dell’identità di genere” da parte di un soggetto che in quanto “anomalo” (cioè non facente parte della “norma” intesa come media statistica) sconvolge un ordine di senso. In questa prospettiva l'identità di genere si definisce come un “fatto sociale”. Il fatto che una persona sia maschio o femmina non equivale per nulla ad una nozione di per sé evidente (e Rita ne è un esempio). E’ vero che c’è una base biologica da cui non si può prescindere ma è vero anche che di fatto il riconoscimento e la definizione di eventi collocabili nella sfera biologica sono attività sociali, in quanto richiedono l’acquisizione di atteggiamenti e competenze particolari. Essere “maschi” o “femmine” equivale, in questa prospettiva ad essere considerati come tali da coloro i quali si impegnano regolarmente, quotidianamente, a dare una valutazione di tali condizioni sulla cui base intraprendono poi determinati corsi di azioni, sia in riferimento a se stessi che agli altri. Tutto parte da tale valutazione. L’identità di genere si verifica quindi all’interno di un ordine sociale. Abbiamo visto che Rita usa abiti prettamente femminili (escludendo anche qualsiasi indumento unisex), che non alza mai la voce con gli altri né dice parolacce, che assume sempre un atteggiamento umile e sottomesso, perché questi sono tutti tratti caratteristici di un modello femminile. Un modello per la verità che la contestazione femminista, i movimenti femminili hanno messo in crisi, hanno criticato, rivendicando una parità che, per alcuni, può andare in direzione di una omologazione con l’altro sesso. Spesso infatti si sente dire: “Oggi non riesci più a distinguere un maschio da una femmina”. Non a caso Rita scarta tenacemente questo modello perché lei ha bisogno di essere riconosciuta come “femmina” dalla società e non come essere umano pari al maschio. Lei ha un’altra parità da conquistare, quella di “persona” al di là della specificità di genere. Abbiamo visto l’imbarazzo dei medici quando si è trattato di ricoverare Rita (nel reparto maschile o in quello femminile?). Imbarazzo che ha colto anche i medici dell’équipe di Bari che ha eseguito l’intervento altrimenti non avrebbero messo Rita prima dell’operazione in una stanza singola e solo dopo l’operazione in una stanza con altre donne con tanto di nome femminile scritto sulla cartella. (Eppure anagraficamente, giuridicamente Rita non aveva cambiato ancora il nome, il cambiamento del nome avverrà mesi dopo alla fine di un complesso iter burocratico). La nozione di “genere” si presenta quindi come fatto sociale. E’ vero che ognuno di noi non si preoccupa di stabilire “biologicamente" se l’altro con cui si ha a che fare, è maschio o femmina in quanto il suo aspetto decisivo è stabilito dal fatto che esso  determina alcuni modi specifici di comportarsi, tuttavia tutti abbiamo un modo particolare di considerare chi ci sta di fronte non appena si arriva alla conclusione che l’”altro” è maschio o femmina o peggio è entrambi o nessuno dei due.

 

 

 

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