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Dalla mostra "La creazione ansiosa da Picasso a Bacon": M.Manzelli, "S" (2000) |
"SOCIOLOGIA
QUALITATIVA,ETNOGRAFIA E TRANSESSUALITA': Il caso di Rita"
di Teresa Legrottaglie |
Recensioni bibliografiche 2003 |
Tesi di laurea in Scienze dell'Educazione- Università di Lecce |
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Teresa Legrottaglie è Assistente Sociale presso il Dipartimento di Salute Mentale dell'A.S.L. BR/1 . Brindisi | ||||||
Recensioni dalla stampa 2003 | ||||||
Rivista Frenis Zero |
TESI
DI LAUREA
SOCIOLOGIA
QUALITATIVA, ETNOGRAFIA E TRANSESSUALITA’: IL CASO DI RITA. PREMESSA Fare la tesi non
è per me la prima esperienza. Ho già fatto una tesi, oltre venti anni fa
( nel 1976) a conclusione del mio corso di studi per conseguire il diploma
di Assistente
Sociale. Titolo della tesi di allora era. “LA FAMIGLIA. UNA
ISTITUZIONE RITENUTA BASILARE NELLA NOSTRA SOCIETA’.” Questa tesi mi
è costata la lettura di molti libri ed ore e ore di studio per scoprire
alla fine che molte parti dei
vari libri erano ridondanti, molti libri erano superati e che ciò che in
definitiva avevo imparato si poteva racchiudere in non più di due libri.
In quella tesi c’erano solo due piccole riflessioni mie, , il resto era
soltanto il risultato di cose dette da altri. Inutile dire che le mie
riflessioni passarono totalmente inosservate. Risultato di tanto lavoro
fu una
profonda nausea
e per quanto avevo
fatto e per il lavoro di tesi in generale. Ricordo che dopo
averla battuta
a macchina,
riletta ricorretta per
l’ennesima volta, consegnata in segreteria, non riuscii a rileggerla
neanche il giorno prima di andarla a discuterla. Né l’ho più riletta, giace in uno scatolone, nel garage, da quel lontano
1976. Seppure tentata, neanche ora ho avuto il coraggio di andarla a
riprendere tanto è forte il senso di nausea che provo ancora. Avevo
lavorato tanto ma dalle domande e dalle considerazioni fatte dai docenti
mi resi conto che la mia tesi era stata oggetto solo di una lettura
superficiale e distratta. Mi rendo conto
che , tranne alcune eccezioni, la tesi fatta da uno studente, che ha sì
terminato un corso di studi, ma che ancora ha tanto da imparare,
sperimentare, vivere, non può dire niente di nuovo, di originale. Nella
migliore delle ipotesi può essere un componimento garbato, ragionato,
corretto, su temi approfonditi e
studiati da altri “pensatori” di cui si riporta più o meno
correttamente un pensiero,
un’impostazione. Un componimento più simile
alla prosa di una poesia, fatta da altri, che ad una poesia, magari
non bella, ma almeno espressione di ciò che si ha dentro. Oggi non
riuscirei più a fare una tesi così impostata. Cioè non riuscirei più a
trattare un argomento solo alla luce di quanto è stato detto da altri,
guardando la situazione con gli occhi di altri. Non voglio dire che la mia tesi sarà un prodotto
originale, che dirò cose mai dette scavalcando tutto e tutti. So bene che
ho ancora molto da imparare, da capire. Molte cose, del mondo, della vita,
di me stessa mi sono sconosciute e inafferrabili, ma è proprio questa la
mia scommessa: cercare di afferrare ciò che mi sfugge sapendo che ci sono
cose che mi sfuggono di cui non ho neanche una chiara consapevolezza ma
vaghe intuizioni. Quando decisi di
iscrivermi all’università avevo quarantuno anni. Lavoravo, (Assistente
Sociale) ero e sono di ruolo da circa venti anni, avevo ed ho una famiglia
(un marito e due figli), una casa, un’esistenza tranquilla e ordinata.
La laurea non mi serviva quindi per trovare lavoro, per riempire un tempo,
un’esistenza vuota, né per fare carriera ( non ho le “giuste qualità”). Questa mia
decisione sorprese un po’ tutti e tutti mi chiedevano “perché?” Io
rispondevo dicendo che studiare mi piace, che avevo interrotto gli studi
perché il mio ruolo di moglie, di madre e di lavoratrice non mi aveva
permesso di poter conciliare questi impegni con quello dello studio. (Un
rapporto coniugale da consolidare, dei
figli da crescere). La gente faceva una faccia perplessa e pensava che non
la raccontavo giusta, che dovevo avere qualche motivo recondito, che
c’era qualcosa di più. E qualcosa di più c’era solo che non sapevo
neanche spiegarlo a me stessa. Questo qualcosa venne fuori durante una
discussione con mia madre. Mia madre, quando seppe che volevo iscrivermi
all’università, si preoccupò
molto. Io per lei sono rimasta la bambina fragile, di salute cagionevole
che ero tantissimi anni fa (anche se sono cresciuta e non mi ammalo più)
per cui come avrei potuto conciliare
il ruolo di moglie, madre, lavoratrice e studentessa? Di certo mi sarei
ammalata nuovo. Durante questa discussione mia madre continuava a
chiedermi ripetutamente perché volessi iscrivermi all’università, io
cercavo di spiegare a lei quello che avevo spiegato agli altri ma non le
bastava per cui continuava a chiedere “perché?” Fu allora che
arrabbiata (perché lei non voleva capire) dissi che lo facevo perché
c’erano delle cose che non avevo capito e lei disperata mi chiese che
cosa non avevo capito. (L’intonazione della voce, la mimica facciale, la
postura del corpo, tutto sembrava dirmi :”Dillo a tua madre, ti spiego
io ciò che non hai capito così non dovrai affannarti”).Le risposi:
"Mamma non l’ho capito” (cioè non ho capito neanche che cos’è
che non ho capito). Le parole mi erano uscite di botto, senza passare dal
vaglio della riflessione e avevano sorpreso forse più me che lei. Ricordo
che pensai “Oddio adesso comincerà con la storia che noi giovani siamo
viziati, che non sappiamo cosa vogliamo ecc. Invece dopo essere stata
sorpresa da me stessa, fui sorpresa anche da mia madre la quale non
rispose subito, riflettè un momento e poi disse:” Mah! Tu sei stata
sempre un po’ particolare. Ricordo che da piccola non ti piacevano le
bambole, i giocattoli ma i libri anche se non sapevi leggere". Al termine di
questo mio corso di laurea non ho risolto i miei problemi (né
pensavo di risolverli) ho solo un’idea meno vaga e nebulosa
di ciò che vado cercando e certamente non ho niente di nuovo da
dire, nessuna teoria nuova, né acute e strabilianti riflessioni. Mi
sarebbe piaciuto perciò terminare il corso di laurea in sordina senza la
tesi finale. Questo però non è possibile la tesi bisogna farla e allora,
dato che si deve farla, la voglio fare a modo mio. Cercherò perciò di
trattare il tema scelto non in maniera distaccata, obiettiva, asettica ma
in modo coinvolgente, personale con considerazioni e digressioni che
permettano di raccontare due storie. Quella di Rita, l’essere umano,
“la ragazza transessuale” e la mia, l’essere umano, la
”studentessa, l’assistente sociale” che vuol coniugare quanto
appreso dai libri, con quanto appreso dall’esperienza di vita in
generale, con quanto appreso da Rita. Probabilmente vi annoierò
ugualmente (cioè allo stesso modo di come vi avrei annoiati se facessi
una tesi non costretta
a ripetere, riassumere quanto detto dagli altri. Non voglio fare infatti
un bel riassunto ma un racconto e anche se non sarà un bel racconto (non
sono brava a scrivere, non mi piace scrivere. Scrivere mi fa constatare
l’imperfezione della persona: il pensiero è veloce capace di volare
nello spazio e nel tempo in tempi brevissimi, fa connessioni
apparentemente assurde, è capace di far provare emozioni molto profonde.
La parola scritta è lenta, non sempre riesce ad esprimere il pensiero, i
sentimenti, le emozioni con la stessa profondità con cui le viviamo) sarà
un racconto autentico. Autentico sta per vero dove vero non sta per
VERITA’ in senso assoluto ma per la mia verità. Tutto il lavoro
sarà articolato in due parti. Nella prima parte esporrò i paradigmi
teorici di riferimento. Ritengo opportuno infatti, prima di iniziare a
trattare il caso di Rita (che sarà la seconda parte della tesi)
esplicitare gli orientamenti teorici che hanno guidato questa mia ricerca.
A qualcuno la trattazione di questa prima parte potrà sembrare molto
lunga e inutile.( Potevo riassumerla in poche righe.) Per me invece è
importante in quanto, consapevole che una stessa
storia può essere raccontata da diversi punti di vista, tutti
ugualmente veritieri ma che pure possono dare una visione diversa della realtà
che si sta trattando, l’esplicitare gli orientamenti teorici e quindi il
proprio punto di vista, serve a rendere più comprensibile la storia che
si va raccontando. PARTE
PRIMA Paradigmi
teorici di riferimento. CAPITOLO PRIMO La metodologia: Sociologia quantitativa o qualitativa? Il
bisogno di capire, spiegare i fatti, ciò che succede in noi, fuori di
noi, nel “mondo”, nella “ realtà sociale” credo che lo si possa
definire un bisogno fondamentale dell’uomo al pari del bisogno di
mangiare, respirare ecc. E’ logico ritenere quindi che anche l’uomo
primitivo avesse tale bisogno e che cercasse di dare un senso alle
“cose”: ciò gli era indispensabile per la sopravvivenza. Nel fare ciò
non si poneva certo il problema se usare un metodo qualitativo o
quantitativo, un metodo storico, sperimentale o etnografico. Molto
probabilmente, seppure in forma “primitiva”, “inconsapevole”, li
usava tutti (naturalmente non contemporaneamente ma a seconda delle
circostanze). Nel corso della storia il pensiero dell’uomo si è sempre
più formalizzato, specificato, dando origine a teorie e discipline. (La
sociologia per esempio la si fa iniziare con Comte, nel XIX secolo ma una
riflessione sociologica non la si può datare, nasce con l’uomo). Per
Lapassade possiamo distinguere la sociologia, così come si è
formalizzata fino ai nostri tempi, in “due tendenze fondamentali: una
normativa, alla quale appartengono Durkheim, Parson, le scuole marxiste ed
un certo Habermas, e un’altra tendenza interpretativa, nella quale
possono rientrare Weber, Simmel e
alcuni teorici indipendenti come Goffmann, oltre alle correnti della
sociologia qualitativa. (…) La sociologia normativa considera
l’individuo come un prodotto della società, nel senso che gli uomini
dipendono dalle regole dei
sistemi economici e politici, dei sistemi culturali, di valore e di verità;
mentre per la sociologia interpretativa le forme sociali sono espressioni
degli individui, nel senso che le norme sociali sono sempre problematiche
e che i sistemi di verità sono continuamente messi in discussione.” (
1) Questa opposizione sottolinea una distinzione fondamentale tra gli
studiosi della società: da una parte coloro che considerano la società
come una realtà oggettiva e determinante per cui si occupano dei grandi
sistemi sociali, macro-determinismi (che non vuol dire ignorare le
interazioni ma subordinarle ai meccanismi sociali); dall’altra quelli
che considerano la società un problema aperto e insolubile. (Dal Lago,
1987). In quest’ottica acquista importanza il microsociale cioè i
livelli elementari “dell’interazione sociale nell’ambito della vita
quotidiana.”(2) In conclusione la sociologia quantitativa “trasforma
delle osservazioni qualitative in cifre; essa conta e misura queste
“cose” che sono le attività e i discorsi degli individui, dei gruppi,
delle società intere, e si sforza di tradurre il tutto in un protocollo
linguistico di tipo disciplinare (…) Per i sociologi detti positivisti
la sociologia ha prioritariamente il compito di istruirsi come scienza in
grado di esibire immediatamente i segni della propria scientificità; tra
questi segni, la quantità occupa un posto importante” .(3) La
sociologia qualitativa invece ponendo attenzione al microsociale non
privilegia più le quantità, i dati statistici, ma le storie di vita, i
casi particolari ecco che allora acquistano importanza i diari, i
resoconti dei soggetti, l’osservazione partecipante del ricercatore ecc.
Etimologicamente metodologia deriva dal greco metà hodòs e indica la
marcia dietro a, il recarsi in mezzo a, la ricerca di qualcosa verso una
direzione, una meta. La
ricerca che qui ci si appresta ad illustrare si inserisce nell’ambito
della sociologia qualitativa e più precisamente nel paradigma teoretico
dell’etnometodologia. Infatti se è vero che qualitativo e
quantitativo possono trovare spazi specifici e complementari, in
equilibrio tra loro, se è vero che la fase positivistica e quella
idealista sono tramontate nella loro assoluta parzialità, è anche vero
che essendo la realtà così complessa e diversificata, bisogna fare una
scelta di campo, esplicitare il punto di vista adottato per un discorso di
onestà e comprensibilità, nella convinzione che non esista una realtà,
una verità oggettiva e assoluta ma che ogni punto di vista permette di
focalizzare un determinato aspetto della realtà in cui viviamo.
CAPITOLO
SECONDO L’ETNOMETODOLOGIA Il termine
etnometodologia è stato coniato da Harold Garfinkel, sociologo americano
fondatore di tale corrente sociologica, per designare lo studio degli
etnometodi cioè di quelle micropratiche locali e contestuali che gli
attori sociali mettono in atto nel mondo della vita quotidiana per creare
e sostenere l’atteggiamento “naturale” nel senso fenomenologico del
termine. (Per “metodi” infatti non si devono intendere le sequenze o
le procedure da osservare per raggiungere un risultato.) Storicamente gli
antecedenti teorici li troviamo nella corrente fenomenologica e in
particolare nel pensiero di Husserl e di A.Schutz. La fenomenologia
ha messo in evidenza che il senso della realtà è strutturato,
attivamente, dalle funzioni intenzionali e dal lavoro costitutivo della
coscienza. Il soggetto però non si rende conto che l’oggettività del
mondo quale esso gli appare è prodotto da lui. Scrive Husserl(v.,1950;
tr.it.pp.170-171), “la vita pratica quotidiana è ingenua, perché
consiste nell’avere esperienze, nel pensare nel valutare e nell’agire
al di dentro del mondo come già dato. Qui si compiono in maniera anonima
tutti gli atti intenzionali dell’esperienza per le quali le cose vengono
ad esserci; colui che fa l’esperienza non sa nulla di questi, come
niente sa dell’attività del pensiero.” L'analisi fenomenologica
quindi si propone di studiare quest’attività
“nascosta”, di identificare le strutture essenziali della coscienza,
le procedure, i meccanismi per mezzo dei quali essa costituisce le
“cose” come reali e oggettivamente date. Nelle scienze umane la
prospettiva fenomenologica ha dato origine a due principali direzioni di
studi. La prima è costituita da una psicologia orientata
fenomenologicamente. Qui si può far riferimenti a studiosi come Maurice
Merleau-Pontj e Aron Guerwitsche e si possono trovare significative
convergenze con la psicologia sociale di matrice pragmatista e con la
psicologia della Gestalt, oltre che con alcune correnti della psicologia
cognitiva. La seconda, perseguita principalmente da Alfred Schutz è
quella della fenomenologia sociale. Essa parte dal concetto, sviluppato
tardivamente da Husserl, di LEBENSWELT, cioè dal mondo della vita
quotidiana, dall’esperienza vissuta, dagli eventi e dalle istituzioni
mondani che gli attori sociali, senza esserne consci, incessantemente
costituiscono e ricostituiscono, analizzando i rapporti tra essi e la
coscienza. Schutz parte dalla discontinuità che di fatto troviamo tra il
mondo della vita quotidiana e il mondo della scienza. Esse sono due
distinte “provincie finite di significato” cioè due diverse realtà
prodotte da due specifici atteggiamenti o stili cognitivi. La sfera della
vita quotidiana è caratterizzata da un atteggiamento naturale in cui
prevale un punto di vista pragmatico. Il mondo è visto come
oggettivamente data. Tale atteggiamento è caratterizzato dall'assenza di
ogni dubbio che esso possa essere diverso da come appare. Nel mondo della
scienza l’atteggiamento teorico-scientifico è diametralmente opposto.
Non c’è l’atteggiamento pragmatico (gli scopi pratici della vita
quotidiana sono messi tra parentesi dallo studioso). Anche il sé che si
teorizza, dice Schutz, è solitario, non ha alcun contenuto sociale, sta
fuori dai rapporti sociali. Infine l’atteggiamento teorico non assume
niente come certo se prima non è stato oggetto di analisi, cioè è
aperto ad un dubbio sistematico. Nel mondo della vita quotidiana quindi la
conoscenza di senso comune è una conoscenza tipologica che implica una
continua attività di “aggiustamento” aperta a mutamenti ed
elaborazioni legate a contingenze pratiche che gli attori incontrano.
Schutz, analizzando il problema dell’intersoggettività, evidenzia come
gli attori sociali non fanno mai esperienze identiche, sia perché
occupando differenti posizioni spaziali informano differentemente le loro
percezioni, sia perché hanno biografie, posizioni sociali, motivazioni
diverse. Nonostante ciò nell’ambito dell’atteggiamento naturale
l’intersoggettività è un fenomeno che viene dato per scontato grazie a
due operazioni che gli attori sociali compiono: 1) ‘idealizzazione
dell’interscambiabilità dei punti di vista; 2) l’idealizzazione della
congruenza dei sistemi di rilevanza. Il contrasto tra punto di vista
dell’osservatore e quello dell’attore sociale, tra scienza e vita
quotidiana comporta importanti implicazioni per il concetto di razionalità.
Per la scienza un’azione è razionale se persegue fini possibili con
mezzi adatti. L’applicazione di questo modello alla vita quotidiana per
Schutz è fuorviante primo perché la conoscenza ,nel mondo della vita
quotidiana, è approssimativa e ad hoc (risponde agli interessi pratici
degli attori);secondo perché prima di scegliere una linea di condotta, di
prendere una decisione, l'attore sociale non esplora sistematicamente
tutte le possibili alternative (pratica questa che sarebbe necessaria per
ottemperare all’imperativo dell’ottimizzazione nella scelta dei
mezzi). Nella vita quotidiana quindi la razionalità oscilla tra la
perfetta razionalità scientifica e la completa irrazionalità ma le
azioni vengono considerate dai soggetti come azioni evidentemente
ragionevoli. Schutz sottolinea inoltre come la razionalità quotidiana è
una fondamentale proprietà organizzativa della vita sociale perché è in
base ad essa che i soggetti scelgono e giustificano le loro azioni, quindi
va analizzata in quanto tale, non come una forma degradata della
razionalità scientifica massimizzante. "Siamo tutti, scrive Schutz
sin dal 1932, sociologi allo
stato pratico". Alla luce di
quanto sopra sommariamente esposto possiamo comprendere come l'etnometodologia,
cerchi di assumere, come argomenti di indagine empirica le attività
pratiche, il ragionamento sociologico pratico, attribuendo alle attività
più ordinarie della vita quotidiana quell'attenzione che in genere è
accordata agli eventi straordinari. La tesi fondamentale è che le attività
, attraverso cui i membri della società producono e gestiscono situazioni
di relazioni quotidiane organizzate, sono identiche ai procedimenti usati
dai membri per renderle "spiegabili" (accunt-able) . Le pratiche
di accuntability sono caratterizzate dalla riflessività e dalla indicalità. INDICALITA' Garfinkel ricava
il termine di indicalità da Bar Hillel
che lo utilizzava in una accezione linguistica ristretta, facendo
cioè riferimento a termini deittici come "qui" "ora"
"questo" "ciò" che hanno significato solo se riferiti
ad un contesto. Per esempio se si dice che "qui fa molto caldo"
solo le persone presenti possono comprendere che si sta parlando di quel
luogo determinato, per chi non è presente bisogna specificare a cosa si
riferisce il "qui" (cioè se si è su un'isola tropicale o in
un'aula superaffollata dell'università). "L'indicalità
generalizzata, se è presa in maniera radicale, se la si applica ad ogni
situazione scelta come oggetto di analisi, conduce ad un localismo
radicale e limita ogni pratica d'inchiesta all'attitudine monografica ed
etnografica (…) la presa in conto della "indicalità"
radicalizza la vocazione microsociologica dell'etnosociologia. Inoltre se
voglio cogliere il significato delle singole parole del linguaggio comune,
proprio di un gruppo sociale, l'acquisizione della lingua attraverso un
metodo razionale non potrebbe essere sufficiente: si andrebbe incontro
sempre al problema della "indicalità", a meno che non si
diventa membri della comunità che si intende studiare. (…) Ciò porta
all'osservazione partecipante "completa".
(4) RIFLESSIVITA' Si
può spiegare il tema della riflessività partendo da quello che Garfinkel,sulla
scorta di Karl Mannheim, chiama "metodo documentario
dell'interpretazione". E' questo un processo interpretativo in cui
ogni particolare concreto è trattato come un "documento"di una
configurazione sottostante, come qualcosa che rimanda ad essa. Questa
circolarità riflessiva tra parte e tutto non è ignota alla riflessione
metodologica nel settore delle scienze umane. Per esempio nelle teorie
della psicologia della Gestalt si ha che ogni elemento della struttura e
la struttura come totalità si producono e si determinano reciprocamente:
"Il colore che vedo sulla copertina di questo libro posto su questo
tavolo è determinato localmente dal suo contesto di luce e di colorazione
ed è la dimensione "indicale" dell'attività riflessiva; nello
stesso tempo, lo stesso colore contribuisce a produrre lo stesso contesto
di colorazione e di luce. Gli oggetti insieme costituiscono il
"fondo" nel quale ognuno di essi emerge singolarmente
nell'attività percettiva. Tale attività, dunque, costituisce il rapporto
riflessivo tra l'insieme e le sue parti." (5) dire quindi che
l'azione è riflessiva significa dire che in ogni momento del suo
svolgersi essa costituisce il senso del contesto in cui si dispiega ed è
a sua volta costituita da esso. Lo studio del metodo documentario di
interpretazione che K. Mannheim ha limitato alle procedure della
sociologia professionale, è stato generalizzato da Garfinkel alle
procedure della sociologia profana. (Celebre a questo proposito è
l'esperimento che Garfinkel fece con
dieci studenti universitari ai quali fu detto che dovevano partecipare ad
una ricerca sulla psicoterapia. In realtà i soggetti dell'esperimento
incontrarono un collaboratore di Garfinkele non uno psicoterapeuta. Gli
studenti dovevano porre allo psicoterapeuta fittizio un loro problema. Il
terapeuta poteva rispondere solo con un "si" o con un
"no" per cui le domande dovevano essere opportunamente
formulate. Le risposte del terapeuta, cioè le sequenze di si e no, esano
state precedentemente stabilite a caso eppure questa erano percepite,
dagli studenti, come "risposte alle domande" e producevano nuove
domande. Alcune risposte furono assunte come risolutive di domande, quelle
incongrue erano risolte attribuendo particolari intenzioni al consigliere
o un buon livello di conoscenza). Indicalità
e riflessività sono indissolubili. Se si descrive una situazione si
contribuisce alla costituzione della situazione che si sta descrivendo.
Non esiste un enunciato il cui senso possa essere compreso
transituazionalmente, indipendentemente dal contesto. Anche un enunciato
rivolto ad una comunità scientifica ed espresso con chiarezza, come la
celebre frase di Durkeim "La realtà oggettiva dei fatti sociali è
il fondamentale principio della sociologia" è aperta
a molte interpretazioni. Infatti "A secondo delle occasioni può
essere interpretata da un gruppo di sociologi come una definizione
dell'attività dei membri dell'associazione di sociologia, come il loro
slogan, come il loro compito, come un'importante realizzazione, come una
giustificazione, come una scoperta, come un fenomeno sociale o come una
costruzione sul loro lavoro di ricerca." (6) All'interno
dell'atteggiamento naturale riflessività ed indicalità sono fenomeni
privi di interesse, le proprietà riflessive dell'azione non sono neppure
notate a meno che non vengono
evidenziate con l'aiuto di esperimenti di rottura. Garfinkel per esempio
utilizza il" metodo del breaking"
che consiste nella rottura delle "routines" in tal modo
esse vengono rese visibili. La ragione che spinge lo studioso ad adottare
tale metodo è che le "operazioni necessarie per produrre (…)
un'interazione anomica e disorganizzata dovrebbero dirci qualcosa su come
le strutture sociali sono ordinariamente mantenute". (7) Uno dei
tanti esperimenti condotti dallo studioso consisteva nel violare le regole
di un gioco -il ticktacktoe
- senza che lo sperimentatore spiegasse cosa stesse facendo. Lo scopo era
di vedere se la trasgressione delle regole provocava sentimenti di
confusione e anomia tra i soggetti dell'esperimento. I risultati furono
interessanti. In primo luogo la trasgressione delle regole induceva i
soggetti a ricorrere a tentativi di "normalizzazione" cioè di
"aggiustamenti" delle regole agli eventi. Tale aggiustamento,
necessario per mantenere un senso del mondo in comune, era reso possibile
dal fatto che ogni regola comporta una clausola aggiuntiva quella
"dell'eccetera" cioè nessuna regola o sistema di regole è
completo in se stesso. Il secondo risultato notato da Garfinkel è che la
percezione della stranezza di un comportamento cresceva quando un soggetto
continuava a cercare di normalizzare la discrepanza tra comportamento e
regole senza cambiare quadro di riferimento, anche in presenza di casi
estremi di violazione. CAPITOLO
TERZO ANALISI ISTITUZIONALE Prima
di passare alla trattazione del caso di Rita è opportuno far riferimento
ad un altro paradigma teoretico: quello dell'analisi istituzionale.
Dovendo descrivere la storia di Rita è doveroso precisare che qui non ci
sarà “tutta” la storia di Rita o la “vera” storia di Rita ma la
storia di vita di Rita così come è emersa dai rapporti che Rita
intrattiene con istituzioni come la famiglia, la chiesa e in modo
particolare con il dipartimento di salute mentale della A.S.L.BR/1 di cui
io, in qualità di assistente sociale, che lavora nel dipartimento,
rappresento l’osservatore partecipante. In questa prospettiva acquistano
significato importanti concetti come quello di “istituente” ed
“istituito”. Possiamo definire l’istituito come l’ordine
stabilito, mentre l’istituente rappresenta l’autoproduzione di un
ordine sociale cioè è l’attività che istituisce (l’istituito ne è
il prodotto).” Nel 1965 Castoriadis nei suoi articoli nella rivista
“Socialisme ou barbarie” sviluppava i concetti di Società istituente
e Società istituita che hanno contribuito a dare all’Analisi
Istituzionale un oggetto specifico e nuovo: la produzione istituente del
sociale e, di conseguenza il lavoro di istituzione, nozione coniata da
Claude Lefort, nel senso attivo del termine.” (8) In questo contesto
quindi il termine istituzione indica sia un ordine istituito, sia il fatto
di istituire un ordine. L’analisi istituzionale inoltre mette in
evidenza come istituente ed istituito non riguardano esclusivamente gruppi
settoriali specifici e diversi ma che tutti possiamo essere di volta in
volta istituenti e istituiti. In altri termini “tali attribuzioni sono
agite non solo per il ruolo o lo status soggettivi ma anche in quanto
“richieste” dalle circostanze relazionali e dai contesti
comunicazionali. L’attore sociale, in quanto concorre al mantenimento
dell’ordine istituito, di fatto ne è l’istituente. Si può
coerentemente sostenere -allora- che l’attore è sempre istituente,
anche quando una tale funzione risulta occultata dallo status di un
qualche suo ruolo sociale, in quanto così facendo concorre –comunque- a
mantenere l’ordine istituito, e dunque egli è sempre l’istituente
dell’istituito.” (9) APPENDICE
ALLA PRIMA PARTE Fin qui una esposizione formale, canonica di quella che ritengo debba
essere un’introduzione ad una tesi di ricerca. Ho studiato infatti che
quando ci si approccia ad illustrare una ricerca è buona regola far
riferimento ai fondamenti teorici che legittimano una ricerca, al
paradigma teoretico di riferimento. Era mia intenzione quindi, almeno in
questa prima parte, sostenere il ruolo della studentessa “media” o
“classica” e questo sia perché mi sembra giusto esplicitare la scelta
di campo che si fa e perché la si fa. (Potevo trattare il tema della
transessualità con una ricerca di tipo quantitativo, per esempio rilevare
presso il Tribunale di Brindisi quante richiesta di conversione
andro-ginoide sono pervenute negli ultimi dieci anni, contattare le varie
strutture, consultori, dipartimenti di salute mentale ecc. per sapere
quanti casi di questo genere si sono avuti. Rilevare età, gradi di
istruzione, ceto sociale e così via... Una ricerca di tal genere non la
ritengo inutile ma diversa perché ci può dire alcune cose su questa
problematica che la mia ricerca non dirà), e sia perché il riferimento
al paradigma teoretico fa comprendere meglio, da più senso a quello che
si è fatto e che si vuole comunicare. Ho letto che Garfinkel, in una
delle sue pratiche di rottura delle routines, nel corso di un dialogo, si
avvicinava fino quasi a toccare la punta del naso del suo interlocutore e
che questi provava un senso di fastidio, d’imbarazzo. Ritengo che il
malcapitato si chiedesse anche se per caso Garfinkel fosse matto,
eccentrico, strano, poi tutto acquistava senso quando lo studioso spiegava
ciò che aveva fatto alla luce della sua teoria. Man mano che procedevo nella stesura di questi
capitoli mi rendevo conto di non aver detto tutto quello che voglio dire
ma solo una parte. E’ vero infatti che nell’approcciarmi a trattare il
tema della transessualità ho scelto l’approccio della sociologia
qualitativa e che l’approccio etnometodologico mi è sembrato quello più
adatto ma è anche vero che non mi sento strettamente vincolata a tale
impostazione. Mentre leggevo la premessa al mio relatore ho fatto un
classico lapsus freudiano: ho letto al posto della parola
“digressione” (“cercherò perciò di trattare il tema scelto non in
maniera distaccata (…) ma in modo coinvolgente, personale con
considerazioni e digressioni…”) “disgressione”. Una parte di me,
quando fa queste digressioni, si sente trasgressiva e incoerente. Da una
parte infatti affermo che l’approccio etnometodologico è quello più
adatto, dall’altro sento il bisogno di prendermi più spazio avvertendo
che non sarò rigorosa ma che spesso introdurrò miei vissuti, stati
d’animo, riflessioni. Il fatto è che in questo lavoro non mi sento una
“ricercatrice”, una “sociologa” ma una studentessa che vuole
trattare un tema non con una parte di sé ma con tutta se stessa non
volendo mettere in epochè nessun ruolo sociale che ricopro (donna, madre,
moglie, assistente sociale, studentessa) in quanto uno influenza l’altro
e ne viene a sua volta influenzato. Convinta che una stessa realtà può
avere letture diverse, ma non per questo tali letture debbano essere per
forza oppositive, si potrebbe considerare questa mia posizione non come un
allontanamento dall’impostazione etnometodologica ma come un approccio
profondamente etnometodologico dato che, fra l’altro, rompo una routine
(quello della tesi fatta in modo formale, distaccato ecc.)
NOTE (1)
G. Lapassade, In Campo. Contributo alla sociologia qualitativa,
Lecce,
Pensa Multimedia 1996, pag.107. (2)
G.Lapassade, op. cit. pag108. (3)
G.Lapassade, op. cit. pag.117. (4)
Adler, P. e Adler P., Membership roles in field research, Sage
Publication, U.S.A. 1987 (5)
G.Lapassade, op. cit. pag.79. (6)
H. Garfinkel, H.Sacksh, On formal structures of practical actionis,
in Theoretical sociology (a cura di J,Mc Kinney ed E.Tiriakan), New York
1970, pp.337-338. (7)
H.Garfinkel, A conception, of and exeriment with "trust"
es a condition of stable concerted action, in Motivation and social
interaction (a cura di O. J.Harvey), New Jork 1963 pag.187. (8)
G. Lapassade, L'istituente ordinario. Contributo alle scienze
dell'educazione, Lecce, Pensa Multimedia, 1997, pag.52. (9)
G. Lapassade, op cit. pag. 7. SECONDA
PARTE IL CASO DI RITA CAPITOLO
PRIMO LA RICERCA
Nella
prospettiva teorica e metodologica che orienta questa ricerca, le
categorie, “figlio-figlia”, “paziente”, “malattia”,
“disturbo di personalità”, “transessuale”, che si riferiscono
alla pratica quotidiana di istituzioni quali la famiglia, le varie
strutture della A.U.S.L. e in particolare del Dipartimento di Salute
Mentale con le quali Rita entra in contatto, vanno considerate come
costituite dalle pratiche degli attori sociali, in quanto impegnati in
interazioni quotidiane e di routine all'interno dei vari ambiti naturali e
organizzativi. Con ciò intendo dire che attraverso una descrizione
etnografica della struttura sociale e delle attività del D.S.M., della
famiglia ecc. esplorerò quelle pratiche che forniscono alle categorie
connesse alla definizione di genere (maschio-femmina) dei concreti
fondamenti organizzativi. Ho cercato cioè di elaborare le
“definizioni” relative a questa problematica non come io le concepivo
ma in base alle azioni
relative al loro riconoscimento, alla loro gestione e alle loro
conseguenze. In questa prospettiva la “transessualità”, l’essere
maschio”, l’essere “femmina” sono costituite da quel complesso di
pratiche che sono svolte quando gli attori sociali impiegano questi
termini nel corso delle attività quotidiane che si svolgono all’interno
delle istituzioni sociali: D.S.M., il “Centro Diurno” (una struttura
riabilitativa semiresidenziale che Rita frequenta abitualmente e di cui
parlerò più dettagliatamente in seguito) ecc. Queste pratiche
comprendono i diversi modi di ricoverare un paziente (nella corsia per
maschi o per femmine?), i diversi modi di accettare e considerare tutta
una serie di atteggiamenti pratici (dal camminare al vestirsi ecc.) Il
mio ruolo in questa ricerca è quello dell’osservatore partecipante. 2.1
L’osservazione partecipante. L’osservazione
partecipante è ritenuta un momento fondamentale dell’inchiesta
etnografica. Essa consiste in una ricerca “caratterizzata da un periodo
di intense interazioni sociali tra il ricercatore e i membri di un gruppo
osservati nel loro ambiente di vita. Nel corso di tale periodo i dati sono
raccolti sistematicamente (…). Gli osservatori si immergono totalmente
nella vita quotidiana dei soggetti, condividendone le esperienze”. (Bogdan
e Taylor,1975) Ciò implica in primo luogo una negoziazione di accesso al
campo. Tenendo presente che nel momento in cui si inizia a negoziare
l’accesso al campo si è già nel campo Peter e Patricia Adler
descrivono diversi modi di
negoziare tale accesso: 1) utilizzando la mediazione di alcuni soggetti
che per un loro particolare status sociale hanno il potere di far
accettare il ricercatore nella realtà sociale che si vuole studiare. (Un
celebre esempio è quello di Whyte il quale potette svolgere la sua
ricerca nel quartiere italiano di Harvard grazie, ad un’assistente
sociale di Cornerville che gli presentò il capo di una banda di giovani
il quale lo introdusse sia nella banda che nell’intero quartiere); 2)
utilizzando metodi tradizionali: lettere di presentazione, conversazioni
telefoniche, appuntamenti per colloqui ecc.; 3)oppure attraverso la
“Covert Researcher” espressione questa che si può tradurre con
“osservatore nascosto o clandestino”. Il ricercatore cioè entra in
un’organizzazione senza dichiarare il vero fine della sua adesione. Gold
1958 distinse “l’osservatore completo” dall’osservatore
come partecipante, dal partecipante come osservatore . Adler e Adler
(1987) proposero tre tipi di partecipazione e di coinvolgimento: 1) la
partecipazione periferica . (Il
ricercatore partecipa sufficientemente alle attività di un determinato
gruppo tanto da poter essere considerato
membro senza però essere collocato al centro delle attività. Ciò
gli consente sia di non essere eccessivamente coinvolto e quindi più
obiettivo sia di non essere implicato in attività devianti del gruppo
studiato); 2) la partecipazione attiva. (Il ricercatore ricopre un ruolo, uno
status all’interno del gruppo o dell’istituzione che studia
che gli permette di partecipare attivamente alle attività come
membro, mantenendo tuttavia una certa distanza); 3) la
partecipazione completa (questa si può avere: a) quando il
ricercatore è già membro della situazione; b) per conversione. Questa
forma di partecipazione presuppone l’immersione totale per la quale si
diventa membri a tutti gli effetti. Un esempio riportato da Adler e Adler
è quello di Benetta Jules-Rosette che partita per studiare i Bapostolo
d’Africa, si inserì talmente nella loro cultura da adottare la loro
religione, essere battezzata. Raccontò poi il suo battesimo. (Jules-Rosette,1976)
Per quest’ultima forma di partecipazione gli autori raccomandano di non
diventare “il fenomeno che egli studia”. Alla luce di quanto esposto
possiamo parlare, in linea di massima, di un osservatore partecipante
esterno e di un osservatore partecipante interno. Il primo deve negoziare
l’accesso al campo, effettua la sua ricerca per il tempo necessario, in
genere alcuni mesi, raramente qualche anno, poi lascia il campo per
redigere la sua relazione. L’osservatore partecipante interno invece fa
già parte del gruppo che sarà oggetto della sua analisi. In tal gruppo
cioè egli ricopre un ruolo ed uno status. Non ha bisogno di negoziare
l’accesso al campo, egli è già un attore di quel gruppo. In altre
parole mentre l’osservatore partecipante esterno svolge fin
dall’inizio un ruolo definito di ricercatore e deve calarsi in quello di
attore ( di “partecipante”), l’osservatore partecipante interno
invece parte già col ruolo di attore ed a partire da ciò deve accedere
al ruolo di ricercatore. E questa è esattamente la mia posizione. Io cioè
ho all’interno del Dipartimento di Salute Mentale un ruolo, uno status,
quello di assistente sociale, che mi consente di non dover negoziare
l’accesso al campo. Lavorandovi da circa quindici anni conosco bene la
struttura e gli operatori posso accedere ai documenti formali, alle
pratiche formali (riunioni d’équipe, Trattamenti Sanitari Obbligatori
ecc.) e informali, quest’ultime spesso più significative delle pratiche
formali. Ma l’essere al tempo stesso attore di un gruppo e ricercatore,
se da una parte facilita il compito, dall’altra lo complica in quanto
implica problemi di distanziamento. Un professore di sociologia a Chicago,
E.C. Ughes, ha parlato di “emancipazione” riferendosi a quel processo
in cui il ricercatore trova “un equilibrio sottile fra il distacco e la
partecipazione”. Tale “sottile equilibrio” non è certamente facile
da raggiungere. Il bisogno che sento di fare alcune digressioni, per
raccontare mie riflessioni, in realtà risponde proprio alle difficoltà
che, fin dal primo momento, ho avvertito, nel cercare quell’
”equilibrio sottile” di cui parla Hughes e che solo in questo momento
ho con sufficiente chiarezza. Ho già detto che non mi sento una
ricercatrice, una sociologa ma una studentessa cioè una che studia, che
va alla ricerca di capire di più, che non è ancora sufficientemente
preparata per cui non in grado di essere obiettiva come vorrebbe.
Specificare i miei pensieri, i miei stati d’animo allora ha lo scopo di
correggere il tiro, di avvertire il lettore che ho rilevato questa o
quella determinata realtà perché io osservatore ma anche attore della
medesima realtà l’ho vista in tal modo. Parlando di Rita per esempio
vedremo come i membri dell’équipe del dipartimento di salute mentale
pur conoscendo Rita dallo stesso numero di anni, hanno di Rita
un’immagine difforme, seppure nelle sfumature, ma questa sfumature
producono atteggiamenti diversi forieri, a loro volta, di costruzioni
sociali diverse. (Di questo parlerò più esaurientemente nei prossimi
capitoli). CAPITOLO
SECONDO RITA Rita ovviamente
non è il vero nome dell’attore sociale in questione. Ha trentasette
anni, è alta un metro e novantacinque centimetri, magra, pesa circa
settanta chili, ha i capelli castano scuro, ultimamente li sta schiarendo
con appositi shampoo, occhi scuri, gambe lunghe e affusolate, porta la
terza misura di reggiseno e sull’attuale carta d’identità alla voce
"stato civile" è scritto “nubile”. Fino a qualche tempo fa
però c’era scritto “celibe”. Rita infatti è nata con tutti gli
attributi sessuali maschili, era un maschio. Oggi se le si chiede: ”Chi
sei?” risponde: “Sono una trans”. Non sono un “maschio” o sono
una “femmina” ma sono una “transessuale”. Nonostante
l’operazione chirurgica, le cure ormonali, il cambio del nome sui
documenti ufficiali: carta d’identità, libretto sanitario, cartella
clinica, libretto bancario, Rita fondamentalmente non si sente né
“maschio” né “femmina” ma una “trans”. L’essere nata in un
comune di medie dimensioni (circa trentacinquemila abitanti) del sud non
le ha consentito quell’anonimato, che è un presupposto necessario a chi
vuole imporre un’identità sessuale diversa da quella con cui è nata.
Rita ha sempre usato abiti unisex e da alcuni anni abiti prettamente
femminili, rifiuta infatti categoricamente pantaloni, tute e tutto ciò
che potrebbe essere anche solo lontanamente unisex. Usa tacchi a spillo,
anche se è molto alta, ha capelli di media lunghezza ma il suo sogno è
averli molto lunghi (perché i capelli lunghi sono molto “femminili”),
si trucca, usa accessori femminili, borsetta, foulard ecc. Nonostante ciò
tutti nel paese la conoscono come un transessuale. I bambini quando passa
la canzonano: “Arriva Rita-Rito!” (Qui il nome scelto, spiegherò poi
perché ho scelto questo nome, non si presta molto a rendere l’idea ma
se per esempio avessi scelto Maria i bambini avrebbero detto: Arriva “Mario-Maria”).Per
il paese cioè il nome di questa persona è contemporaneamente la sua
versione femminile e maschile. Rita quando fa nuove amicizie racconta
subito la sua storia e la sua transessualità. Ciò non deve trarre in
inganno, non ci deve far pensare cioè che Rita è una persona molto
sincera, al contrario, Rita è molto bugiarda. 2-2
RITA E LA BUGIA Se la bugia potesse farsi carne, avere un’esistenza materiale e
spirituale si sarebbe senz’altro incarnata in Rita. Rita sommerge
l’interlocutore o gli interlocutori, non importa se estranei o
conoscenti, se maschi o femmine, se piccoli o grandi, se acculturati e
prestigiosi o analfabeti e umili, di una marea di bugie. Bugie enormi e
fantasiose raccontate o meglio interpretate con garbo e coerenza tanto da
convincere sempre chi l’ascolta. Rita si esprime molto bene anche se ha
frequentato la scuola pubblica solo fino alla terza media. Conosce molti
vocaboli, velocemente ne apprende sempre e continuamente di nuovi, ha un
tono di voce e una mimica facciale tale che quando parla incanta
l’interlocutore che non la conosce. Con una descrizione romanzata,
fantasiosa e lacrimevole della realtà cattura l’emotività altrui, lo
commuove gli fa provare una rabbia, (la sua rabbia) verso un mondo che con
lei è stato particolarmente ostile e crudele. Tale rabbia Rita non la
esprime chiaramente, verbalmente, accesamente preferisce invece
interpretare il ruolo di vittima e di martire. L’interlocutore prova
subito un moto di simpatia, di pietà nei confronti di Rita e cerca di
aiutarla in tutti i modi, se non lo può fare concretamente solidarizza
comunque emotivamente. Nessuno sfugge a questo sottile affascinamento di
Rita. La durata di questo idillio varia da pochi mesi a più di qualche
anno, a secondo del tempo in cui ci si relaziona, delle circostanze, del
grado di coinvolgimento emotivo dell’interlocutore, della sua
perspicacia. Quando l’altro si rende conto di essere stato una vittima
delle bugie di Rita è tardi perché possa continuare un rapporto di
accettazione. L’irritazione che si prova è molto forte e profonda in
quanto le bugie di Rita non mirano mai ad avere soldi (ciò porterebbe
l’interlocutore ad essere più guardingo) ma a rubare un sentimento di
benevolenza e tutti sono pronti ad elargire sentimenti di benevolenza
perché ciò fa sentire buoni e in fondo non costa nulla. Di qui prima la
pronta disponibilità a solidarizzare poi l’indignazione per essere
stati imbrogliati. Una volta la dottoressa del dipartimento diede a Rita
una banconota di grosso taglio per comprarsi un paio di scarpe. Si era
d’inverno e Rita indossava un paio di scarpe aperte da dietro, vecchie e
consumate di almeno tre numeri più piccoli (calza il numero 45) e con
tacco a spillo con le quali camminava o meglio traballava pietosamente.
Tutti eravamo convinti che quelle scarpe non potevano essere il frutto di
un suo acquisto ma il dono di qualche persona “pietosa”. Rita aveva
raccontato che i genitori erano talmente poveri che lei dato che abitava
con loro, dato che divideva con loro "il misero e frugale pasto
quotidiano, a casa mia il secondo è un lusso che
ci possiamo permettere raramente" ed essendo transessuale, si
sentiva tenuta a consegnare la sua misera pensione di Invalidità Civile
"trecentosettantacimquemila settecento cinquanta lire, pure le
settecentocinquanta lire consegno". Esente da quest'obbligo era
invece la sorella, "anche se lavora perché lei è normale,
eterosessuale". Rita rifiutò e rifiuta decisamente sia quella
banconota sia qualsiasi altra somma di denaro offertagli. Accetta invece
con gratitudine indumenti, scarpe ecc. usati salvo poi a buttarli dopo
poco tempo a volte senza averli messi neanche una volta. Ho letto il caso di Agnés di GARFINKEL e sono stata colpita subito
dalla profonda differenza che esiste tra Agnés e Rita. Entrambe si
sentono donne psicologicamente e profondamente, entrambe vivono il loro
sesso maschile come un'inutile e ingombrante appendice da togliere a tutti
costi, come un errore della natura, entrambe si vestono in modo
femminile, hanno atteggiamenti femminili ma mentre Agnés, probabilmente
perché: primo vive in una grande città e la grande città permette un
anonimato che consente un'interpretazione di "genere" diverso da
quello a cui si appartiene; secondo perché siamo all'inizio della seconda
metà del novecento quando il movimento dell'omosessualità , della
transessualità o più in generale di una sessualità più
"libera" è agli inizi e non consente alcuna forma intermedia: o
si è maschi o si è femmina mente solo su tutto ciò che potrebbe
indicare l'appartenenza al genere maschile, Rita invece, apparentemente più
bugiarda, è in realtà più sincera, più autentica perché cerca di
imporre la sua reale condizione di transessuale e di essere accettata in
quanto tale. (Utilizzo i termini "mentire", "sincerità"
con disagio in quanto questi, nell'uso quotidiano, implicano un giudizio
morale: è buono chi è sincero, è cattivo chi mente. Può sembrare
quindi che voglia paragonare Agnés a Rita per affermare che quest'ultima
è migliore. Niente è più lontano dalle mie intenzioni. Quello che
invece voglio evidenziare è che Rita, con tutte le sue bugie, cerca
qualcosa di più dal contesto sociale in cui è inserita e cioè di essere
accettata per quello che è: un essere umano non maschio ma neanche
completamente femmina: "Mi hanno costruito le grandi labbra, una
vagina ma non ho un utero, non ho
le ovaia, non potrò mai avere figli, non sono una donna completa".
Di qui il profondo "disagio" e di Rita e di chi si relaziona con
lei, Rita cioè con il suo comportamento, con la sua esistenza rompe una
"normalità" disorienta l'attore sociale che la vuole vedere o
come maschio (Come nel caso
della famiglia o meglio di una parte della famiglia, i genitori, perché
più tradizionalisti, più legati a quel primogenito nato maschio, la
sorella invece ha accettato la nuova identità sessuale ma la vorrebbe
vedere "solo" come femmina) o come femmina ed è questo invece
il caso degli operatori del dipartimento di salute mentale che avendola
accettata con tale identità di genere vengono anch'essi disorientati e
quindi infastiditi da tutta una serie di atteggiamenti che Rita pone in
atto per affermare un "suo" modo di essere. Nascono da qui tutti
gli sforzi, i tentativi che la struttura fa per "normalizzare"
Rita cioè per riportarla in uno schema di senso che ridia stabilità e
tranquillità al modo di vivere, di concepire le cose e la realtà.. Ed è
questo l'obiettivo di questa tesi: evidenziare gli sforzi, gli etnometodi
che Rita utilizza per imporre una sua definizione di situazione e gli
sforzi, gli etnometodi che il sociale utilizza per
"normalizzare" l'inconsueto. Se da una parte i progressi della
scienza, in questo caso in campo chirurgico e chimico (per ciò che
concerne gli ormoni), i progressi della cultura: il movimento degli
omosessuali, transessuali, lesbiche. Gli studi di genere, Freud, Yervis ec.
hanno portato ad un diverso grado di accettazione della transessualità,
questa accettazione avviene, quando avviene, a patto che l'interessato una
volta che abbia saltato il fosso (abbia cambiato sesso) poi si presenti,
si comporti come gli individui dell'altro sesso, cercando di dimenticare
ciò che si era o meglio ciò che si è (cioè non un maschio, né una
femmina) e di farlo dimenticare agli altri. In tal modo è garantita la
normalità, il senso. Un giorno, Dopo che Rita mi aveva dato un'ennesima versione della stessa
storia, le ho detto che lei, raccontando tante bugie, avrebbe finito col
perdersi, col non distinguere più la realtà dalla fantasia, col
disorientare se stessa. In realtà ero io che temevo di disorientarmi, che
temevo di non saper distinguere più la sua realtà dalla sua fantasia (e
forse anche la mia realtà dalla mia fantasia), il vero dal falso. Avevo
bisogno di certezze e di dati sicuri. Rita mi ha guardata negli occhi e
non ha commentato. Mi colpisce sempre la convinzione con cui dà ogni
volta una versione diversa. Non è possibile che non ricordi le altre
versioni e anche quando gliele rammendo fa finta di non sentire e continua
imperterrita la recita in atto. Tutto questo deve significare qualcosa, ma
cosa? Rita ha sempre cercato di essere accettata come femmina, fin da
bambina. Ha fatto di tutto per farsi riconoscere come tale. Si è vestita
da femmina, ha imparato a cucire, lavare e stirare come una femmina. Ha
preso gli ormoni si è operata, ha sopportato il discredito, i rimproveri,
il rifiuto e il dolore dei suoi genitori, le umiliazioni, gli scherni, gli
insulti degli altri, ma tutto questo non è servito a nulla. Nessuno l'ha
riconosciuta come femmina: "Io non sono una donna doc, non sono una
donna come te, come quelle che abbiamo incontrato vicino alla
fotocopiatrice, io sono una transessuale primaria endogena, come donna io
sono nata in sala operatoria". Rita non si fa illusioni in proposito,
sa bene che non è un maschio ma che non è neanche una femmina, le bugie,
le recite le servono per comunicare, e in un certo senso siamo noi a
chiedergliele. Siamo noi che non vogliamo accettare questa realtà, la sua
realtà, perché non ha senso in un mondo in cui tutto deve avere senso,
ordine. Costringendo Rita a recitare noi possiamo dire: "E' una
bugiarda, quella è tutta una bugia" ed ecco che lo scompiglio, il
disordine che la sua esistenza comporta, si ricompone. Tutto acquista
senso e ordine. Rita si presta a questa recita, a queste bugie anche se sa
che gli altri lo sanno e che se non lo sanno ora lo sapranno dopo e la
rifiuteranno, ma meglio essere rifiutati perché si è bugiardi piuttosto
che per quello che si è nell'intimo, nell'essenza e poi cosi facendo può
recitare la parte della vittima: "Tutti mi rifiutano". Più che
recitare il termine più esatto è sceneggiare, Rita mette in scena,
mostra, comunica il rifiuto di cui è oggetto. 2-3 RITA E IL SUO CORPO Rita e il suo corpo sono sempre stati due acerrimi nemici. Fin da
piccola infatti questo corpo ha espresso un'identità diversa da quella
che lei sente dentro: "Quando andavo all'asilo mi facevano pranzare
nella coppettina celeste, io volevo quella rosa così la buttavo a terra.
Le suore allora mi punivano, mi facevano stare ore e ore inginocchiata sui
ceci. Altre volte mi davano certi schiaffoni da farmi girare la testa.
(Come sono pesanti le mani delle suore!) perché io volevo giocare con
piattini e tazzine e non con cavalli e macchinine che buttavo a terra e a
volte schiacciavo sotto i piedi. La suora diceva a mia madre: "Questo
bambino è un ritardato mentale, è un oligofrenico, ha più materia
bianca che grigia, tu lo devi mettere in istituto se nò ti farà passare
tanti guai, ti farà piangere". C'era però anche una suora buona che
mi accettava come ero e che mi riparava sotto il suo grande grembiulone,
però quella suora non era benvista dalle altre consorelle". Io: "Rita quando andavi all'asilo avevi quattro o cinque anni come
fai a ricordarti certe cose?" Lei: "Le cose che ti fanno soffrire te le ricordi e poi c'è mia
madre che ancora oggi mi ripete ciò che le dicevano le suore". Con l'adolescenza la situazione peggiora, Rita assiste impotente a quei
cambiamenti che caratterizzano il sesso maschile: voce bassa e profonda,
nascita dei peli ecc. Del suo corpo lei non accetta niente, non solo il
sesso: Più volte ha ripetuto che è: "troppo alta, non bella, al
massimo mi hanno detto "bona", mai bella, sono poco
intelligente, c'è qualcosa di infantile in me sono ancora legata, con
questo cordone ombelicale incancrenito a mia madre, alla mia
famiglia". Sul suo corpo Rita sconta rabbia e frustrazione, non lo
cura, anzi lo trascura, lo martorizza facendolo diventare il più chiaro e
fedele portavoce del suo dramma interiore Questo appare evidente sia
quando rifiuta di andare presso i laboratori della A.S.L. per curare le
piaghe che ha ai piedi (che sono una conseguenza del diabete) sia
somministrandosi quantità di insulina non adeguata alla sua necessità
per cui spesso va incontro a crisi ipoglicemiche. Un giorno che l'avevamo
portata per l'ennesima volta dal diabetologo questi ci disse chiaro e
tondo: "Rita convive col diabete da oltre venti anni, se sbaglia è
perchè lo vuole lei". Se volesse Rita potrebbe diventare una
bellissima donna, magra, ha gambe lunghe e dritte, i lineamenti del volto
sono fini e gradevoli, ma lei: a) non va mai dal parrucchiere: "perché
non ho soldi", dice, ma non è vero, a parte la pensione, da qualche
anno ha, dalla nostra struttura, un sussidio economico che gestiamo
insieme e lei ha sempre rifiutato di prendere soldi per andare dalla
parrucchiera: "Non ne vale la pena, a che scopo?, non sono bella e
non lo sarò mai". Fino a qualche tempo fa tagliava da sola i capelli
ora ha accettato di farlo fare ad una operatrice che pur non essendo
esperta è almeno più brava di lei; b) nonostante la cura ormonale Rita
ha un po’ di peli superflui sulla bocca e sul mento. Più volte
l'operatrice suddetta le ha consigliato di non radersi e di fare
l'elettrocoagulazione. La risposta è sempre la stessa: "Non ho
soldi". Tale operatrice allora ha contattato un'estetista sua amica
pregandola di fare il trattamento gratis. Per ben tre volte Rita è
mancata all'appuntamento, a volte si è rasa poche ore prima sapendo che
poi non poteva più fare il trattamento perché il pelo deve avere una
certa lunghezza; c) trucco e abbigliamento. Rita si trucca pochissimo, non
usa fard né rossetto né mascara. Assottiglia solo le sopracciglia e di
tanto in tanto fa uso di uno smalto per le unghie. In passato si truccava
di più perché voleva dimostrare a tutti di essere donna (lo ha detto
chiaramente in un'intervista riportata nel paragrafo intitolato "Rita
e gli "altri" Salvatore"). Dopo l'operazione non sente più
questa necessità in maniera forte inoltre teme che usando un trucco
pesante possa essere scambiata per una prostituta e infine vuole dare di sé
l'immagine di una donna umile e sottomessa (come spesso ama ripetere).
L'abbigliamento, non adeguato alla sua personalità è il suo asso nella
manica, quello che meglio di qualsiasi altra cosa esprime ciò che lei
vuole comunicare. Le scarpe, in genere un pò piccole (non è facile
trovare il suo numero), hanno punta sfilata e tacco a spillo, queste oltre
a farle sanguinare le dita, che a causa del diabete sono piagate, le danno
un'andatura instabile e traballante. Data l'altezza e il tono umile che
vuole imprimere alla sua persona cammina anche leggermente ricurva. La
biancheria intima è curata l'abbigliamento esterno no. A dire della
sorella spende parecchi soldi nell'acquisto di reggiseni, slip sottovesti.
Rita infatti è una delle poche donne giovani che usa ancora la sottana.
Tale sottana spesso si vede perché più lunga dei vestiti. Nel suo paese
c'è un detto che dice che una donna che fa vedere la sottana cerca
marito. Non usa mai pantaloni o tute ma gonne, camicette, magliette e
vestiti. I colori in genere sono smorti, le lunghezze delle gonne e dei
vestiti sono molto ridotte, le gambe infatti sono quasi tutte scoperte.
Cambia molti abiti che si procura o dalla Caritas o da conoscenti (il suo
medico di famiglia che è femmina, l'avvocatessa che le ha curato la
pratica per il cambiamento di sesso, gli operatori dei servizi che
contatta, persino da qualche utente più disgraziata di lei) o comprandoli
con pochi soldi al mercatino dell'usato. Accetta volentieri ogni capo
usato per poi stringerlo, accorciarlo, modificarlo grazie ad una macchina
per cucire della madre. Il risultato è sempre pessimo. I primi tempi
tutta l'équipe ha pensato che fosse una questione di soldi, di altezza e
forse anche di avere poco gusto. Ci siamo preoccupati perciò di farle
avere il sussidio economico, spesso le abbiamo dato dei consigli, abbiamo
contattato la sorella pregandola di aiutarla sia nell'acquisto che
nell'abbinamento dei capi di abbigliamento. Tutto è stato vano, Rita
continua imperterrita ad adottare il suo stile. Abbigliandosi in questo
modo punisce il suo corpo, attira l'attenzione, dato che non può farlo
con la bellezza (che, dice lei, non ha) e suscita, nei più ingenui o in
quelli che la conoscono poco, un sentimento di compassione e pietà; negli
altri, quelli che la conoscono bene, irritazione e rifiuto. Spesso, nei
momenti di crisi, butta tutta la sua roba dalla finestra. Non la butta
nell'apposito cassonetto né in mezzo alla strada ma nel cortile della sua
palazzina, suscitando le lamentele dei coinquilini e degli altri vicini.
E' un altro suo modo per attirare l'attenzione e per dire "io sono
qua con tutto il mio disagio". Una volta mi disse che così come
taglia, straccia e butta la sua roba vorrebbe tagliare, stracciare e
buttare anche il suo corpo solo che è troppo vigliacca per farlo. Se dal
punto di vista estetico le cose non vanno bene, dal punto di vista della
cura della salute le cose vanno ancora peggio. Non solo usa scarpe strette
a punta sfilata facendo sanguinare le dita dei piedi ma poi non le cura
neanche, né va a fare le dovute medicazioni in ospedale. Risultato è che
spesso si crea del pus che emanando un terribile odore fa nauseare chi le
sta vicino. Una volta una infermiera la rimproverò perché saltava le
medicazioni ricordandole i gravi rischi a cui va incontro: "Si lo so,
disse lei con tranquillità e per nulla turbata, anzi con un sorriso di
compiacimento, qui bisognerebbe tagliare i piedi" "E come, fa
l'infermiera, lo dici così, ti rendi conto cosa vuol dire avere un piede
amputato?" "Tanto per quello che mi serve" Essendo affetta
da "diabete mellito" dall'età di quattordici anni
sa iniettarsi benissimo l'insulina da sola eppure quando viene al
Centro diurno preferisce farsela fare dall'infermiera. E' un altro modo
per costringere gli altri ad occuparsi di lei. A volte è soggetta a crisi
ipoglicemiche che la fanno star male e cadere per terra. Tali crisi sono
dovute al fatto che fa l'insulina anche se non ha fatto colazione o non ha
pranzato, pur sapendo benissimo che se non mangia non dovrebbe farla.
Spesso queste crisi ipoglicemiche la colgono proprio quando è impegnata
in attività socializzanti organizzate dalla nostra struttura: durante la
sfilata di carnevale o nel corso di una festa natalizia o ancora durante
una recita (è molto brava a recitare) Ciò, nonostante che si mostri
sempre molto contenta di partecipare a tali attività che rompono la
monotonia della vita quotidiana e le permettono di rapportarsi agli altri.
Un giorno le ho chiesto: "Rita perché ti vengono queste crisi
ipoglicemiche?" Rita: "Perché faccio l'insulina anche se non ho mangiato". Io: "Perché fai l'insulina se non hai mangiato?" Rita: "Non lo so". Io: "Come non lo sai, ormai sono anni che ti succede, un motivo ci
deve essere, forse se lo capiamo poi sarà più facile controllare la
situazione" Rita: "L'insulina comanda gli zuccheri, l'insulina comanda a
bacchetta gli zuccheri, noi diabetici abbiamo gli zuccheri che non
funzionano allora facendo l'insulina, anche se non ho mangiato io comando
gli zuccheri e così sconfiggo il diabete". Un altro grosso problema di Rita è l'incontinenza. Dopo circa un anno e
mezzo dall'operazione Rita comincia a perdere urine e a lavarsi poco. Da
colloqui con la famiglia di origine emerge che lei ha sempre avuto il
problema dell'enuresi notturna sia da piccola che da grande. (I genitori,
in passato, l'hanno portata da diversi specialisti per verificare se c'era
un problema fisico e tutti i medici che l'hanno visitata hanno escluso
tale eventualità. I genitori sono arrivati quindi alla conclusione che
Rita faceva la pipì a letto per dispetto). Adesso il problema si è
aggravato perché Rita perde le urine anche nel pulmino che la va a
prendere da casa per portarla al Centro Diurno, nel centro Diurno dove
bagna anche le sedie, i divani, il corridoio ecc. Racconta Rita di averle
perse persino in chiesa mentre andava a prendere la comunione. Lavandosi
poco (anche se lei lo ha sempre negato) Rita emana un odore nauseabondo.
Tutto ciò innesca meccanismi di esclusione. Rita viene rimproverata e
sospesa dal Centro Diurno più volte. 2-4 RITA E LA TRANSESSUALITA' Rita dice di se stessa:
”Io sono un trans” ed in questa frase racchiude tutta la sua
“drammaticità esistenziale”. Rita si presenta al mondo, alla vita con
questo suo “essere” definito da un “non essere”: non è un maschio
ma non è neanche una femmina. Chi è allora Rita? Non è certamente una
pianta, né un animale ( non è un cavallo, non è un cane, non è un
gatto né qualsiasi altro animale), è un essere “umano”. Ma che vuol
dire essere un essere umano nel mondo della vita quotidiana, un mondo in
cui tutti gli uomini, anche quelli della più sperduta tribù primitiva
concordano nel distinguere l’umanità in maschi e femmine? E’ questo
un principio generalissimo che nessuno mette in discussione su cui non si
genera il non che minimo dubbio. Una di quelle certezze di base da cui
tutti partiamo. Possiamo discutere sulla bellezza, sulla forza,
sull’intelligenza, come su ogni altra caratteristica dell’essere
umano. Tutti possiamo essere pronti a mettere in gioco un modello di
bellezza, forza, intelligenza, riconoscendo che questi modelli sono
suscettibili di variazioni, di definizioni e punti di vista differenti ma
nessuno è disponibile a riconoscere, ad accettare un terzo o quarto o
ennesimo “genere”: o si è maschi o si è femmine. Un giorno ho detto,
a dei colleghi di lavoro che stavano enumerando le malefatte di Rita che,
fra i nostri utenti, Rita è certamente la più povera di tutti e non mi
riferivo all’aspetto economico. Rita è la più povera di tutti perché
non ha neanche un’identità di genere. Tutti, anche lo schizofrenico più
cronico, sanno almeno una cosa cioè se si è maschio o se si è femmina.
Rita non sa neanche questo”. Nel corso dei colloqui avuti con i
familiari di Rita questi più volte hanno definito la stessa come una
persona “cocciuta”, “testa dura”, e su questa definizione hanno
concordato poi tutti gli operatori che si sono occupati del caso. E’
vero Rita quando ha deciso di fare qualcosa non c’è verso di farle
cambiare idea, non servono i ragionamenti, né le lusinghe, né le
minacce, né le punizioni. Rita diventa molto determinata, una roccia
inaccessibile, inattaccabile. Ed è tale determinatezza che emerge nei
quotidiani tentativi che lei fa per essere accettata come trans. Tutte le
bugie che racconta servono a far accettare all'altro una verità: la sua
condizione di trans. Raccontando le bugie, (per esempio una volta, che le
avevo fatto dei complimenti per la bella camicetta che indossava, mi disse
che era quella di quando si era cresimata, che lei aveva pochi capi di
abbigliamento: primo perché non aveva soldi, secondo perché era
contraria ad indossare roba usata dagli altri (Rita invece si veste quasi
esclusivamente di roba di seconda mano); un’altra volta raccontò che
quando si sposò la sorella tutti i familiari andarono in chiesa con la
sposa lei invece dovette restare a casa per “pulire la cucina, finire di
riassettare e poi, vestita con un abito di tutti i giorni andare da sola
in chiesa per sedermi all’ultimo banco, in fondo, lontana da tutti”)
è come se Rita dicesse all’altro: “io sono un povero,
un’emarginata, una vittima di un mondo ostile e crudele, una sfruttata,
una disgraziata, ti prego accettami.” e come trans Rita è tutte queste
cose. Le bugie sono dunque una strategia che lei adotta per spiegare la
sua situazione di trans altrimenti inspiegabile, emerge da qui il
paradosso che la caratterizza: dire la bugia per dire la verità. Può
Rita gridare ai quattro venti: “Sono una femmina” (potrebbe farlo,
adesso lo è anche anatomicamente, giuridicamente, anagraficamente) ma non
lo fa perché questo per lei è mentire veramente su quello che si è. (Si
può mentire su qualsiasi cosa in fondo non sono altro che bugie, dei
peccati veniali, ma mentire, su ciò che si è, è un peccato mortale nel
senso letterale del termine, nel senso che ti fa morire nell’essenza,
nell’essere.) Rita con la sua verità esistenziale, non accettando di
nascondere chi è sconvolge l’ordine sociale. Ne è rimasta sconvolta la
famiglia (e questo per me è accettabile e comprensibile) ma ne è rimasta
sconvolta anche un’altra istituzione sociale: l’Unità Operativa
Psichiatrica in cui lavoro, e questo per me è meno accettabile e meno
comprensibile perché sconvolge un altro ordine di senso quello cioè che
una struttura psichiatrica per definizione, per compito istituzionale, per
cultura, è uno spazio in cui essere accettati e compresi al di là di
ogni regola comportamentale che disciplina i rapporti sociali. 2-5 RITA, LE ISTITUZIONI SANITARIE E L’UNITA’OPERATIVA PSCHIATRICA. Il rapporto di Rita con le strutture sanitarie in genere è sempre
stato, fino a quando non ha potuto fare il cambiamento di sesso e il
conseguente cambiamento di nome, ambivalente e conflittuale. A causa dei
suoi problemi fisici (dall’età di quattordici anni è affetta da
“diabete mellito”, dopo qualche anno ha avuto “un’affezione
polmonare”, il cambiamento di sesso ecc.) Rita ha avuto bisogno di
ricoveri in strutture ospedaliere e di fare frequenti analisi di
laboratorio. Queste ultime in particolare erano fonte per lei di grave
disagio e sofferenza: “Ricordo che era terribile per me l’attesa in
una sala d’aspetto piena di gente in quanto venivo chiamata,
dall’infermiera di turno, col mio cognome e nome maschile”. Per quanto
riguarda i ricoveri ospedalieri invece il problema era per certi versi
anche più complesso. Rita infatti non voleva ricoverarsi nel reparto
maschile. Ogni volta era costretta a spiegare la sua situazione mettendo i
medici in difficoltà. Questi infatti se da un punto di vista umano
comprendevano la sua situazione, dall’altro si trovavano con un paziente
di sesso maschile, con un nome e cognome maschile, per cui formalmente
erano tenuti a ricoverarla nel reparto maschile e poi “che avrebbero
detto le altre donne ricoverate?” Quando era fortunata la soluzione
veniva trovata ricoverandola in una stanza singola. (Date le sue
condizioni economiche Rita non poteva permettersi una stanza a pagamento).
Superato questo problema il resto diventava più semplice: primo perché
poteva interpretare un ruolo, quello dell’ammalata, non ambiguo che le
restituiva un’identità seppure provvisoria. Nell’ospedale e per
l’ospedale lei diventava un’ammalata. Secondo perché era circondata
da persone che si prendevano cura di lei. A giugno del 1981 Rita, che all’epoca aveva diciassette anni e mezzo
contatta il consultorio familiare del suo comune, su “sollecitazione
della madre che per prima si era rivolta alla psicologa del consultorio
per avere un chiarimento d’idee sulla reale situazione del figlio”
(vedi documento n.1). Rita chiarisce subito che “aveva accettato di
venire in consultorio solo per accontentare la madre ma era convinto che
nessuno avrebbe mai potuto aiutarlo, tanto meno uno psicologo il cui unico
intervento, a suo parere, poteva essere finalizzato solamente, in base
alle sue esperienze precedenti, a recuperare una normalità che sentiva di
odiare.” (Vedi documento n.1). Rita conclude il colloquio chiedendo di
“dimenticarlo in quanto l’unica sua speranza poteva essere
l’intervento di cambiamento del sesso, di cui risultava già all’epoca
informatissimo, ma che, dato l’alto costo, sapeva benissimo che non lo
avrebbe mai potuto affrontare e di fronte a tale realtà ogni parola, ogni
colloquio risultava inutile.” (vedi documento n.1). Si ripresenta invece
dopo cinque anni. "Nell'aspetto esteriore si era decisamente più
femminilizzato: capelli più lunghi, viso perfettamente depilato e
leggermente truccato, pantaloni e maglietta di gusto squisitamente
femminile, uso di collant nonché, a suo dire, di biancheria intima
femminile. Rispetto al primo incontro si evidenziò che il disagio legato
al sesso irrisolto era andato aggravandosi: espose chiaramente e
drammaticamente le sue problematiche, il suo disagio, le sue esigenze, il
senso di estraneità al suo apparato genitale (tante volte in quegli anni
aveva preso in considerazione l'idea di automutilarsi) che trovava
ripugnante. (vedi documento n.1) Questa volta le viene prospettata
"la possibilità di affrontare i suoi problemi in modo più
costruttivo grazie all'applicazione della legge 164, del 14/4/82, che
autorizzava il cambiamento di sesso." ( vedi doc. n.1) Sempre nella
stessa relazione si legge che Rita ritorna in consultorio dopo tre mesi
"in uno stato di grande depressione: aveva preso in considerazione la
possibilità di darsi la morte tramite eutanasia e ci chiedeva il nome di
un medico disponibile a fare ciò." (vedi doc. n1) Rita più volte mi
ha parlato di avere avuto qualche
idea di suicidio ma che non le ha mai messo in pratica perché
"vigliacca", in effetti lei è molto legata alla vita per cui è
probabile che abbia recitato la parte dell'aspirante suicida per esprimere
la sua disperazione affinchè gli operatori non si limitassero a
prospettargli la possibilità… ma prendessero delle iniziative concrete.
Cosa questa che avvenne. Nel 1997 Rita si presenta alla nostra Unità Operativa psichiatrica
inviata dal Consultorio perché "depressa". All'inizio quindi ha
colloqui solo con la figura medica. Ed è nel corridoio del nostro
servizio, che funge da sala di aspetto, che conosco Rita. Non notarla è
impossibile molto alta, magra, vestita generalmente di scuro, con abiti
femminili puliti ordinati ma consumati e corti (allora si pensava che
essendo molto alta e indossando indumenti smessi da altri, se li procurava
tramite la "Caritas" del paese, non trovasse quelli della giusta
lunghezza), con una sottile giacchettina di lana, anche d'inverno e con
scarpe (vecchie e consumate) sempre qualche numero più piccolo e aperte
da dietro Rita è l'immagine di una "povera disgraziata". Capace
di stare anche molte ore seduta al
suo posto, in attesa che arrivi il suo turno, non dà mai segni di
impazienza. A volte esce dalla stanza della dottoressa con ancora le
lacrime agli occhi. Comincio a salutarla, come faccio con tutti gli
utenti, anche con quelli di cui non mi occupo direttamente. Qualche volta
le offro qualche rivista per ingannare l'attesa (lo faccio anche con
altri). Inizia così il nostro rapporto.
(In realtà ho visto Rita la prima volta alcuni anni prima al
supermercato del mio quartiere. Entrambe facevamo la fila al bancone dei
salumi. Mi colpì la sua altezza e il suo modo di presentarsi. Il suo
abbigliamento, il taglio dei capelli e tutto il resto non denotavano
chiaramente il suo sesso. Cercando di non farmi notare l'ho guardata a
lungo per capire se fosse un maschio o una femmina. Me ne sono andata col
dubbio. Dopo circa un anno mi è capitato di parlare con una mia amica
psicologa, la stessa del consultorio a cui si era rivolta Rita, del
problema della transessualità e tale amica mi ha detto che stava
trattando il caso di un ragazzo "molto alto" che aveva questo
problema. Mi è tornata alla mente l'immagine della persona incontrata al
supermercato e ho collegato le cose. Quando ho rivisto Rita al servizio
d'igiene mentale non l'ho riconosciuta subito, nonostante l'altezza, perché
questa volta lei si è presentata chiaramente come una donna.) I nostri
primi dialoghi avvengono quindi nel corridoio del servizio. Rita mi parla
subito della sua transessualità, della solitudine dei difficili rapporti
con la famiglia e con gli altri. Pian piano questi colloqui informali
diventano una consuetudine tanto da indurre Rita a cercarmi prima di fare
il colloquio con il medico o dopo averlo fatto. Faccio presente la cosa,
alla dottoressa, con qualche timore (mi sarò intromessa indebitamente in
un rapporto terapeutico?). La dottoressa invece non appare contrariata
anzi è sollevata perché può condividere la pesante problematica di
questa utente con un altro operatore. Durante questi colloqui Rita mi dà
una versione fantasiosa e romanzata della sua vita, della sua storia. Una
versione dove realtà e fantasia si fondono per restituire l'immagine di
una persona debole, fragile, sensibile, succube, sfruttata, incompresa,
che descrive bene la sua verità esistenziale. Una volta Rita mi dice che
la sua famiglia è molto povera, che il padre non lavora e che fa tanti
debiti per cui lei è costretta a consegnare la sua misera pensione di
invalidità civile (ottenuta perché diabetica grave, fa l'insulina tre
volte al giorno) fino all'ultima cento lire; che ha consegnato alla
famiglia tutti gli arretrati della pensione (svariati milioni) e che anche
questi sono stati consumati dal padre. (Ho saputo poi dalla famiglia, e
lei ha confermato la cosa, che non solo consegna la pensione
saltuariamente, in genere quando non ha alcun legame sentimentale, o forse
sarebbe meglio dire sessuale, con qualche ragazzo ma che i soldi degli
arretrati della pensione sono stati dati tutti a un noto ragazzo, con
tendenze omosessuali, con cui ha avuto contatti in quel periodo, ragazzo
che è sparito quando sono finiti i soldi). Un'altra volta mi racconta che
ama studiare, che ha frequentato la scuola dell'obbligo fino alla quinta
elementare perché la direttrice la sospendeva sempre in quanto voleva
stare seduta nel banco con le femmine, si atteggiava da femmina e spesso
andava a scuola vestita da femmina. Dopo qualche anno mi ha raccontato
invece che, in possesso della terza media (cosa questa confermata dalla
famiglia) si è iscritta alla scuola di avviamento professionale dove ha
conseguito l'attestato di segretaria d'azienda. Un'altra volta ancora mi
racconta che la sorella sposata vive in Germania in una bellissima villa
con tanto verde intorno ed una magnifica piscina e che lei l'ha supplicata
di prenderla con sé "sono disposta anche a farle da serva, ad
accudire i bambini" e che la sorella l'ha rifiutata perché si
vergogna di lei, non può presentarla ai suoi amici durante i party e
altri incontri mondani. (La sorella sposata vive effettivamente a Monaco
ma occupa un appartamento popolare al ventisettesimo piano di un grande
stabile). Durante questi primi mesi io l'ascolto sempre con disponibilità,
provo pena per lei e rabbia per gli altri, per la direttrice della scuola
elementare, per il padre, per la sorella. Non dubito mai che Rita mi stia
mentendo. Di tanto in tanto le do qualche consiglio pratico come quando le
ho suggerito di prendersi la licenza media in un corso serale. Mi offro di
prendere i dovuti contatti con la scuola, di aiutarla a preparare i
documenti e di convincere la famiglia. Svolgo insomma con solerzia (il
tono è ironico) il ruolo dell'assistente sociale anche se il contesto è
ambiguo perché io sono l'assistente sociale del servizio d'igiene mentale
ma Rita formalmente non è una mia utente. Rita ovviamente rifiuta
"rivivrei lo stesso disagio di quando andavo a scuola, sarei il
bersaglio delle loro prese in giro e poi non mi interessa fare i programmi
previsti dalla scuola media, mi interessano le problematiche sociali più
da adulti", e per non contrariarmi aggiunge che forse lo farà dopo
aver cambiato sesso e nome. Le propongo allora di frequentare l'Università
della terza età che tiene i suoi corsi presso la biblioteca del suo
paese. Lì avrebbe incontrato gente matura, poco propensa a prendere in
giro gli altri, avrebbe affrontato temi di attualità e soprattutto
avrebbe rotto il suo isolamento. Rita si mostra titubante accetta che mi
informi più precisamente sulla data e frequenza delle lezioni. Cosa che
faccio, ma lei poi rifiuta. I nostri colloqui vanno avanti per mesi senza
che io sospetti mai che lei stesse mentendo, qualche volta penso solo che
forse esagera un po’. D'altra parte Rita racconta le sue storie di
emarginazione sempre con dignità senza usare mai un tono di voce
esageratamente pietoso, con un linguaggio misurato, obiettivo, senza mai
eccedere troppo nel descrivere la crudeltà altrui, senza mai esprimere
giudizi di condanna verso gli altri. E poi i racconti di Rita non mirano
mai ad avere un beneficio (un sussidio economico per esempio o qualsiasi
altro intervento utilitaristico). Un giorno un'infermiera dell'équipe mi fa presente che Rita le ha
chiesto di frequentare il nostro "Centro Diurno" (La nostra unità
operativa psichiatrica gestisce infatti una struttura riabilitativa
semiresidenziale: il Centro Diurno. Tale struttura ha iniziato la sua
attività circa quattro anni fa. Può ospitare fino ad un massimo di
venticinque utenti. E' aperta tutti i giorni feriali dalle ore 8.00 alle
ore 18.30 ed è gestita da una cooperativa che all'uopo ha stipulato una
convenzione con l'A.U.S.L. Gli operatori gestiscono diversi laboratori:
pittura, fotografia, sartoria ecc. Attraverso tali attività e su un
progetto terapeutico individuale, concordato con il dirigente della
unità operativa psichiatrica, si attuano interventi terapeutici
finalizzati alla cura e al recupero. Il centro è frequentato da ragazze e
ragazzi giovani, fino massimo a 50 anni, che vivono un disagio psichico.)
Mi colpisce non tanto la richiesta di Rita, conoscendo il suo isolamento
sociale, anche io da qualche tempo stavo pensando di proporre a lei e all'équipe
un inserimento in tale struttura, quanto il fatto che tale richiesta lei
la abbia fatto a quell'infermiera e non a me con cui ha avuto molti più
colloqui e con la quale ha maggiore confidenza. L'infermiera in questione
è molto religiosa, va spesso a messa, (Rita ci va quasi tutti i giorni)
apparentemente è quella che parla di meno, è poco sicura, non ha molto
potere nell'influenzare le decisioni dei vertici dell'équipe. Mi sento
risentita e ne sono consapevole, nel contempo però mi sento anche
sollevata. Ho già detto prima che anche io stavo pensando di proporre
all'équipe l'inserimento di Rita nel Centro Diurno, se non l'avevo già
fatto era perché cercavo il modo migliore per farlo. Sapevo che ci
sarebbero state delle resistenze e che tali resistenze sarebbero aumentate
se la proposta fosse partita da me. Teoricamente l'équipe dovrebbe essere
una struttura democratica all'interno della quale il parere dei vari
membri dovrebbe avere lo stesso peso per cui, terminata la discussione,
dovrebbe emergere la decisione migliore per il benessere dell'utente. Di
fatto è una struttura gerarchica dove pesano ruoli e livelli che si
occupano. Su tutti prevale il parere dei medici, viene poi il parere della
psicologa, la quale però ha molta influenza sul responsabile del
servizio, che è un medico. Viene infine il parere delle assistenti
sociali (siamo in due) e degli infermieri (sono in otto). Tra me e la
psicologa non corre buon sangue. Partiamo da due posizioni, diametralmente
opposte, di considerare il "disagio psichico". Per lei gli
utenti sono "quasi" tutti irrecuperabili (il "quasi"
l'ho messo per sforzarmi di essere il più obiettiva possibile), per me
sono "quasi" tutti recuperabili (anche qui il "quasi"
ubbidisce allo stesso sforzo, ritengo che tutti possono migliorare la loro
qualità di vita). Per lei il disagio psichico è una "malattia"
che necessita di farmaci e di direttive ben precise. Se il paziente non
segue le sue direttive e quelle dei medici allora non vuole o non può
guarire, in ogni caso lei si è liberata di un problema. Per me il disagio
psichico più che una malattia è un "modo di essere" il
risultato di conflittualità interne (psicologiche) ed esterne (modalità
con cui abbiamo strutturato la nostra realtà sociale). Io non ho
direttive chiare, precise, a cui riferirmi. Quando strutturo un rapporto
con un utente un po’ sono io che seguo lui un po’ è lui che segue me.
Cerco sempre di considerare più punti di vista, il suo, il mio, quello
della madre, del padre, dei fratelli, degli insegnanti (se va a scuola)
degli altri membri dell'équipe ecc. Il mio primo obiettivo è quello di
incontrarlo come persona e di farmi incontrare come persona che in quel
contesto è anche un'assistente sociale col compito di favorire il suo
reinserimento sociale. Partendo da posizioni così differenti è chiaro
che spesso ci scontriamo. Per lei, come credo anche per la maggior parte
dell'équipe, io sono un'idealista, un'utopista, lei è una realista. Per
me io sono un'idealista, con i piedi per terra, ma anche tenacemente
legata ai miei ideali, voglio qualcosa di più dello status quo. Per me
lei è una realista che non ha solo i piedi per terra ma anche la testa
cosicchè non vede tutte le possibilità che ogni essere umano ha. (E'
chiaro che questa è la mia lettura della situazione). All'interno della
struttura la psicologa ha più potere di me e non solo perchè lei ha il
decimo o l'undicesimo livello e io il sesto ma anche perché lei col suo
realismo calma l'angoscia, la frustrazione, il senso di inadeguatezza che
prende gli operatori di fronte ad una "patologia" che non dà
buoni indici di "guarigione". Io invece, con la mia posizione,
aumento l'angoscia, la frustrazione, il senso di inadeguatezza, perché
sembro dire agli altri e a lei in particolare, perché lei esprime più di
tutti l'altra posizione, "se tizio non migliora è perché noi non
siamo abbastanza bravi". (Veramente non so neanche se per gli altri
è un "noi" e non un "voi", per me comunque è
un noi ). Tornando a Rita quando l'infermiera mi ha detto della richiesta
dell'utente, accanto al risentimento, alla sorpresa, c'è stato anche il
sollievo perché sapevo che se la proposta l'avessi fatta io, la psicologa
si sarebbe opposta fermamente e quindi, per il gioco delle alleanze con
chi ha più potere, rischiava di essere bocciata. Ho considerato anche il
perché l'infermiera l'avesse detto prima a me e non direttamente all'équipe,
probabilmente sperava che io facessi mia tale proposta e fossi io a dirlo
in équipe. Non potendolo fare (per le ragioni su esposte) ho assicurato
comunque il mio appoggio e ne ho parlato con la dottoressa che segue il
caso per assicurarmi anche il suo appoggio. (Mi sorge il sospetto che Rita
sia più intelligente di quello che credo. Se lo ha detto prima a
quell'infermiera e non a me o alla dottoressa un motivo ci deve essere,
che abbia colto le nostre dinamiche relazionali?) L'infermiera dunque
esprime la richiesta dell'utente in équipe, subito la psicologa esprime
il suo dissenso: Rita con la sua problematica sessuale, col fatto che ne
parla apertamente e con la "fame" di maschi che ha può essere
un pericolo per il gruppo. Interviene la mia collega (l’altra assistente
sociale): “Va bene, ma che cosa può succedere, in cinta non esce!”.
La battuta suscita ilarità, la tensione, o almeno la mia tensione, si
placa. La mia collega ha un certo potere all’interno dell’équipe
perché più realista di me e meno angosciante nei confronti del gruppo.
Interveniamo io e la dottoressa ad appoggiare la proposta, anche gli altri
si dichiarano d’accordo. Rita è ammessa al Centro Diurno. (Ho capito
poi perché Rita ha fatto la sua richiesta prima a quell’infermiera e
poi a me e alla dottoressa. La psicologa ha ragione quando dice che Rita
ha “fame” di maschi, specie ora che ha fatto da poco l’intervento
chirurgico di conversione andro-ginoide e che quindi può sperare in un
rapporto uomo-donna normale e nel Centro diurno ci sono diversi maschi.
Tale struttura inoltre è frequentata da Giacomo (il nome, come tutti gli
altri nomi che scriverò, naturalmente è fittizio). Giacomo è il
fratello minore di Salvatore. Salvatore è un ragazzo col quale Rita sta
vivendo una tormentata storia d’amore di cui ha parlato sia a me che
alla dottoressa per cui teme che noi colleghiamo le due cose e le
impediamo di frequentare il Centro Diurno. Preferisce perciò tastare
prima il terreno e confida in una buona parola dell’infermiera. 2-6 RITA E SALVATORE Salvatore è il primogenito di tre germani. Il padre, muratore, non ha
mai avuto un buon rapporto con la moglie. Spesso la picchiava e l’ha
continuato a fare fino a quando Salvatore e Giacomo sono cresciuti e
diventati abbastanza forti da opporsi anche fisicamente. La madre,
casalinga, ha cercato nei figli degli alleati instaurando con loro un
legame molto stretto ed oppressivo. Risultato di tale situazione sono
stati tre figli problematici: Roberta, la secondogenita, psicotica, ha
fatto vita da reclusa fino a qualche mese fa quando, deceduta la
genitrice, ha finalmente potuto frequentare il Centro Diurno. (A nulla
sono valsi i tentativi fatti in passato. Una volta che, dopo aver inserito
il secondogenito in una Casa Famiglia, cercavo di convincere a far
frequentare a Roberta la nostra struttura diurna, la madre mi disse: ”Ti
sei presa il primo non ti permetterò di prenderti il secondo”).
Giacomo, l’ultimogenito, è schizofrenico. A volte ha espresso il suo
disagio anche picchiando la madre e procurandole diversi lividi, oltre che
con rapporti incestuosi con la sorella e altri comportamenti devianti.
Salvatore, il primogenito, in passato ha fatto uso di droghe leggere, è
stato qualche volta in carcere e ha tendenze omosessuali anche se lui si
ritiene un eterosessuale. Rita lo descrive come “un ragazzo bellissimo,
così bruno, giovane (è circa sei anni più giovane di lei) con la pelle
liscia che sa di gioventù”. Descriverò il rapporto intercorso tra Rita
e Salvatore riportando la
registrazione grafica del colloquio che
ho avuto, a tal proposito, con Rita. Tale colloquio segue il
protocollo dell’intervista semistrutturata: “Rita come hai conosciuto Salvatore?” “E’ lui che ha conosciuto me, mentre andavo in chiesa appare un bel
ragazzo bruno con gli occhi a mandorla, i capelli neri neri tutti verso
dietro. Era tempo d’estate, lui portava una camicetta un po’
sbottonata da cui si vedevano i peli neri e mi dice:
“Ciao bella vuoi venire a fare un giro con me?” Io allora ero più giovane,
sono passati quasi cinque anni, avevo una gonna corta una camicetta e una
giacchettina fatta da me all’uncinetto, scarpe con tacco sottile e alto.
Io ho pensato: che bel ragazzo come è bono, guardo dietro di me e vedo
tre adolescenti, femmine vere, con scarponi e pensai che era rivolto a
loro l’invito per cui chiesi a lui: ma ce l’hai con me? “Si ce l’ho con te”.
Era in macchina con i finestrini spalancati e la radio a tutto volume.
Mi avvicinai e dissi: Vuoi sapere l’orario?, non ho l’orologio. ”No ce l’ho
l’orologio, voglio uscire con te”. Io era da molto che non
uscivo con un ragazzo, le pupille mi si dilatarono, lui aveva dei denti
bellissimi. Io non seppi resistere e salii in macchina”. Io:“Dove siete andati?" “In giro per il paese, dissi: come ti chiami? “Salvatore”, che bel nome sembra di origine latina “E' quello di mio nonno,
tu ti chiami invece Rita, io ti seguo da molto tempo, quando vai in
chiesa, a fare la spesa, tu cammini sempre con la testa bassa”. Ci fermammo in una strada
di campagna, lui cominciò ad accarezzarmi le ginocchia e poi più su. Io
stringevo le gambe perché più su c’era lui (il mio sesso maschile
stretto stretto in un paio di slip elasticizzati, ho avuto tre ernie per
questo). Cominciai ad accarezzarlo anche io, sentivo la sua mano con i
peli sul dorso. L’inizio è stato bello perché non siamo approdati
subito al sesso. Abbiamo parlato a lungo. Lui mi raccontava le sue
difficoltà a trovare lavoro. Dopo quella sera ci siamo rivisti di nuovo,
ci siamo fatti tante effusioni lui
però, il seno me lo accarezzava (avevo già iniziato la cura ormonale e
il mio seno era turgido) ma non mi baciava né si lasciava baciare sulla
bocca. Io volevo sentire la sua lingua sotto l’arcata della lingua mia,
volevo sapere cosa provavano le ragazze e quando gli chiesi perché non mi
baciava lui rispose che era fatto come il padre il quale non ha mai
baciato la madre. Abbiamo continuato ad uscire, veniva a prendermi da
casa, suonava il campanello e io scendevo. Ai miei dicevo che era
Rossella, una ragazza che è esistita veramente, era un’ex fidanzata di
Salvatore, i miei erano talmente “televisionati”, sempre incollati
davanti al televisore, che non si accorgevano di niente. L’otto dicembre
Salvatore mi porta a casa
sua, una casa popolare nella 167, tu la conosci no?, i genitori erano in
campagna, e sul divano abbiamo finalmente cominciato a consumare. Fino ad
allora c’erano stati solo abbracci e carezze. Io dicevo: stringimi,
fammi male, come mi avvicinavo alla bocca però il ragazzo si irrigidiva,
io dicevo: che c’è puzzo, ho l’alito cattivo? “No, diceva lui,
semmai sono io che puzzo perché fumo”. Quando lui si apriva la
camicetta per me si apriva un paradiso, con i suoi capezzoli alti, con i
peli neri che scendevano giù fino all’ombelico. Mi piaceva leccarlo
tutto come un gelato in piena estate, non avevo mai dei cali di desiderio.
Io dicevo a me stessa: non ti affezionare
devi fare i conti con l’anagrafe, (l’anagrafe è una tiranna,
ti presenta sempre il conto ed è salato). Vacci piano ancora devi essere
operata. C’erano due Rite in me, una mi invitava ad essere prudente,
l’altra mi diceva: fallo, quest’occasione non ti capiterà più,
l’operazione chissà quando la potrai fare (il professore B… diceva
che ero la duecentoeunesima e l’allora ministro aveva stabilito che in
un anno a Bari massimo si potevano operare quattro trans quindi chissà
quando sarebbe toccato a me).” Io:“Se stavano così le cose come mai poi sei riuscita ad operarti in
tempi più ristretti?” “Sono stata operata prima a causa della vasculopatia che andava
peggiorando e che non mi avrebbe più permesso di fare l’intervento,
devo ringraziare anche gli operatori del consultorio e il dirigente di
questo servizio psichiatrico che ha fatto molto per me. Quella sera
Salvatore è venuto a prendermi dalla chiesa, quando mi ha detto che
voleva portarmi a casa sua io ho fatto la ritrosa, mi vergognavo, temevo
che qualcuno mi vedesse e lo riferisse a mio padre, ho chiesto di entrare
dal portone posteriore e complice il buio tutto è andato bene. (I suoi
genitori erano sempre in campagna). Lui ha acceso il televisore, ha bevuto
della birra, io sono astemia. Allora usavo gonne più corte, ero più
moderna, e un maglione con babbo natale disegnato (come ero stupida avevo
più di trent’anni e mi vestivo come un’adolescente), lui continuava a
bere e faceva grossi rutti, io accettavo tutto, sarebbe stato buffo se mi
fossero venuti a me. Io mi strofinavo a lui e non ho pensato più a
Cristo, ai santi e al mio desiderio di farmi suora, la “sponsa Christi”
aveva ceduto. Mi lasciai andare l’ho spogliato, accarezzato, leccato,
lui mi ha spogliata, mi ha distesa sul divano e ha messo il suo pene tra
il mio seno, io cercavo il suo viso ma lui non voleva e ha eiaculato (lui
era un “eiaculatio praecox”). Quando abbiamo finito lui non ha più
voluto essere abbracciato, questo mi ha fatto soffrire. La solita fretta
che i ragazzi hanno di “venire”. Ci siamo lavati, seduti sul divano e
io mi sono accoccolata su di lui, avevo voglia di stare ancora abbracciata
a lui. Salvatore invece mi ha detto: “Ma sei insaziabile,
abbiamo appena finito di consumare”. Io gli ho risposto:
“Guarda che quello che ha consumato sei stato tu, io non ho consumato un
bel niente”. Io non avevo avuto neanche un’erezione (lui, il mio
sesso, riposava in pace, non ho mai avuto un’erezione, solo notturna,
qualche volta da ragazzo, forse il diabete fa diventare impotenti) il mio
orgasmo era sempre psicologico. Ad un certo punto lui mi ha detto: “Sembri Marlene Dietrich, le stesse gambe lunghe”. Quel paragone con una donna
vissuta tanti anni fa mi ha lasciata perplessa, avrei voluto essere
paragonata ad un’attrice più moderna, Francesca Dellera per esempio.
Dopo quella volta siamo usciti di nuovo ed abbiamo passato il capodanno
insieme ed è stato il primo capodanno bellissimo della mia vita. Abbiamo
stappato lo spumante a casa sua, solo che avevo ancora “lui” e questo
triangolo mi faceva soffrire. Il giorno dopo Salvatore mi ha detto:
“Stasera ho voglia della tua pizza”. Io sono saltata, Salvatore
cosa stai dicendo questo lo fanno gli omosessuali. “Stasera io ho voglia
di te, ho voglia di farti una sega”. Mi ha detto. Io mi sentivo
male, sudavo abbondantemente, come fai a dire che ho il pene. Lui ha
gettato la maschera, ha detto che sapeva che ero un maschio: “Tu sei un maschio, puoi
vestirti da donna, puoi fare quello che vuoi ma io so che sei un maschio
ne ho conosciute tante come te. A Lecce fra le prostitute ce n’era una
come te, che aveva la sorpresa come te”. Andarono in una strada oscura di Lecce e Salvatore prima le ha
accarezzato il senone. Lei teneva le gambe strette strette, ma lui
conosceva un sistema: ha dato un pugno sulle ginocchia, quella ha aperto
le gambe e c’era il pene. Salvatore ha rivoluto indietro le
cinquantamila lire che le aveva dato e le ha detto che era fortunata perché
non la riempiva di botte, poi l’ha buttata fuori dalla macchina.
“Madonna mia se fossi stata io al suo posto tu…” “Tu sei la mia ragazza, sei un’altra cosa”. Quella sera è riuscito a togliermi gli slip, io mi sono coperta gli
occhi con la mano, mi sono sentita estremamente in soggezione, mi sono
vergognata da morire. Salvatore diceva che aveva voglia del mio pene, come
mai? Lui non è un omosessuale, ha avuto rapporti con ragazze che
prendevano la pillola, ragazze vere, una volta ne ha messo in cinta una e
poi l’ha fatta abortire perché non voleva sposarsi, era legatissimo
alla madre. Mi ha accarezzato e me l’ha toccato, poi visto che non
c’era possibilità di resurrezione ha lasciato perdere. Io
immediatamente mi sono rivestita e gli ho chiesto di promettermi di non
toccarmi più il pene, faremo finta che in quel posto non c’è niente. “Quante storie per una pizza!” Ma se è proprio quello che ci divide, tu non mi vuoi baciare per
quello. “No, non è vero quello non ci da nessun fastidio”. Quella sera ci lasciammo con questa promessa: lui non
avrebbe più chiesto di guardare il mio sesso né di toccarmelo.
Continuammo ad uscire. Una sera a febbraio andammo a Martina Franca a
vedere le maschere. Io non sono mai stata a vedere una sfilata. Di
carnevale devo evitare accuratamente di camminare per le vie principali
del mio paese perché i ragazzi mi danno fastidio per cui fui felicissima.
Quella sera lui fu particolarmente gentile con me, mi colmò di tante
piccole attenzioni, ma c’era una sorpresa, un’amara sorpresa. Al
ritorno mi ha detto: “Ho voglia di te”. Anche io ho voglia di te, di notte di giorno, dimentico anche di
mangiare e poi ho le ipoglicemie. Siamo andati a casa sua. Ha bevuto la
solita birra e mi ha chiesto di abbassarmi la gonna. Perché devo
abbassarmi la gonna avevi promesso che non mi avresti più guardato il
pene. “No, non mi interessa il pene ma il culo” Il culo no è la parte più sporca della persona. “Se sei sporca vai a lavarti”. No sono pulita, lui si è tolto gli slip da cui uscivano tantissimi peli
e mi prende da dietro. Io sento un dolore terribile, è la prima volta per
me, non mi piace, è un rapporto ambiguo, da omosessuali e poi è vietato
anche da nostra madre chiesa. “Ma non dire scemenze, ti ho tenuta contenta, ti ho portato a vedere
le maschere, tu dici sempre che quando si ha si deve restituire, ora è il
mio turno di essere tenuto contento. (Mia sorella mi ha fatto leggere poi
un libro che parlava di queste cose e c’era scritto che l’ano stimola
terminazioni nervose che la vagina non ha). Quando abbiamo finito io ho
detto a Salvatore che non mi piace da dietro ma davanti. Lui mi ha detto
che davanti non abbiamo niente. Aspettiamo allora, aspettiamo che mi opero
poi sarà bellissimo. Per qualche giorno non ho più potuto sedermi,
dovevo usare un cuscino. Mia sorella mi chiese se avevo le emorrodi, “Tu
non me la racconti giusta io e te lo sai ci conosciamo bene”. Dopo un
po’ di tempo, una sera, Salvatore si spoglia completamente, era come
vedere il paradiso. Salvatore facciamolo davanti non da dietro. “Questa volta ti tengo contenta”. Ma c’era un’altra sorpresa. Sentire i suoi peli su di me (io avevo
solo lo slip, non lo toglievo mai) era una libidine indescrivibile. Dopo
esserci accalorati Salvatore tira fuori una pomata comprata dalla farmacia
e chiede di nuovo un rapporto anale. Questa volta almeno fu un po’ meno
doloroso. Io:“Rita, quando Salvatore ha cominciato a chiederti dei soldi?” “Devo precisare che era disoccupato, a casa non gli davano soldi, sono
gente povera. Lui qualche volta ha anche rubato, delle sciocchezze, nei
supermercati, scatolette di carne, wurstel, una volta un profumo da donna,
era il mio onomastico. L’ho rimproverato: Non ti permettere più,
riportalo dove l’hai preso. “Non ho il coraggio”. L’ho messo in borsa senza aprirlo, sono andata nello stesso
supermercato e l’ho rimesso a posto. Un giorno voleva comprarmi un paio
di scarpe, io rifiutai: non voglio regali voglio solo un bacio. Lui
appoggiò appena le sue labbra sulle mie come quando ti accarezza il
vento, evidentemente, pensai sono poco attraente. I soldi che gli ho dato,
pochi in verità perché pochi ne avevo, glie li ho dato sempre di mia
spontanea volontà e sono sempre stati soldi spesi bene perché servivano
per la benzina o per riparare la macchina o per andare in pizzeria. I miei
familiari mi hanno sempre rimproverata per questi soldi, specie mia
sorella, ma loro non mi hanno mai portata in giro, non mi hanno mai fatta
divertire. Una sera, mentre ero con Salvatore incontro mia sorella col suo
ragazzo così ho dovuto fare le presentazioni. Tornata a casa mia sorella
ha cominciato a dire che Salvatore ha delle brutte nomine, e perché io
no!, non parliamo di brutte nomine. “Quello ha la fedina penale sporca” Vuol dire che glie la laverò io. “E’ stato nel carcere minorile, ha un passato poco pulito”. A me parli di passato poco pulito?, io non ho voce per parlare, dove lo
trovo un ragazzo che mi porta in pizzeria? “Tu gli fai comodo a quello, chi paga la pizzeria, chi la macchina
quando si rompe, chi la benzina? Se lo trovo una sera glie ne dirò
quattro.” Una sera sono stata male, con la febbre altissima, non potevo uscire né
potevo dirglielo perché non ho il telefono, non sono uscita per alcuni
giorni. Salvatore ha chiesto mie notizie a mio fratello, lui non gli ha
detto che ero malata perché mia madre gli ripete sempre che i fatti
nostri non li dobbiamo dire a nessuno. Salvatore una sera suona il
campanello di casa, io stavo un po’ meglio per cui mi sono potuta alzare
e ho visto che era lui. In quel periodo andavo d’accordo con mamma per
cui le ho chiesto se potevo far salire in casa un amico così evitavo di
parlargli nelle scale. Mamma mi da il suo permesso. Offro a Salvatore un
caffè, lui chiede a mamma il permesso di fumare. Fu così che quando non
c’era papà o mia sorella Salvatore saliva in casa. Mamma non impediva
la cosa. Una sera però mia sorella è rincasata prima del solito, ha
trovato Salvatore è ha fatto una scenata terribile, è diventata una
furia, ha cacciato in malo modo il mio ragazzo, io i suoi ragazzi non li
ho mai cacciati di casa, mi sono sempre fatta i fatti miei. Sono iniziati
da allora una serie di brutti litigi con mia sorella durante i quali lei
spesso mi cacciava di casa. In quel periodo mia sorella si stava lasciando
col ragazzo per cui scontava il suo nervoso su di me non potendolo fare
con mio fratello che era sotto la protezione di mamma. La mia vita era
diventata un inferno, proposi allora a Salvatore di lasciarci: “Tu devi lasciare me? Io devo lasciare te”. Non accettava questa umiliazione. Decidemmo allora di incontrarci vicino
al campo sportivo, lontano da casa, ma mia sorella lo venne a sapere, poi
vicino alla cantina sociale, in periferia, ma mia sorella lo venne di
nuovo a sapere, poi in estrema periferia, vicino ad un seminario. I nostri
incontri cominciarono a diradarsi, ero sempre più depressa, cominciai a
vestirmi di nero, a dimagrire e infine mi allettai. Il medico di famiglia
disse che se continuava così mi avrebbe dovuto ricoverare in neurologia.
Io non volevo perché mi mettevano nel reparto maschile. Piano piano ho
trovato la forza di reagire, di tirare avanti grazie anche agli
psicofarmaci e ho iniziato a frequentare la vostra struttura. Dopo un
lungo periodo di assenza ha rivisto Salvatore, gli ho detto che
frequentavo il vostro servizio e lui mi detto che ci veniva anche il
fratello. (Ho conosciuto il fratello di Salvatore, io sono stata l’unica
ragazza di cui Giacomo non è stato geloso, quando l’ho rivisto al
vostro centro lui mi ha riconosciuta subito e mi ha detto: ”Tu sei Rita,
sei la fidanzata di mio fratello!”. Io sono stata così contenta.) Ho
ripreso i rapporti con Salvatore, nel frattempo mi ero anche operata. Lui
è venuto anche al policlinico a trovarmi ero piena di drenaggi. Mia
sorella mi assisteva e quando l’ha visto ha detto subito: ”Nascondi la
sacca delle urine che sta male farla vedere” poi è uscita dalla stanza
perché con lui non voleva parlare, faceva su e giù nel corridoio e
fumava. Salvatore si sedette vicino a me io volevo tanto abbracciarlo,
stringerlo forte ma non potevo. Gli dissi: anche adesso non mi baci? Lui
mi baciò sulla fronte, avevo le labbra piene di piccole ferite, un
effetto dell’anestesia. Ritornerai a trovarmi? “Io vorrei tornare a trovarti ma vedi tua sorella mi odia eppure non
le ho fatto niente”. Era piuttosto freddo, distante. “Rita, ma tu ne avevi parlato con lui della tua decisione di
operarti?” Si, Salvatore però non era d’accordo, diceva che non era importante
tanto “lui” (il sesso maschile) non ci dava nessun fastidio. Come,
dicevo io, tra me e te c’è proprio quest’intruso, c’è questa
protuberanza che ci divide, come la linea Maginot, come il muro di Berlino
che divide la Germania est da quella ovest. Quando sarò operata tu ti
avvicinerai a me come io mi avvicino a te. “A me non importa niente, poteva darmi fastidio se avevi l’erezione
come me”. Io però sono stata irremovibile, per me era troppo importante. Era
bello quando lui mi chiedeva se mi piaceva il suo pene. Si, dicevo io, ne
ho visti tanti quando ho fatto il militare, ma belli come il tuo mai. Io:“Rita tu hai fatto il militare?” Si, diciotto mesi, in marina a Taranto presso l’ospedale militare, gli
ultimi tre mesi mi trasferirono a Brindisi, lì stavo bene. A Taranto mi
facevano tanti dispetti: lassativi nel cibo, lo sgambetto e io cadevo con
tutti i piatti per terra, gli altri graduati ridevano “così impari a
fare la femmina, dicevano, la natura ti ha fatto maschio e maschio devi
essere”. Poi piano piano hanno imparato ad affezionarsi a me visto che
non sono aggressiva, che non graffio, sono la solita ragazza sottomessa.
In camerata eravamo in diciotto, tutti maschi e ci dovevamo spogliare. Poi
hanno iniziato con il sesso ed è stato terribile. Io: "Ti hanno violentata?” No, non mi hanno violentata, la violenza è quando ti prendono in
due-tre e ti fanno qualcosa, loro invece volevano essere fatti i pompini,
nella loro fantasia non c’ero io, c’era la loro ragazza. Se non lo
facevo erano mazzate. Io:“Allora ti hanno usato violenza” No, violenza no, violenza è quando ti prendono in una stradina …. Io:“Nella strada o in caserma sempre botte sono” Si ma la violenza è quando ti penetrano nella vagina io allora non
avevo la vagina. Essere violentata vuol dire che qualcuno ti prende, ti
bacia con la forza cioè sono loro che fanno con violenza qualcosa a te,
qui ero io che facevo qualcosa a loro. A Brindisi fu diverso, nelle stanze
eravamo in tre, c’era più pulizia, più igiene, non facevo docce con
ammucchiate. Anche là però qualche episodio spiacevole è successo.
Quando non avevano i soldi per le prostitute mi costringevano a toccarli.
(Sempre io a loro, loro a me mai, mai che mi hanno regalato un abbraccio,
una carezza). A casa quando andavo in licenza non dicevo niente, loro
erano contenti che facessi il militare perché speravano che diventassi un
vero uomo e poi anche perché non stavo con loro a dare fastidio e
preoccupazioni. Quando finalmente finì il servizio militare ed ebbi il
congedo, tornai a casa. Mio padre e le mie sorelle non furono contente,
solo mia madre mi accolse bene, mio fratello, faceva le medie e non disse
niente. Ora che ci penso mio fratello è stato l’unico in casa che non
mi ha mai dato fastidio, con cui non ho mai litigato. Io “Rita però all’esperto del tribunale tu hai raccontato che non
hai fatto il militare, che sei stato riformato per problemi di salute”
(vedi documenton.2) C’è un’inesattezza, allora mi vergognavo, come, una ragazza che fa
il militare?” (Questa intervista è stata fatta ad aprile del
duemila. La storia del militare non mi convinceva. L’ho riportata
ugualmente perché non è poi così importante se i fatti sono o non sono
realmente accaduti ma è importante anche come Rita immagina che i fatti
possano accadere. Mi sono ripromessa comunque di verificare, con calma, la
storia chiedendo, a tal proposito, notizie ai genitori. Dopo qualche
settimana è venuto il padre in ufficio per raccontarmi le ultime
“malefatte” di Rita e per chiedermi di metterla in “istituto”,
anche in “manicomio” dovunque purchè lo liberassi di una presenza
scomoda. Gli ho chiesto se Rita avesse espletato il servizio di leva e il
padre ha confermato che era stata chiamata in marina ma che a causa dei
suoi problemi di salute “non ha fatto neanche un giorno di militare”). Io:“Torniamo a Salvatore, dopo l’operazione che
successe?” Dopo l’operazione io tornai a casa, ero ancora in
convalescenza quando una sera sentii suonare il campanello. Capii subito
che era lui, uscii sul pianerottolo (il citofono non funziona) e chiesi,
chi è?, nessuno rispose, presi le chiavi, ancora mi chiudevano da dietro
e poi non mi aprivano più la porta e scesi giù. Salvatore era in
macchina, mi chiese di uscire, gli risposi che non potevo, avevo ancora il
palloncino nella vagina, per farla dilatare, la pancia gonfia, poi però
uscii. Gli dissi, Salvatore lo sai che adesso non c’è più nulla che ci
divide? Mi aspettavo un po’ di entusiasmo invece lui fu freddo: “per forza ti hanno operata.” Non mi vuoi vedere? Mi alzo la gonna, lui guarda la
pancerina e dice: “Si, si ho capito adesso non c’è più niente”.
Non mi chiese di avere rapporti, né allora (non
avrei comunque potuto perché i medici si erano tanto raccomandato:
”niente rapporti prima che passino almeno tre mesi”) né mai. Abbiamo
fatto solo sesso orale, io bevevo il suo sperma che aveva un sapore
diverso da quello degli altri, che sapeva di latte, zucchero, per me, che
non potevo averlo nel mio utero, era un modo per averlo dentro di me. Dopo
quattro, cinque mesi mi portò a Lecce, io non ci volevo andare, gli
dissi: andiamo a casa tua, “No ci sono i miei genitori”. Andiamo in campagna, “No ci sono i miei familiari”. Andiamo vicino al cimitero, dove sono finiti tanti
amori, lì nessuno ci disturberà, “No”. Andiamo al mare. Mi tenne contenta andammo al mare
lui tenne la mia testa fra le sue braccia, io sentivo il suo respiro ed
ero contenta, mi sentivo come una principessa delle favole e glie lo
dissi. “Vedi come ti tengo contenta io? Anche tu mi devi
tenere contento, devi lavorare”. E dove posso andare a lavorare? Devo andare a lavare
le scale?, devo fare le pulizie a casa di qualcuno?, conosci qualcuno che
sta cercando delle collaboratrici domestiche? Pensavo che si trattasse di
un lavoro vero, invece mi porta a Lecce, in una strada buia, di periferia,
mi fa vedere una ragazza molto bella, truccata, con una pelliccia e
gioielli e mi fa: “la vedi quella, quella è un’albanese, prima era
una poveraccia peggio di te, ora ha pellicce e gioielli”. Si avvicina e le chiede il prezzo. Poi si avvicina ad
un’altra e ad un’altra ancora, le apostrofava come se le frequentasse
da tanto tempo, a tutte chiedeva il prezzo e poi andava via, qualcuna di
loro disse: “e quella vicino a te non è una donna?”. “No,
è solo un’amica” Io soffrivo da morire e quando non ne potetti più
dissi, senti quelle la fica non ce l’hanno mica meccanica ma di carne ed
ossa come me. Con loro devi consumare anche i soldi del preservativo, io
ti faccio risparmiare anche quelli. “Con te non mi sento pronto”. Io pensavo: forse se lo accontento dopo sarà più
buono con me e mossa da compassione le diedi centomila lire che avevo con
me, tieni, gli dissi, scegli quella che più ti piace, l’albanese, la
venezuelana, quella che vuoi. “e tu che farai?” Lasciami in una chiesa. “Ma che chiesa e chiesa, Ti lascio qui, aspettami
qui”. Io mi sentivo male, lui non tornava, passò la
polizia e mi chiese i documenti. Non ce l’ho i documenti, dissi, perché
non porto la borsetta, me la possono rubare. Un poliziotto disse
che non sembravo una prostituta perché avevo la faccia pulita. “Dacci i
tuoi connotati, come ti chiami, dove sei nata ecc.” Mi chiamo Rita
Mancini, sono di Napoli e diedi indirizzo, numero telefonico, tutto
inventato. Gli chiedo: “Rita Mancini è un nome che ti sei
inventata in questo momento?” No, no è il nome vero che diedi allora, è il nome
di Santa Rita da Cascia, Santa Rita da Cascia al secolo era Rita Mancini e
io pensavo, Santa Rita aiutami tu. Il poliziotto mi fa: “E benedetta
Rita vieni da Napoli per fare la prostituta qua”. Io non sono una
prostituta, prendo la pensione, sto aspettando mio fratello. “Vedi che
se fra un’ora ti ritroviamo qua ti portiamo in caserma” e se ne
andarono. Dopo un poco si ferma una mercedes enorme e scende una ragazza
bellissima, con dei capelli meravigliosi, con una pelliccia costosissima,
tutta truccata e ingioiellata e con una voce di un maschio, una voce
baritonale più forte di quella di Maria de Filippi, mi dice: “Hei bella questa è zona mia se non sparisci ti
spacco in due!”. Spiego che non so che zona è questa, che non sono di
Lecce e che sto solo aspettando un amico. “Smamma che tu mi freghi tanti soldi”. Sbattè lo sportello e se ne andò. Io:E Salvatore dove era?” A consumare con una prostituta, con una prostituta sì,
che è andata con tanti uomini e che non sai mai se ha una malattia, con
me, che non sono mai andata con nessuno, no. Quando Salvatore tornò io
ero in lacrime, gli raccontai tutto. Lui bestemmiò, bestemmia piuttosto
facilmente: Io:“Perché non hai dato i documenti alla
polizia?” Io i documenti non ce li ho perché la mia tessera
d’identità è ancora intestata ad un maschio. Lui mi disse: “Qui dobbiamo venire tutte le sere, tu ti devi
mostrare carina, gentile, ma non fessa, ti devi anche far rispettare.
Quando si avvicina un cliente tu devi chiedere trentamila lire per bocca, oppure per bocca e fica”. No, io voglio fare l’amore solo con te e poi ho
paura, da quando mi sono operata non l’ho mai fatto. “La rimessa poi si allarga e non senti dolore”. Io voglio stare con te. “Starai con me, lo faremo davanti, vedrai come è
bello”. Salvatore mi hanno detto che è un piacere intenso
che parte dal basso. “Si è bellissimo ma se lo vuoi provare prima ti
devi prostituire”. Io dicevo di no, tutto, ma prostituta mai, mi
tornavano alla mente le parole di mio padre, noi siamo una famiglia molto
religiosa. Salvatore in macchina aveva un birillo di legno che il fratello
aveva rubato al “Centro Diurno” e con quel birillo mi massacrò di
botte. Io ero piena di lividi e insanguinata. Quando tornai a casa dissi
che avevo avuto un attacco di ipoglicemia e che ero caduta. I miei mi
rimproverarono: ”Perché esci?, resta a casa, c’è la televisione”.
Quando tornò mia sorella e mi vide subito prese l’acqua ossigenata , le
bende, mi disinfettò e fasciò.
“A te non è stato un attacco di ipoglicemia, non ne hai i segni, a te
è stato Salvatore che non ha avuto i soldi e ti ha picchiata”. Da
allora ogni volta che mi pagavo la pensione ne davo quasi metà a lui, più
pagavo la benzina e tutto il resto. Dopo circa un mese, le ferite erano
quasi guarite, dissi a Salvatore: facciamo l’amore e io ti pago. Come si
paga un gigolò. Siamo andati a casa sua, ci siamo spogliati, questa volta
non c’era più “lui” fra di noi. Salvatore si è messo su di me,
giunto alle piccole labbra mi ha fatto schiattare di voglia ma non mi ha
penetrata, non voleva. Fu come un matrimonio non consumato. La centomila
lire l’avevo data per niente. Dopo di allora ci rivedemmo solo
un’altra volta: questa è l’ultima volta che ci vediamo, gli dissi. “No dai, che dici, io mi sono abituato a te”. Tu ti sei abituato a me? Io mi sono abituata a te che
sei bello come il sole, a me nessuno mi vuole, neanche gli schizofrenici
che frequento al “Centro”, ma sono decisa come non lo sono stata mai
(eccetto che per l’operazione). Nel lasciarlo ho sofferto molto ma mi
sono vendicata anche a nome di tutte le ragazze che lui ha lasciato, e che
cosa non sono mica degli oggetti gli altri! E poi dovevo scegliere tra mia
sorella e lui. Mia sorella un giorno mi disse: “Io a te non ho mai detto
che non devi avere un ragazzo, puoi scegliere chi vuoi, anche un mio ex
ragazzo, non mi dà fastidio, ma non Salvatore. Salvatore è un
delinquente, uno che non ha voglia di lavorare. Quello può fare solo un
mestiere: il magnaccio”. Io ebbi paura, mi venne la tremarella, mia
sorella non sapeva quanto c’era andata vicino. Io dovetti scegliere come
quando una madre ha suo figlio in grembo, è in pericolo di vita e deve
scegliere tra la sua vita e quella del bambino. Io dovevo scegliere tra
mia sorella e Salvatore. Io:“Perché dovevi scegliere? Perché quei due quando si incontravano erano come
l’arcangelo e lucifero, non so chi dei due è lucifero ma quando si
incontravano erano parolacce da tutti e due, minacce da tutti e due,
menavano tutti e due. Io:“Perché si sono menati?” No menavano me, mia sorella una volta mi ha tirato
una bambola di porcellana che mi ha spaccato due denti e mi ha ferita sul
viso. Salvatore era intelligente capì che c’era lo zampino di mia
sorella: “E’ stata lei a farti cambiare no?” No, gli ho detto, io non sono cambiata, l’unico
cambiamento che ho fatto è stata l’operazione, ma tu non ti sei mai
infiammato di me, non mi hai mai coccolata. Dimenticati di me e io di te
conserverò il ricordo di una storia importante. Gli ho chiesto un ultimo
abbraccio, un bacio: “Scordatelo” mi disse e me ne andai. Tornai a
casa a pezzi. Lui ha cercato di riabbordarmi, è venuto perfino qui al
“Centro” a cercarmi ma io non ho ceduto. Per non essere rintracciata ho cambiato chiesa e così sono
uscita dalla sua vita. 2-7 RITA E GLI “ALTRI SALVATORE” Salvatore non è stato l’unico ragazzo di Rita
anche se per lei è stata la storia più importante, quella che, a suo
dire, le ha dato di più. Altre storie hanno preceduto e seguito quella di
Salvatore. Storie “squallide” (come le ha definite lei)
di ordinario sfruttamento e sopraffazione: “A parte quella di
Salvatore le altre sono solo squallide storie di persone perverse che
hanno voluto sfogare con me la loro perversione. Mai qualcuno che ha
voluto stare con me”. Nonostante ciò Rita non si arrende. Determinata
ha sempre cercato nell’altro (di sesso maschile) non solo il “principe
azzurro” col quale vivere “felice e contenta” ma qualcuno che
accettandola confermasse la sua identità, il suo essere nel mondo. Parte
svantaggiata e lo sa. Non solo per la presenza dell’”intruso” (il
suo pene che ad ottobre del 1997 eliminerà definitivamente) ma anche per
un corpo che, nonostante le cure ormonali, non risponde ai canoni classici
della femminilità: Sono troppo alta, legnosa, non vedi? Ho solo la terza
misura di reggiseno, cos’è la terza misura a tutta me? Niente. Ho
chiesto di fare l’intervento col silicone, mi sarei accontentata anche
degli scarti degli altri interventi, ho detto ai medici che ero disposta a
dare un rene in cambio, ma non c’è stato niente da fare. Non ho bei
fianchi, solo le gambe, anche se troppo lunghe, almeno sono diritte. Io
vorrei essere piccola come te. Tu si che sei molto femminile”. Cerca
Rita di sedurre cercando di sfruttare il più possibile ciò che ha ed
ecco minigonne mozzafiato,(per mostrare le gambe) abiti semi trasparenti,
poco scollati e attillati che mettono in risalto la sua magrezza: “Io
sono una donna nata dopo, dovrei avere qualcosa in più da mostrare”.
Non usa un trucco pesante. Assottiglia solo le arcate sopracciliari: non
vuole essere scambiata per una prostituta. Assume un atteggiamento umile,
sottomesso, non dice mai parolacce né alza mai la voce. Se contrariata
piange. Fiumi di lacrime che non servono solo a manifestare un dispiacere
ma anche a far affogare i tentativi che l’altro fa per imporre un suo
punto di vista. Se contrariata Rita piange e continua imperterrita a
proporre la sua posizione, il suo punto di vista senza cedere di un
millimetro. Tutto questo le sembra “molto femminile”. (Questo
atteggiamento cambia radicalmente quando Rita è in famiglia. Con i
genitori, le sorelle, Rita alza la voce e le mani, dice parolacce e
diventa molto volgare). Rita si rapporta agli altri ragazzi mettendo in
atto un sottile gioco di seduzione (vestendosi in un certo modo,
frequentando certe strade e quartieri, mostrandosi gentile, disponibile e
sottomessa. Dai suoi racconti, veri o inventati che siano non emerge mai
che è lei a prendere l’iniziativa, sono sempre loro, i ragazzi, a farlo
perché anche questo è “molto femminile”) per poi scaricarli: “In
questo sono come mia sorella che lascia sempre i ragazzi per prima”. Riporterò ora un’intervista semistruturata fatta
su questo tema: “Rita quando hai avuto la tua prima storia con un
ragazzo?” “Ero adolescente, si chiamava Carlo, aveva dodici
anni, un anno più piccolo di me, andavamo a scuola insieme. Non è stata
subito una storia di sesso. Ho iniziato a frequentare Carlo andando anche
a casa sua, abbiamo fatto i compiti insieme. Io non ero brava in
matematica, lui si; io andavo bene in italiano, storia … e lui no perciò
ci aiutavamo a vicenda. E’ successo che, quando la madre non c’era, e
spesso non c’era perché i genitori di questo ragazzo gestivano un bar,
abbiamo iniziato ad abbracciarci, a darci qualche bacio. E’ stato bello
fino a quando non abbiamo iniziato a fare sesso. Ho dovuto fare i conti
con il mio corpo che rifiutavo. Mi sentivo molto imbarazzata. “Lo so
come sei fatta” mi diceva. Ho interrotto il rapporto perché andava bene
fino a quando c’erano gli abbracci i baci, poi mi imbarazzavo, non mi
sentivo appagata. La coppia Dio l’ha fatta uomo e donna. Questa coppia,
la mia e di Carlo, era per me la massima trasgressione. Non era
trasgressione mettere calze da donna, pantaloni femminili, ma che la
coppia fosse di due maschi si. Dio li creò maschio e femmina. Non facemmo
più i compiti insieme. Lui si arrabbiò: “Come faccio con i compiti di
italiano, di epica … e poi per me va bene”. “Per me no perché io
sono femmina solo nella mente. Ci stiamo trascinando nella polvere tutti e
due e questa polvere poi la mangeremo. Dopo tanti anni ho rivisto Carlo,
non l’avevo riconosciuto, lui riconobbe me, mi disse che sta a Milano,
che si è sposato, però non porta la vera. Io:“Pensi che non si sia sposato?” “No, no gli uomini non portano sempre la fede. Mi
chiese come stavo, se avevo trovato qualcuno. Gli risposi di no ma che in
compenso mi ero operata”. Io:“E dopo Carlo?” Sono state storie
consumate in strade di campagna, senza importanza. In confronto alla
storia con Salvatore le altre sfigurano e finisco col dimenticarle. Io
credo nel grande amore. Per i miei genitori, che sono fascisti, una mia
relazione con un maschio è vista come un rapporto tra omosessuali. Per
loro io sono sempre un maschio. Il fascismo condanna ciò perché è stata
un’epoca di virilità. Tante volte mamma e papà dicono che se era per
loro io per loro al confino dovevo andare, anche ora che sono operata”. Io:“E la storia con Mario?” Con Mario è stato un rapporto platonico. Di lui mi
ricordo solo un bacio sulla fronte. A lui piacevano i ragazzi. Mario,
quando l’ho conosciuto aveva poco più di vent’anni, io ero qualche
anno più grande (mi sono sempre piaciuti i ragazzi più piccoli di me,
quelli più grandi non mi interessano). L’ho conosciuto tramite il
gruppo della chiesa. E’ stato proprio lui ad inserirmi nel gruppo
parrocchiale, io frequentavo la chiesa stando sempre in disparte. Mi
venne vicino, era un bel ragazzo, capelli ricci, occhi chiari, vestiva
sempre elegantemente, era profumato, aveva qualche gioiellino. Disse:
“Donna, nessuno ti ha condannata e nemmeno io ti condanno”. Io ero
stupita, queste parole le ha detto Cristo. “Scusa cosa ho fatto per
essere condannata?” “Non accetti il sesso con cui sei nata”. “Guarda
che la frase che hai citato va bene per quella donna del vangelo e per
quello che lei aveva fatto, io non ho rubato il marito o il fidanzato a
nessuno”. Si presentò, disse che mi conosceva e mi invitò nel gruppo.
Prima chiese il permesso al parroco che fu d’accordo a patto che non
facessi stranezze. (Cioè voleva dire a patto che non usassi gonne corte,
trucco pesante, delle scarpe non mi disse niente, disse solo di non fare
molto rumore con i tacchi). Mario mi portò a qualche festa, a conoscere i
suoi e cominciarono le chiacchiere. Le malelingue sono dappertutto anche
in chiesa. Poi invitai i miei a conoscere i familiari di Mario (il padre
è un analista, la madre un’infermiera professionale, i due sono
separati) e fu uno sbaglio”. Io:“I genitori di Mario ti conoscevano?” “Si, il mio paese non è molto grande”. Io. “Ti accettavano?” “Si, anche perché Mario diceva che eravamo amici
ed era la verità”. Io:“Perché fu uno sbaglio far conoscere i tuoi
genitori ai familiari di Mario?” “Perché mio padre non sa parlare con le persone.
Fece vedere chiaramente che non accettava questa amicizia. Poi il vedermi
ai fornelli, a servire, a lavare i piatti gli dava fastidio perché erano
faccende da donne. (Eravamo stati invitati a pranzo in campagna). Mia
madre invece non fa problemi, parla poco, dice solo si e no. Mio padre ha
la lingua lunga, più lunga della mia. Successe poi che mi dovevo
cresimare. Mario voleva fare lui da padrino, io preferivo una suora o una
donna anziana. Lui insistette e mi fece da padrino. Contattò una
pasticceria, mi volle regalare un anello d’oro grosso, vistoso, non era
per me. Sembrava un anello che portava Cesare Borgia, lo regalai a mia
sorella, quella sposata che sta a Monaco. Facemmo la festa a casa mia. Lui
però non ce la fece a pagare queste spese e cominciò a chiedermi soldi.
Poi lui cercava casa, col padre e la sua nuova compagna non andava
d’accordo e gli servivano soldi. Io non sono pentita di averglieli dati
tanto se non li davo a lui li avrei dato a mio padre o a qualche altro.
Mario era molto religioso e bigotto. Diceva che satana si presenta con la
minigonna, gli abiti scollati, i facili costumi, i tacchi alti. Io dicevo
che satana si presenta solo con il male. Mi faceva ridere con il suo
fanatismo religioso. Per lui il sesso era il demonio. Io dicevo che se il
sesso è vissuto con quel romanticismo che nella nostra epoca è andato a
farsi friggere, non è peccato. Se conosci il ragazzo, se gli vuoi bene,
diventa una comunione, un anello invisibile che unisce. “no, diceva lui,
tu non parli con la tua bocca, ma con quella del demonio”. Mi faceva
impazzire, gli volevo bene ma con quei discorsi mi creava imbarazzo,
metteva troppo il vangelo nella vita quotidiana e guai a noi se mettiamo
troppo il vangelo nella vita quotidiana, ci ridurremmo ad essere degli
straccioni, delle nullità. Staremmo più vicino a Cristo ma ciò ci
denuderebbe completamente. Ci farebbe rinunciare anche ad un abito
decente, ad u paio di scarpe decenti, ci ridurrebbe come San Giovanni
Battista che mangiava locuste nel deserto. La parola di Cristo bisogna
ascoltarla ma non alla lettera. Mario non aveva un lavoro stabile. Aveva
studiato ma non aveva né lauree e forse neanche un diploma. Diceva che
aveva fatto teologia e filosofia e che al terzo anno di seminario se ne
era uscito perché non sopportava la vita chiusa. La richiesta di soldi
divenne sempre più pressante. In tutto gli ho dato quattordici milioni
praticamente tutti gli arretrati della mia pensione, senza che mi sono
divertita, senza che abbiamo mai fatto nulla a livello sessuale. Anche se
in campagna abbiamo dormito insieme non è mai successo niente. Lui mi
giudicava, non voleva che dipingessi le unghie, che portassi gonne corte e
tacchi alti perché attiravano i ragazzi. Diceva: “Sembri una Gaysha”.
Aveva ragione ma era un mio modo per dire al mondo: Sono una donna. Ora
non mi trucco più cosi perché non ho bisogno di dimostrarlo. A casa
cominciarono a protestare, c’era sempre più aria di burrasca e siccome
non amo le guerre di secessione preferii interrompere il rapporto. Anche
perché lui si faceva vedere in giro con tante ragazze belle e alla fine
era solo un gay che mascherava il suo stato di omosessualità. Non era
come me che ho sempre scoperto subito le carte mostrandomi per quello che
ero, una transessuale. Lui nascondeva perché temeva di perdere il
rispetto degli altri, faceva catechismo ai bambini, era intelligente,
furbo. Io del mondo esterno me ne sono infischiata, l’importante era
mostrare la mia femminilità interiore. Lui frequentava bellissime ragazze
per conoscere i loro fidanzati.. Tutto sommato mi ha fatto partecipare alle feste, mi ha portato in giro quindi
i soldi che gli ho dato è stato come un rimborso spese. Quando mi sono
lasciata con Mario, nessuno del gruppo si è fatto più vedere, sono
tornata più sola di prima. Anche il prete a stento mi salutava per
strada. Io ho cambiato chiesa. Dopo Mario
ci sono stati ragazzi con cui mi sono incontrata poche volte. Brevi storie
in cui ti usavano e basta. Mi ricordo un rapporto con un ragazzo
minorenne, sedici-diciassette anni. Io allora mi avvicinavo alla trentina,
avevo fatto il trattamento ormonale ma non l’intervento. Con questo
ragazzo mi è piaciuto moltissimo, forse perché vedevo in lui la mia
giovinezza che era andata via. Ci siamo visti in una rimessa dove metteva
lo scouter e dove c’era uno specchio, degli attrezzi per i lavori
agricoli, un po’ di tutto. Ci siamo distesi sul letto, io su di lui. Lui
mi aveva fatto togliere i vestiti. “Fammi vedere cosa c’è sotto”.
Restai con reggiseno e mutandine bianche di pizzo. Disse che ero meglio
spogliata che vestita però non si lasciava baciare. Mi dovevo fermare
solo nella zona dei pantaloni. Mi faceva capire che il gioco era tutto
delineato dall’ombelico in giù. Il fatto che non si lasciava baciare mi
pesava per cui poi ho interrotto. In questo sono come mia sorella che
lascia sempre i ragazzi per prima. Io mi rifugiavo nel sacro per fuggire
al sesso. Quando andavo a messa lui protestava: “Ma quanto dura questa
messa?, io ho bisogno di te”. “Tu hai bisogno di me solo per usarmi, per fare
delle schifezze”. Quando si rivestiva io andavo alle sue spalle per
abbracciarlo ma lui si arrabbiava. Sto meglio adesso che non ho nessuno
cosi nessuno mi spezza la dentiera, non ho lividi. Io non ho chiesto
niente a nessuno solo amore e sentimento. Cosa ho avuto in cambio? Solo
fretta. La ragazza che pretende la discoteca, la catenina, viene
accontentata a me che non pretendo neanche un bicchiere d’acqua non
danno neanche l’essenziale. Ultimamente sono andata al cimitero a
portare le palme ai defunti. Sono andata a piedi: Mia madre mi aveva dato
i soldi per l’autobus ma ho preferito usarli diversamente. Ho comprato i
fiori che voleva mamma, la verdura che voleva mamma e ho fatto il mio
dovere. Sono tornata a piedi editando di passare da una strada centrale
perché abitano dei parenti che è meglio non incontrare ed ho fatto una
strada più periferica ma molto trafficata dalle macchine. Ho incontrato
Giovanni. (Giovanni è un ragazzo di un paese limitrofo che Rita ha
conosciuto una sera che stava aspettando il pulman. Lui si fermò e le
offri un passaggio. Andarono in una strada di campagna e fecero del sesso.
Lui non fu violento ma “gentile ed educato” poi però non si videro più).
Giovanni voleva darmi un passaggio. Mi disse: “Ho voglia di te”. “No, torno dal cimitero e non voglio perdere quell’aria mistica”.
Ero piena di Cristo perché nel cimitero si è a contatto con la morte e
attraverso la morte si raggiunge la resurrezione e quindi Cristo. Lui mi
detto: “Sali che fai da sola in questa strada periferica e
trafficata?” Aveva aperto lo sportello e spostato il borsello dal
sedile, rimase male perché non salii. Mi invitò di nuovo: “Non ti
porto da nessuna parte, ti porto da tua zia”. Non andai, quando dico no
è no. Ero piena di Cristo. L’ultima storia l’ho avuta con Federico. Una sera Federico mi fa : “Vuoi uscire con me?” “No, gli dissi, non sto uscendo con nessuno e da quando non esco con
nessuno mi trovo bene cosi”. Lui mi prese per mano e mi tirò in
macchina: “Sali o ti meno”. “Voglio scendere, voglio andare a messa, sta suonando a tocco”. Ma
Federico non volle sentire ragioni mise in moto e partì anche se io gli
dicevo che volevo scendere. Fermò in una strada di campagna: “Voglio un pompino”. “E perché proprio da me? Esci con una
ragazza una della tua età, io ho quarant’anni (era una bugia, ne ho
trentasette), sono malata.” “Sono venuto fin qua …”. Mi ha costretta a fare sesso orale ed ad
ingoiare lo sperma perché è maniaco della pulizia. Io dicevo: “Ma questo è sesso, sesso sporco, non è amore”: “Questo mi piace di più di quando lo faccio con le ragazze”. “Ma io voglio amore, voglio le carezze, i baci. Non si è fatto
baciare neanche sull’ombelico dove i peli si attorcigliano. “Non mi
piace baciare” diceva. Salvatore si lasciava almeno baciare, stringere.
A Federico invece interessava solo sentire il pene sbattere nelle gengive,
nella gola. Le ultime volte è stato terribile perché voleva un rapporto
anale, ma a me non è mai piaciuto perché è un rapporto che si ha tra
omosessuali. Poi non lo vedo dietro, non mi accorgo se mi vuole bene o no.
Io glielo dicevo e lui rispondeva: “Ma quante cazzate dici”. Io poi mi sono indebolita, forse gli ormoni mi hanno indebolita e non ho
più opposto resistenza. Ho sentito un dolore terribile. Lui non mi
accarezzava neanche i capelli. Io dicevo: “basta” e piangevo. Lui mi
picchiava (pugni, schiaffi) e continuava ad avere rapporto. Alla fine gli
ho detto chiaro e tondo che con lui non uscivo più. “Io non sono cattivo, tu mi fai diventare cattivo. Tutto per una pizza
nel culo”. “Siamo usciti tre volte prima di avere il rapporto anale (tre volte in
cui abbiamo fatto sesso orale): La volta successiva mi sono opposta
decisamente: Lui mi ha mollato un pugno gonfiandomi il naso: Io sono
scappata e mi sono rifugiata in una chiesa, lì non ha avuto il coraggio
di cercarmi. Senza amore mi sento come una prostituta che non si fa
pagare. Prima del concilio di Trento si diceva che noi donne non abbiamo
un’anima, così per questi ragazzi siamo come corpi senz’anima”. 2-8 RITA E LA “VOCAZIONE” RELIGIOSA”. “L’identità, dicono P.L. Berger e T. Luckman, è un elemento chiave
della realtà soggettiva, e come tutte le realtà soggettive, è in
rapporto dialettico con la società”. (1) Rita, abbiamo visto , avverte
problemi d’identità di genere fin da quando andava all’asilo. Tutta
la sua storia è una ricerca incessante di una identità che la definisca
e le assegni un posto. Una
identità che, alla domanda: “Chi sono io?”, dia una risposta
accettabile e non angosciante. Una risposta accettabile sia da Rita che
dalla società. Fino a prima della conversione andro-ginoide, alla domanda
“chi sono io?” la società (la famiglia, la scuola, l’altro
generalizzato) rispondeva: “tu sei un maschio e se non riconosci di
essere un maschio sei un depravato”. Rita si diceva: “tu sei una
femmina che, per un errore della natura, si ritrova un sesso maschile, se
correggi questo errore tutto tornerà normale, naturale”. Rita affronta
dunque l’operazione con grande determinatezza, ne è profondamente
convinta, non l’hanno dissuasa il parere contrario dei genitori, né
quello di Salvatore (“perché lo vuoi fare “lui” non ci dà nessun
fastidio”), né quello di altri. L’operazione, col suo tagliare,
cucire e ricucire le restituirà finalmente la sua identità di donna..
Sarà donna a tutti gli effetti, anatomicamente, giuridicamente,
anagraficamente: potrà esibire con orgoglio la sua tessera d’identità,
andare in qualsiasi ambulatorio e aspettare insieme a tutti gli altri
senza il terrore di essere chiamata con un nome maschile che non è il
suo, può persino sperare di costruire un futuro con Salvatore. Accetta
Rita di sottoporsi, periodicamente, con assiduità, ad una psicoterapia
che farà a Bari da un noto professore: “la legge lo prevedeva, la legge
prevedeva che noi trans prima di essere autorizzate ad operarci dobbiamo
fare diversi anni di psicoterapia e io li ho fatti. Lo psicoterapeuta me
lo aveva detto, mi aveva detto: “Rita non farti illusioni, dopo
l’operazione non cambierà niente” ma io non ci credevo, pensavo che
me lo dicesse per dissuadermi e invece aveva ragione, oh se aveva
ragione!”. Dopo l’operazione infatti le cose non cambiano: a casa
continuano a chiamarla col suo nome maschile, al Centro di salute mentale
continuano a chiamarla col nome femminile, come si è fatto fin dal primo
giorno in cui si è presentata ma non la si accetta come donna a tutti gli
effetti (come vedremo meglio anche in seguito), nel paese e per il paese
lei resta sempre una trans, i ragazzi continuano a canzonarla: “Arriva
Rita-Rito” e a fargli scherzi stupidi e crudeli e infine (ma non per
importanza) Salvatore la rifiuta più di prima. In Salvatore Rita ha
riposto tutte le sue speranze, Salvatore è l’unico che può confermarle
la sua nuova identità, darne consistenza e tangibilità, Salvatore col
suo volerle un po’ di bene rappresenta il padre, la madre, la società
tutta, se lui l’accetta allora poi l’accetteranno tutti gli altri. Ma
Salvatore non l’accetta, la cerca, esce con lei, non riesce però ad
avere, con Rita, un rapporto sessuale da uomo a donna, da maschio a
femmina, neanche quando lei lo paga. Cerca allora di sfruttarla, di farle
fare la prostituta. Rita comprende bene la situazione, un giorno mi dice:
“Sai Teresa ad attrarre i maschi (Salvatore) era la mia ambiguità, il
mistero, l’essere maschio e femmina, svelato il mistero, tolta
l’ambiguità, non interesso più”: Paradossalmente Rita adesso è più
trans di prima. Se la transessualità prima era tutta rappresentata in un
pezzo di carne, in un muscolo, in un qualcosa di concreto, l’intruso
(come lo definisce a volte Rita) che si può rimuovere, tagliare, buttare
via, ora però che l’operazione è fatta, il concreto è eliminato, la
sua transessualità non è stata eliminata, gettata, distrutta, permea
invece la sua essenza, il suo essere nel mondo è perciò più profonda.
Come liberarsene? Rita cerca un posto fisico e simbolico che le
restituisca o meglio che le dia quell’identità chiara, certa non
ambigua che da sempre cerca perché indispensabile per vivere.
Un’identità che sia accettata e accettabile sia da lei che dalla società.
Tale posto fisico e simbolico viene ravvisato nella comunità religiosa.
Rita comincia a chiedere di andare in convento, di farsi monaca. Lei vuole
così mettere in atto quello che Berger e Luckman chiamano processo di
ristrutturazione. “La ristrutturazione richiede processi di
risocializzazione, i quali somigliano alla socializzazione primaria, perché
devono ridistribuire radicalmente i valori di realtà e quindi riprodurre
in misura notevole l’identificazione fortemente affettiva che univa
l’individuo con l’ambiente familiare. Questi processi si differenziano
dalla socializzazione primaria in quanto non partono da zero, e quindi
devono risolvere il problema di demolire e disintegrare la precedente
struttura convenzionale della realtà soggettiva”. (11) Rita questo
problema, cioè demolire e disintegrare la precedente struttura
convenzionale della realtà soggettiva, non ce l’ha, lei, con tutta la
sua realtà esistenziale, è già a pezzi. Berger e Luckman continuano
affermando che il “prototipo storico di ristrutturazione è la
conversione religiosa (…) la comunità religiosa (…) fornisce
l’indispensabile struttura di plausibilità per la nuova realtà. (…)
Questo richiede la segregazione dell’individuo dagli “abitanti” di
altri mondi, soprattutto dei “coabitanti” del mondo che ha appena
lasciato. L’ideale sarebbe una segregazione fisica; se questa non è
possibile per qualsiasi ragione, la segregazione viene postulata per
definizione, vale a dire per mezzo di una definizione degli altri che li
annichilisce. (…) In ambedue i casi egli non è più “incatenato a dei
miscredenti” e così è protetto dalla loro influenza potenzialmente
distruttrice della realtà” (12). Siamo
alla fine del 1998 inizio del 1999, la storia con Salvatore è ormai
finita, Rita inizia a vestirsi di nuovo di scuro, anzi adesso usa
esclusivamente tutti abiti neri :”Sono in lutto” dice. Lei è sempre
stata religiosa, credente, viene da una famiglia religiosa, un fratello
del padre è prete, una sorella del nonno suora (è morta alcuni anni fa
all’età di 97 anni). Va tutti i giorni in chiesa ad ascoltare la
“Santa Messa”. Usa la chiesa come una seconda casa, un posto fisico
dove, se non è accolta nel senso più profondo del termine, almeno non ne
è cacciata, dove non viene derisa, insultata, dove può far finta che il
messaggio d’amore, di accettazione, di accoglimento del vangelo
cristiano è rivolto pure a lei, un posto dove rifugiarsi quando è in
difficoltà. (lo abbiamo visto prima quando a Lecce chiede a Salvatore di
lasciarla in chiesa e Salvatore si opporrà perché aveva altri scopi,
altri obiettivi; lo vedremo poi in un altro episodio in cui Rita racconta
una breve relazione che avrà con un altro ragazzo). Rita non è un
elemento attivo all’interno della comunità parrocchiana, non fa parte
di nessuna associazione né ha rapporti amicali con qualcuno. Fino ad ora
non solo non ha mai pensato ad entrare in un ordine religioso ma si è
anche opposta energicamente quando i genitori volevano imporle di farlo.
Più volte infatti si è lamentata, con noi del servizio del fatto che il
padre voleva farla entrare in convento:” In convento ti tagliano i
capelli e i capelli sono molto femminili, non ci si può truccare, si
devono avere abiti lunghi, a volte fino ai piedi e poi hanno tante di
quelle regole stupide…Io non sopporto le suore, ti ricordi quando venni
qui, all’inizio, ti chiesi se c’erano delle suore. Se ci fossero state
le suore non ci sarei mai venuta”. (Il nostro servizio è allocato in un
ex istituto per bambini prima gestito da suore). Ora invece chiede di
essere aiutata ad entrare nell’ordine delle Benedettine, se non è
possibile in qualsiasi altro ordine religioso. Il suo sogno, dice, è
vestirsi da monaca. Il suo ideale è Santa Rita da Cascia: “Santa Rita
da Cascia ha avuto tutto, è stata una donna eccezionale, prima si è
sposata, ha avuto dei figli e poi si è fatta suora. Io quando ho rifatto
il documento d’identità, dopo l’operazione, volevo chiamarmi Rita ma
ci volevano troppi soldi perché dovevo cambiarmi completamente il
nome”. Rita contatta
l’ordine delle Benedettine ma non viene accettata, probabilmente la sua
“fama” l’ha preceduta, mi chiede perciò di contattarlo io: “Tu
sei assistente sociale a te danno ascolto, se ci metti una buona parola
tu…Per diversi mesi Rita chiede a tutti di essere aiutata ad entrare in
una comunità religiosa senza raggiungere lo scopo. Riporterò ora la trascrizione di due colloqui avuti a fine aprile e
inizio di maggio del duemila seguendo il protocollo dell’intervista
semistrutturata. Chiaramente quanto ho scritto fin’ora è il risultato
di numerose conversazioni avute nel corso di questi ultimi anni ad
iniziare dal 1997: “Rita, quando hai avvertito in te una vocazione religiosa?” “Più che una vocazione religiosa è, o meglio era un ideale”. “Quando ha cominciato ad essere attratta dalla chiesa?” “Nei primi anni dell’adolescenza, volevo essere donna e monaca.
Donna ci sono riuscita, monaca no. Mi sarebbe piaciuto vestirmi da monaca
con il sorgole, la pettorina dove c’è un taschino per mettere il
necessaire come l’orologio, un crocifisso. Delle maniche molto larghe.
Le monache di oggi non vestono più così. Hanno accorciato le gonne,
eliminato il sorgolo e la pettorina. Si sono laicizzate al massimo. Sono
sempre stata attratta dall’ordine delle Benedettine perché la loro
fondatrice, Santa Scolastica, sorella di San Benedetto, mi attrae per il
suo essere sposa di Cristo, perché loro portano i capelli rasati, portano
il velo lungo, sono rimaste fedele alla regola della loro fondatrice. Non
si sono secolarizzate, non si sono fatte prendere dalla mania di
modernizzarsi”. “Hai sempre detto che le tue prime esperienze con le suore non sono
state buone, poi come mai hai deciso di entrare in un ordine religioso?” “Volevo essere monaca per assomigliare a suor Michelina quella che col
suo grembiulone copriva tutte noi”. “Hai frequentato il catechismo?” “Si non mi sono mai allontanata dalla chiesa, ho fatto la prima
comunione e la cresima. (Quando ero ricoverata al policlinico per
l’operazione, la mattina veniva il cappellano a darci la comunione
allora io dicevo a mia sorella di aiutare il prete, di portargli il
vassoio, di suonare il campanellino. Lei, che è atea, ha sbuffato e dopo
mi ha anche rimproverata. La mattina dopo, come arrivava l’orario del
prete, se ne andava a prendere il caffè. Io ho sempre fatto la comunione,
tutti i giorni). Mi faceva catechismo una suora che mi rimproverava sempre
perché io facevo l’inchino e l’inchino lo facevano le femmine, i
maschi dovevano fare al massimo una genuflessione. Io invidiavo le bambine
per i loro abiti che quel giorno (quello della prima comunione) erano
bellissimi. Io invece ero vestito con abiti maschili che poi ho tagliato
con un forbicione in mille pezzi, così come avrei voluto tagliare quel
bambino che ero allora. Ero innamorato di Cristo forse perché vengo da
una famiglia molto religiosa. Ho uno zio prete, laureato in lettere e
filosofia. Ha sempre insegnato, non ha mai avuto una parrocchia. Una mia
prozia era monaca, figlia della carità di Santa Caterina Labourè. E’
morta a novantasette anni. Io speravo che lei mi lasciasse in eredità un
suo abito, sapeva che volevo farmi monaca ma non mi ha mai aiutata:
“Visto che ho sbagliato io non voglio che sbagli anche tu, qui ti
mettono sotto, trovati un ragazzo e sposati”. Questo mi disse prima di
morire”. “Ma perché volevi farti suora?” “Io volevo farmi suora
per essere protetta dal mondo. Pensavo che le grate mi proteggessero dal
mondo, che il recinto del monastero non facesse passare la cattiveria. E
poi le monache vanno vestite bene non come me che sembro una stracciona.
Dicevo: come sono eleganti con quella cuffietta bianchissima, stirata, con
quella fede d’oro. Se fossi stata monaca sarei stata ben vestita. Il no
di madre Giuseppina (la madre superiore delle Benedettine) mi ha messo a
terra, Almeno mi avessero fatto provare. Io pensavo se le Benedettine mi
hanno rifiutato figuriamoci le agostiniane, le clarisse” “Come hai contattato suor Giuseppina?” “Andavo sempre a trovarle ma loro non mi ricevevano mai. Ed è che
sono di vita attiva, figuriamoci se fossero state di vita contemplativa.
Un giorno stavo al Centro Diurno e stavo male, avevo litigato con gli
operatori perché non volevo mettere i panni (da qualche tempo Rita è
incontinente) che per me sono come un cilicio. Allora pensai: Ora me ne
vado, ma dove vado? A casa no che li sto pure peggio. Me ne andai a piedi,
senza dire niente agli operatori altrimenti mi avrebbero ostacolata.
(L’istituto delle suore è in un altro comune e dista dal Centro Diurno
circa sei chilometri). Per la strada si fermarono due vecchi con la loro
macchina e mi diedero un passaggio. In macchina mi sentii male. Non avevo
mangiato, avevo fatto lo stesso l’insulina ed ero andata in ipoglicemia.
Arrivati all’istituto questi due anziani suonarono il campanello ma le
suore non aprivano. Loro continuavano a suonare e suonavano, suonavano. Le
pensionate si affacciarono tutte e dissero che le suore stavano riposando
e che loro non potevano aprire a nessuno. I vecchi insistevano perché io
stavo male in macchina, tremavo tutta, avevo come una specie di attacco
epilettico. Loro mi buttarono l’acqua in faccia, mi bagnarono tutta.
Alla fine, dopo tanto baccano, una suora uscì fuori. Io gli baciai il
vestito, la mano ma non servì a niente. Nel frattempo avevano chiamato la
polizia, l’ambulanza”. “Chi aveva chiamato la polizia e l’ambulanza?” “Le suore che mi avevano visto da dietro le vetrine delle loro grate.
Uscì solo suor Carmela di settant’anni che poteva fare? Dissero i
carabinieri che erano venuti con una gip: “Ci avete chiamato come se ci
fosse un ladro, un’assassina ed invece ci troviamo di fronte ad una
deficiente”. Le suore fecero una brutta figura. I carabinieri mi
chiesero i documenti io glieli diedi perché ormai avevo fatto il cambio
del nome e quindi potevo portare tranquillamente la tessera d’identità.
Mi misero sull’ambulanza e mi portarono al Servizio d’Igiene Mentale.
Ecco come è finita una vocazione. Le suore si sono allontanate dal
vangelo, non dalla Regola che rispettano moltissimo, ma dal vangelo si
altrimenti non mi avrebbero respinta”. “Perché ti hanno respinta?” “Cristo non ha mai respinto nessuno, neanche le prostitute, neanche le
adultere. Cristo diceva: “Ti siano rimessi i tuoi peccati, vai in pace e
non peccare più”. Quando volevano lapidare l’adultera con grosse
pietre, come quelle che buttavano a me i ragazzini, Cristo diceva a loro:
“Scagli la prima pietra chi non ha peccato e poi donna nessuno ti ha
condannato vai…” Senza dire dell’ospitalità di San Benedetto e di
sua sorella Santa Scolastica. Non c’era questo egoismo. Mi hanno
respinto perché sono povera, non ho un corredo, una dote”. “Come facevano a saperlo?” Perché glielo dissi io un’altra volta che avevo parlato con loro. Si
è fatto tanto rumore per niente. Sono tante le delusioni che ho
avuto. Parlano di crisi religiosa e poi respingono. Io speravo di
costruire la religiosa dopo aver costruito la donna, in modo poi da unire
la donna alla religiosa. Come monaca almeno mi sarei sentita realizzata,
mi sarei specchiata nelle consorelle. Cristo a detto: ”Dove sono due o
tre di voi io sarò là”. Oggi se non hai le conoscenze non puoi fare
neanche la monaca”. “E la tua prozia monaca, tuo zio prete?” “La prima riposa in pace, mio zio se ne frega. Non c’è nessun
rapporto, non ci frequentiamo. Praticamente i miei genitori non hanno
rapporti con i familiari”. 2-9
RITA E LA SUA FAMIGLIA. Il nucleo familiare di Rita è composto da sei membri: due genitori e
quattro figli (prima due maschi e due femmine ora sono invece tre femmine
e un maschio). Il padre, di sessantotto anni, nonostante sia pensionato,
continua a fare il contadino per un bisogno economico: "prendo
qualche diecimila lire in meno a giornata perché non sono più come
quando ero giovane, ma almeno lavoro". Non ha mai frequentato la
scuola pubblica. Ha imparato a leggere e a scrivere con una maestra che
faceva scuola in casa. Nel suo paese, sessanta-settanta anni fa i figli
dei contadini disertavano la scuola pubblica (probabilmente perché gli
orari non si conciliavano con le esigenze lavorative). Un giorno Rita ha
raccontato di aver incontrato questa maestra di suo padre: "Veramente
non so neanche se era una maestra diplomata o semplicemente se era una che
sapeva leggere e scrivere. La signorina A…
mi ha detto che ha tenuto mio padre all'asilo, alla scuola e anche
al catechismo ed era il più "trubbe" (irrequieto di tutti.) Non
so se l'episodio è vero comunque denota il concetto che Rita ha di questa
figura genitoriale. Concetto che in un'altra occasione ha approfondito ed
ampliato: "Da piccolo mio padre era un bambino terribile e violento
sempre pronto a fare a botte con gli altri. Lui mi ha raccontato che una
volta con un morso ha quasi staccato un orecchio ad un coetaneo. Spesso la
gente andava a casa di mia nonna a lamentarsi e mia nonna diceva:
"Che posso fare?" Anche il mio bisnonno, mi hanno detto,
era cattivo e crudele tanto che morì da solo in una "lammia"
(la lammia nel mio paese è una casa di campagna col tetto piatto, il
trullo invece ce l'ha a punta) perché nessuno voleva avere più a che
fare con lui. Lo trovarono parecchio tempo dopo la sua morte. E mio padre
è violento come suo padre, suo nonno che era un alcolizzato. Mio nonno
faceva il carrettiere, aveva sette figli. Quando la sera tornava a casa
spesso era ubriaco e aveva accessi d'ira: Mia nonna ha avuto tante di
quelle botte che ha trovato un po’ di pace solo dopo la morte del
marito. Anche mio padre prima beveva molto e tornava a casa spesso
sbronzo. Da quando ha avuto problemi alla prostata lui dice che ha smesso,
ma mia madre non ci crede, quello nell'ape avrà certamente qualche
damigiana di vino però a casa non torna più ubriaco. Lui ha rapito mia
madre cosicchè lei poi è stata costretta a sposarlo. Si sposarono nel
1955. Mio padre spesso picchiava la mamma tanto che per le botte perse il
primo figlio che aveva nel grembo. Poi mia madre si ammalò di
tubercolosi. Eravamo molto poveri ed abitavamo in una casa molto umida. Fu
anche ricoverata in un sanatorio ma per fortuna c'erano già le medicine
appropriate e guarì. Dopo un anno dall'aborto, mamma era ancora ammalata
di tubercolosi, nacqui io. Forse sono state le medicine che mamma ha preso
a farmi nascere così, col sesso sbagliato. Quando nacqui papà era
emigrato a Francoforte, in Germania. Mi hanno detto che lui era molto
orgoglioso che il suo primogenito fosse maschio. La prima volta che mi
ricordo ho visto papà dovevo avere tre o quattro anni. Lo cacciai via:
"Chi è questo mamma? Caccialo via", ora è lui che caccia me:
Mia madre diceva a mio padre: "Non ti conosce, non ti ha mai
visto". Per me vedere questo maschio così alto, forte e mascolino fu
uno spavento. Mi ricordo che nonostante mi accordasse con le caramelle e
le cioccolate io continuavo a cacciarlo. Poi cominciò a picchiarmi per i
miei comportamenti femminili. Mi picchiava sempre in testa. Quando papà era lontano, a Francoforte e io non lo conoscevo pensavo
che il mio papà fosse un fratello di mamma: Questo è uno che non ha mai
avuto figli, era un tipo più donna che uomo. Cioè era uomo, faceva il
macellaio ma non aveva una macelleria, non lavorava mai in compenso faceva
i lavori di casa, scopava, spolverava. Al contrario mia zia faceva l'uomo,
ha sempre lavorato fino all'ultimo". Rita continua a tenere, nei
confronti del padre un comportamento poco conciliante. Spesso vengono alle
mani e litigano anche per apparenti futili motivi (una volta per esempio,
perché Rita aveva mangiato tutto il salame che c'era in frigo) .
"L'altro giorno siamo andati a cena a casa di mia sorella Anna. Io
non mi sono seduta vicino a lui perché sennò avremmo litigato". "Perché avreste litigato?" "Perché lui provoca". "Come provoca?" "Comincia a dire che deve pagare questo e quello, che io non aiuto
la famiglia, la sfrutto ecc…" Il padre continua a chiamare Rita con un nome di maschio e parla di lei
come se fosse ancora maschio. La madre ha sessantanove anni. Per Rita è analfabeta: "Lei dice
che sa leggere però quando c'è qualcosa da leggere dice sempre che non
ha gli occhiali e che non vede bene e se lo fa leggere dagli altri. E'
sempre depressa però non vuole prendere le medicine, non è come me. Con
mio padre non è mai andata d'accordo. Prima prendeva sempre botte ora è
diventata una donna più forte, se mio padre fa la mossa i picchiarla lei
dice: "Ora chiamo Oronzo (Oronzo è il figlio più piccolo) e lo
mando dai carabinieri".
A casa spesso, dopo che hanno litigato, dormono in stanze separate. Poi
fanno la pace e tornano a dormire insieme. Tanti anni fa, noi figli non
eravamo ancora nati, papà gli aveva fatto gli occhi neri, e non col
rimmel , mamma scappò e andò dietro alla processione che fanno, a
giugno, nel mio paese. Mamma è una donna molto religiosa. Lei dice che
mentre era dietro la processione fu illuminata da Gesù che gli disse:
"Separati ora che non hai i figli". Mia nonna però la convinse
a restare con mio padre: "Che dirà la gente? Ti chiameranno
svergognata, sarai marchiata". Insomma la convinse a stare col marito
e ricominciarono le liti e le botte. Questo fatto mia madre l'ha sempre
rinfacciato a mia nonna. Con me mia madre a volte è buna e comprensiva, a
volte no, è come la gatta al lardo. Periodi che mi accetta e periodi che
mi respinge. Il suo figlio preferito però è Oronzo, lo sta rovinando
quel ragazzo, sempre appiccicata a lui, vanno a fare la spesa insieme,
vanno a messa insieme, fanno tutto insieme (eccetto il sesso naturalmente)
per il resto è come se fossero una coppia. Qualche mese fa Oronzo è
stato licenziato, lei (mia madre) non l'ha più mandato a lavorare:
"perché ho paura a restare sola" dice, gli ha fatto perdere tre
occasioni di lavoro, una come commesso in un negozio,, una presso un
rivenditore di frutta e verdura e una presso un sindacato o un patronato.
Un giorno mia sorella Anna si è infuriata con mia madre e le ha detto
chiaramente che lei era stata brava ad educare le figlie femmine ma che
era un disastro con i maschi, "hai rovinato il primo ora vuoi
rovinare anche il secondo?". Anche la madre continua a chiamare Rita col suo nome maschile. Lei però,
a differenza del coniuge, quando parla con noi operatori, se ne rende
conto e spesso si corregge. (Più volte abbiamo invitato la famiglia ad
usare il nome femminile quando si rivolgono a Rita. Rita ha due sorelle:
1) Caterina di trentatrè anni, sposata, vive a Monaco di Baviera in
Germania, ha due figli. Di lei Rita parla poco e quando la nomina è
sempre per mettere in evidenza che non l'ha voluta con sé a Monaco;
2)Anna di trentadue anni. Di Anna Rita parla molto e spesso, in genere usa
toni accesi, le rimprovera che per colpa sua ha lasciato Salvatore ma la
stima, la rispetta e la teme. Spesso durante i litigi tra Ria e il padre
Anna è intervenuta prendendosi qualche colpo e rischiando grosso, come
quando ha tolto di mano a Rita un coltello col quale minacciava il padre.
(Episodio confermato e riferito da tutti i membri della famiglia). Ho
avuto con Anna diversi colloqui. Forte, schietta, sincera, senza peli
sulla lingua è quella che ha cercato e cerca di stare il più vicino
possibile a Rita nei confronti della quale nutre un grande affetto. Quando
la nostra psicologa conobbe Anna disse: “Che strano tra Anna e Rita è
Anna che ha il ruolo maschile, Rita quello femminile. Si sono invertiti i
ruoli”. Anna, nel momento del bisogno è sempre vicino a questa nuova
sorella. E' lei che è stata vicina a Rita quando si è operata: "e
non è stato facile, mi ha detto un giorno, perché Rita era capricciosa.
Ad un certo punto non resisteva più, voleva andar via, togliersi tutti i
tubi che aveva". E' lei che è andata in un sex-schopping
per comprare "l'intruso" che i medici avevano consigliato
per far allargare la vagina. Anche questo non fu facile: "Mi
vergognavo, mi sentivo in imbarazzo. Certamente il gestore del negozio avrà
pensato che era per me". E' lei che ha medicato le ferite quando
Salvatore l'ha picchiata, è lei che ha sempre cercato di inserirla fra i
suoi amici: "Poi però non l'ho più fatto, mi metteva troppo in
imbarazzo,, si avvicinava ai ragazzi, li accarezzava, si alzava la gonna
per far vedere a tutti che non aveva più l'apparato sessuale
maschile". Anna attualmente convive con un ragazzo: "E' stata
lei che non si è voluta sposare, dice Rita, il ragazzo era pronto a
farlo, lui l'adora". In fine c'è Oronzo, ventiquattro anni, celibe, ultimogenito. Anche di
Oronzo in genere Rita parla poco: "Oronzo è sempre stato quello che
non mi ha mai difesa né mi ha mai criticata, si è sempre fatto i fatti
suoi. Peccato che mamma lo sta rovinando. Alla morte dei miei genitori lo
so, Oronzo andrà a vivere con Anna o con Caterina, il problema sarà il
mio che nessuno mi vuole, neanche le suore mi hanno voluta. Tutta la famiglia quando parla di Rita usa il suo nome maschile,
nonostante l'operazione il cambio dei documenti e l'atteggiamento
inequivocabilmente femminile. Tale atteggiamento è iniziato molto presto,
quando Rita era ancora un "bambino piccolo": "Mettevo gli
abiti di mia nonna materna che quando restò vedova venne ad abitare con
noi. Mettevo le sue gonne, le sue scarpe…quelle di mia madre no, mai,
lei era molto gelosa delle cose sue non mi faceva mai entrare nelle sua
camera da letto, non mi faceva toccare niente. Volevo molto bene a mia
nonna, è morta da diversi anni,. Spesso mi coricavo con lei e anche se
facevo la pipì a letto non si arrabbiava mai. Era nonna che mi comprava i
giocattoli delle femmine. Io dicevo: "Nonna comprami la
bambola". Lei diceva: "No che poi tua madre chi la sente".
Invece poi mi accontentava sempre. Io mi rifugiavo sempre sotto le sue
sottane quando tirava "butta aria" cioè quando ero in difficoltà
e lei mi compativa, mi comprendeva. A sei-sette anni i miei genitori mi
portarono a visita presso la "Nostra Famiglia" (una struttura
per bambini handicappati ) Mi fecero entrare in una bella stanza dove
c'erano tanti giocattoli. Io mi buttai su quelli femminili, mamma intanto
raccontava tante cose su di me, sul marito: "Ho trovato un uomo
rozzo, violento. ( Io stavo sdraiato a terra e giocavo). Ho sposato un
uomo sbagliato, così nascono i figli sbagliati. Mia madre è stata una
svergognata, mi ha impedito di separarmi". Poi mi hanno portata anche
da altri medici sia per l'enuresi notturna, mi pare che si dice così, sia
per le tendenze femminili. Tutti dicevano la stessa cosa: "Suo figlio
è sano ha un apparato uro-genitale perfetto". Rita ha vissuto i suoi primi anni d'infanzia in un mondo prettamente
femminile (la madre, la nonna, le suore dell'asilo). Il padre era assente
perché emigrato in Germania. La figura maschile più presente, lo zio
materno, a cui la madre era particolarmente legata, era "più donna
che uomo". Le altre figure maschili del parentado, i nonni il padre,
erano persone violente, almeno così le descrive lei. Rita ha, all'interno della famiglia, un comportamento aggressivo e
violento. Alza la voce e le mani, dice le parolacce, bestemmia i morti
ecc… Nella nostra struttura, che Rita frequenta quasi tutti i giorni,
tranne brevi periodi, da circa quattro anni, lei non ha mai alzato la voce
e le mani, non ha mai detto una parolaccia, neanche quando provocata, né
agli operatori né agli altri utenti, né ha mai usato un linguaggio
volgare (tranne quando racconta le sue esperienze sessuali, ma lì riporta
le parole dei ragazzi e in genere fa precedere la parola volgare da un
breve attimo di esitazione). Fuori dalla famiglia Rita interpreta la parte
della donna secondo quello che è il suo ideale o l'immagine che della
donna ha interiorizzato. Nella famiglia invece esprime tutta la sua
aggressività. Spesso i genitori ci hanno detto: "Non la vedete cosi,
lui con voi si mostra buono buono a casa invece diventa una iena. Non lo
sopportiamo più, voi dovete aiutarci a separarci da lui. Dovete metterlo
in manicomio o dove volete basta che lo portate via". Spesso l'hanno
cacciata di casa poi però l'hanno sempre riaccolta. "La vigilia di
natale dell'anno scorso, ha raccontato Rita, stavo a letto con la sola
camicia da notte. Vennero mio padre e mia sorella. Mia sorella era
furiosa, disse a mio padre: "Buttiamola con tutto il lenzuolo in
mezzo alla strada, con i suoi documenti e speriamo che passa quel
furgoncino che rapisce le persone per donare gli organi". Girava voce
nel paese che di notte circolava un furgone nero che prendeva quelle
persone sole e disperate che non erano in casa e le portava via. Fortuna
che c'era mia madre e mio fratello che si opposero". "Ma tu ce avevi fatto per farli arrabbiare?" "Non mi ricordo, forse avevo comprato una sottoveste e un paio di
calze da un negozio, non avevo pagato e il negoziante si era rivolto a mio
padre per avere i soldi. Io non ho neanche le chiavi della mia camera
altrimenti mi sarei chiusa. Fecero accorrere tutto il condominio: A mio
padre piace fare la sceneggiata napoletana". Rita spesso chiede di andare in una casa famiglia ma il nostro dirigente
non è d'accordo: "Se ne andrebbe dopo pochi giorni" e viene il
sospetto che forse l'insistenza con cui Rita chiede di entrare in questa
struttura è dovuta proprio al rifiuto categorico del nostro responsabile.
A volte parla di voler andare ad abitare da sola in un altro paese, ma ha
paura: "Io vorrei abitare da sola ma non posso perché se
anagraficamente sono una trentasettenne di testa ho appena diciannove
anni, sono infantile". "Perché ti senti infantile?" "Se fossi intelligente mi sarei presa una casa modesta, non avrei
sprecato tanti soldi nel vestirmi, con la pensione e il sussidio potevo
tirare avanti". Economicamente Rita non è autosufficiente, la sua pensione non supera
le quattrocentomila lire mensili a cui bisogna aggiungere il nostro
sussidio, circa trecentomila lire mensili (la pratica per il sussidio
viene rinnovata ogni anno ma non è detto che sarà approvata). Rita
inoltre non sa gestire il denaro "Lo so sono una scialaquatrice, i
soldi in mano mia non durano, ma in fondo che sono i soldi? Solo un
passamano". Rita non ha mai rimpianto il denaro dato ai ragazzi,
neanche i quattordici milioni a Mario, anche se in cambio ha ricevuto più
soprusi e frustrazioni che considerazione e affetto. L'unico tentativo
concreto che lei ha fatto per separarsi dalla famiglia è stato quello di
entrare in un ordine religioso. Lì aveva visto la possibilità di poter
ristrutturare la propria identità. "E' vero che ho un passato
torbido ma il noviziato in cosa consiste? Nella nascita di una nuova
donna, in una rinascita, tanto è vero che si lascia il passato alle
spalle, si cambia nome. Lì non ci sono gli specchi, non come nel mondo,
non sarei costretta a specchiarmi continuamente, accetterei meglio i miei
difetti. Mi specchierei nelle altre consorelle e sarei tutt'uno con loro,
saremmo una cosa sola, saremmo "chiesa". Ora invece mi specchio
nello specchio vero e piango". D'altra parte spesso lei riconosce di
essere legata alla famiglia: "Forse c'è qualcosa di psicologico in
me che non va, forse perché non sono intelligente, forse perché non sono
buona a nulla, io non riesco a tagliare il cordone ombelicale, ormai
incancrenito, che mi tiene legata alla mia famiglia, ai miei genitori, a
mia sorella. Con mio fratello no perché con lui non ho mai litigato,
forse perché l'ho cresciuto io, ci sono tredici anni di differenza". 3 - 9 RITA E IL CENTRO DIURNO Il Centro Diurno è una struttura riabilitativa gestita da una
cooperativa che all'uopo ha stipulato una convenzione con l'A.U.S.L. BR/1
e la cui supervisione è affidata al dirigente della Unità Operativa
Psichiatrica. Ospita, in regime di semiresidenzialità (è aperta dalle
ore 8.00 alle ore18.30) utenti che a causa del loro disagio psichico
presentano una forte conflittualità e con la famiglia e col "mondo
sociale" più in generale. E' perciò una figura intermedia che evita
lo sradicamento dalla famiglia e dal proprio ambiente sociale. Gli
operatori di tale struttura gestiscono diversi laboratori: pittura,
sartoria, psicomotricità ecc. Attraverso tali attività e su un progetto
terapeutico individuale, concordato con il dirigente dell'Unità Operativa
Psichiatrica, si effettuano interventi terapeutici finalizzati alla cura e
al recupero. Rita è inserita nel Centro Diurno agli inizi del 1998. A
tutti è presentata come femmina, col suo nome femminile. In un primo periodo non emergono difficoltà. Rita si pone nei confronti
degli operatori e degli altri utenti con un atteggiamento collaborativo.
Gentile, educata, è sempre pronta a collaborare nelle attività e ad
aiutare i suoi compagni. Privilegia le attività prettamente femminili,
cucire, lavare i piatti, il pavimento ecc. Si dice pienamente soddisfatta
di tale inserimento: "E' una gioia per me sentirmi chiamare col mio
nome di donna. Finalmente non ho più da trascorrere giornate vuote e
piene solo di solitudine". Anche gli operatori sono soddisfatti:
"L'inserimento di Rita non ha presentato nessuna difficoltà lei ha
subito fatto amicizia con gli altri, è collaborativa". I problemi cominciano dopo i primi mesi quando Rita non solo ha
raccontato a tutti, con dovizia di particolari, la sua storia di
transessualità e le sue esperienze sessuali, ma comincia a far proposte
di rapporti intimi a tutti i maschi con cui si relaziona: agli educatori,
all'autista, agli altri utenti, non importa se giovanissimi o maturi, se
biondi o bruni. Le sue gonne si accorciano ancora di più tanto che basta
che si sieda o che si pieghi un pò perché le sue gambe restino
completamente scoperte. Il suo abbigliamento, ritenuto
"indecente" comincia a disturbare tutti gli operatori, sia
quelli del Centro Diurno che quelli dell'Unità Operativa, con cui ha
contatti quotidiani, sia perché il Centro suddetto è allocato nello
stesso stabile sia perché Rita viene tutti i giorni nell'infermeria della
U.O.P. per la terapia. Se all'inizio il suo abbigliamento
"indecente" è tollerato perché addebitato alla sua povertà
economica (Rita dice di non potersi permettere di acquistare abiti nuovi
per cui usa solo quelli regalati da altri) tale tolleranza comincia, man
mano che ci si rende conto che il modo di vestire non è dettato da una
necessità ma da una scelta, a scemare sempre di più fino a diventare
intolleranza. (Più di qualche operatore le ha procurato degli abiti più
lunghi, più "decenti", abiti che Rita o non ha usato o prima di
usarli li ha debitamente accorciati). Più volte Rita viene ripresa e
rimproverata. Si arriva persino a sospenderla, per qualche giorno, dal
Centro, per punizione. A Rita, la nostra équipe ha approvato un sussidio
economico per l'ammontare complessivo di circa tre milioni. Un sussidio
che è cogestito. La somma infatti viene depositata su un libretto
bancario al portatore, intestato a lei e custodito nelle nostra cassaforte
da dove viene preso quando bisogna fare un prelievo in vista di una
necessità, di una spesa. A gestire praticamente questa somma siamo io, in
qualità di assistente sociale, e lei. La scelta della cogestione, al
posto dell'autogestione (nel cui coso è l'utente che porta a casa la
somma e la gestisce come meglio crede) è concordata con Rita la quale la
preferisce in quanto: "Se porto i soldi a casa se li prendono tutti i
miei genitori e se li spendono per cose loro". Spiego che questi
soldi devono servire per le sue necessità, non per le necessità della
famiglia e che bisogna documentare anche come viene speso il denaro.
Concordiamo che per ora i genitori non sapranno niente di questo sussidio
per evitare inutili conflitti. Rita non chiede mai di prelevare denaro per
fare acquisti. Più volte la sollecito in tal senso invitandola a
comprarsi scarpe e vestiti nuovi. Lei rifiuta sempre: "No, lasciamoli
per quando arriveranno le spese dell'avvocatessa. Spendere dei soldi per
me non ne vale la pena" (Rita dopo l'operazione ha in corso la
pratica per il cambiamento anagrafico del nome). Più volte gli operatori
mi sollecitano a comprare vestiti per Rita e più volte faccio presente
che Rita non è d'accordo e che su questo punto è irremovibile. Un
giorno, siamo ad aprile del 1998, Rita chiede di prelevare dal suo conto
bancario 400.000 lire per comprarsi le scarpe e una magliettina. La cifra
mi sembra consistente e glielo faccio presente. Lei dice che per trovare
il numero giusto di scarpe deve andare per forza a Bari dove c'è un solo
negozio che vende scarpe di tutte le dimensioni, da quelle per i nani a
quelle per i giganti. Considero che fin 'ora non solo non ha mai chiesto
dei soldi ma che, sollecitata, non li ha neanche voluti per cui non
sollevo ulteriori obiezioni. Dopo una settimana noto che Rita continua ad
usare sempre le stesse scarpe vecchie, piccole e sgangherate. La chiamo
per sollecitarla ad acquistare le scarpe nuove e lei fa presente che quei
soldi li ha dovuti dare a casa perché c'era il canone dell'acqua e della
luce da pagare: “Non ti preoccupare, non ti mortificare (in realtà ero arrabbiata),
sono serviti per una buona causa, è meglio così, io posso tirare avanti
con le scarpe che ho". Da quando Rita è venuta per la prima volta al
nostro servizio ad oggi, nessuno di noi ha conosciuto la famiglia di Rita
perché lei preferiva così: "Cosa devono venire a fare, mio padre
lavora tutto il giorno, mia madre è sempre depressa e non esce mai".
Dopo l'episodio delle scarpe insisto, con Rita, nel voler fare una visita
domiciliare e per conoscere i suoi genitori e per spiegare il programma
terapeutico che sta facendo da noi e per precisare gli obiettivi del
sussidio economico. Lei gentilmente ma fermamente si oppone: "Tanto
tutto è inutile, loro non capirebbero, sono molto poveri, hanno tanti
problemi e poi ti tratterebbero male, se vedi come hanno trattato male
l'assistente sociale del consultorio! Quella poverina cercava di aiutarci
e loro la prendevano a male parole. Quante gliene dicevano! Sono fatti così
non c'è niente da fare, con loro non si può parlare, non si può
dialogare". Faccio presente che sono abituata a rapportarmi con
famiglie "difficili" poco collaborative, "aggressive",
che questo fa parte del mio lavoro, ma lei è irremovibile, sembra un
po’ in ansia. E' chiaro che non vuole che li incontri che teme qualcosa.
Mi sorge il dubbio che Rita non è come appare, che forse quello che dice
non è poi tutta la verità e che forse teme che scopra come stanno
veramente le cose. Comincio a rivedere tutto quello che fino ad ora ha
raccontato a me e agli altri e a considerare che forse quelle che in un
primo momento mi erano sembrate "esagerazioni" fossero in realtà
delle vere e proprie bugie. Contatto la psicologa del consultorio che l'ha
conosciuta prima di noi. Le chiedo se Rita è manipolativa. La psicologa
in un primo momento appare sorpresa poi dà una risposta che io giudico di
tipo diplomatico, una risposta che si dà quando non si sanno come stanno
veramente le cose, una risposta che non afferma né nega: "Ma
forse… in certe occasioni può darsi che… ecc." Ma se le cose
stanno come sospetto Rita è molto manipolativa, non ci dovrebbe essere
alcun dubbio. Ci penso ancora su per un bel po’ poi decido di chiederle
la documentazione delle spese sostenute col sussidio (cioè la fotocopia
della bolletta ENEL e dell'acqua) ricordandole l'impegno che abbiamo nei
confronti dell'amministrazione. Rita dopo un po’ di giorni non mi porta
né la fotocopia riguardante l'ENEL né quella riguardante l'acqua ma la
fotocopia delle ricevute relative al canone di fitto mensile che i suoi
genitori pagano per l'appartamento che occupano e qualche scontrino di un
negozio che naturalmente porta la data del giorno prima. Ho la conferma
che Rita ha mentito. ( E' stato solo dopo molti mesi che Rita mi dirà che
quei soldi li ha dati a Salvatore). Riconsidero tutta la sua storia,
osservo con un'attenzione diversa come
si pone, ciò che dice, ciò che fa.(Chiedendomi cioè se quello
che mostra è solo ciò che consapevolmente, deliberatamente, vuole
mostrare). Ipotizzo che quei soldi saranno serviti a pagare qualche
ragazzo. Decido, per il momento, di non dire niente agli altri operatori
per non aggravare ulteriormente la posizione di Rita. (Anche se questo mi
comporta una certa conflittualità interiore). L'intolleranza degli
operatori per il suo abbigliamento è diventata molto forte e molto
evidente. Inutili, fino ad ora, si sono rivelati tutti i miei tentativi
fatti per cercare di spiegare che Rita ha col suo corpo un rapporto non
adeguato, che ancora non ha imparato bene a vestirlo da femmina, che è
come quelle persone che per tanti anni non hanno mai potuto avere qualcosa
e che quando l'hanno esagerano. Me la prendo con la psicologa: perché
invece di chiamare Rita nella sua stanza per rimproverarla su come si
veste non l'aiuta a riconciliarsi col suo corpo ad accettarlo? Ormai il
rifiuto nei confronti di questa utente ha raggiunto livelli molto alti, la
si tratta con distacco fino ad essere a volte persino sgarbate e tutto
apparentemente per le sue gonne troppo corte. Anch'io provo, seppure in
modo attenuato, perché razionalizzato, questo moto di rifiuto e la cosa
non mi piace, rompe un ordine di senso (l'assistente sociale, la struttura
psichiatrica devono accogliere colui che è portatore di un disagio non
rifiutarlo). Cerco di spiegarmi il perché, cosa è che urta tanto, in
fondo in televisione ed in giro si vede anche di peggio. Possibile, mi
chiedo, che siamo diventati tutti una massa di bigotti? Considero che
quando lavoravo al SERT venivano ragazze vestite con minigonne corte come
quelle di Rita, con scollature profonde che non lasciavano niente
all'immaginazione, con magliette tanto striminzite da lasciare l'ombelico
scoperto eppure non davano "fastidio", né a me né agli altri
operatori. Nessuno di noi pensava minimamente a riprenderle, a
rimproverarle. Perché nella struttura psichiatrica si? E' l'avere a che
fare con i "matti" che ci "autorizza" a dettare norme
di comportamento? O è il fatto che Rita ha delle gambe lunghe e dritte ad
urtare? In questo caso però il rifiuto deve coinvolgere solo il personale
femminile mentre coglie anche quello maschile. C'è qualcosa di più che
non riesco a cogliere. (Solo quando ho iniziato a fare questa tesi ho
capito che ad urtarci tanto non era ovviamente la lunghezza della gonna ma
il fatto che Rita con la sua transessualità, con la sua ambiguità, col
suo non nascondere l'ambiguità rompeva un ordine di senso incriticabile,
inattaccabile, inconfutabile: o si è maschi o si è femmine). So bene che
è solo una questione di tempo e che la verità verrà a galla ma spero
che gli altri operatori venendo maggiormente a contatto con la sua
sofferenza, con il suo disagio riescano ad accettarla di più. I rapporti
tra Rita e gli operatori invece diventano sempre più conflittuali. Rita
comincia a presentare problemi di incontinenza. Perde urine dappertutto,
sui divani, sulle sedie, nelle stanze, nel pulmino. Rifiuta i panni perché
teme che si possano vedere e perché vuole sentirsi libera. Dopo varie
contrattazioni accetta di mettere quelli di una certa marca che sono meno
ingombranti e che costano di più. Usiamo i soldi del sussidio. Dopo
qualche mese non vuole più usare neanche quelli. La portiamo a visita di
controllo a Bari, dove ha fatto l'intervento. I medici, dopo accurate
analisi ed ecografie, escludono decisamente che il problema possa essere
una conseguenza dell'intervento. Ipotizzano una probabile conseguenza del
diabete o un fatto psicologico. Rita intanto continua a fare altre
analisi, a perdere urine e a non voler usare i panni. Viene sospesa dal
Centro Diurno per l'ennesima volta. Questa volta però finiti i giorni di
sospensione non rientra al Centro. Sono preoccupata. Non ho mai concordato
con la pratica della "sospensione" mi ricorda la scuola
dell'obbligo di una volta quando i bambini "cattivi e
indisciplinati" venivano sospesi. Si è capito poi che non era quello
il modo migliore di risolvere i problemi. Più volte ho fatto presente
questa mia posizione, più volte questa è caduta nel vuoto. La psicologa
sostiene questa prassi insieme al dirigente. (Oggi non si sospende più,
dopo tanto insistere ma soprattutto dopo che diversi utenti, colpiti da
"sospensione", non volevano più tornare al Centro Diurno si è
rinunciato a tale pratica). So che Rita, anche se al Centro non si trova
proprio bene, a casa sta anche peggio. Cerco un modo per riagganciarla.
(Durante il tirocinio avevo parlato di questo caso col tutor interno e con
gli altri tirocinanti. Il professore mi aveva chiesto di scrivere la
storia di vita di questa ragazza ma io avevo rifiutato temendo di falsare
il mio rapporto con Rita. Sapevo che non era un problema etico, il tutto
sarebbe stato fatto in forma anonima e che non ci sarebbero stati elementi
atti ad identificare il soggetto e quindi, in qualche maniera, a
danneggiarlo. Sapevo che il problema era un problema mio, di mie
sicurezze, o meglio di mie insicurezze. Temevo che scrivendo questa storia
il mio rapporto con Rita potesse essere influenzato, falsificato. Temevo
cioè di rapportarmi a lei in modo non corretto, di farle domande atte non
a capire meglio la situazione che stavo affrontando ma la sua storia, il
suo passato e che questo secondo fine finisse per prevalere o influenzare
negativamente il mio rapporto con Rita. Non mi sentivo tranquilla e ho
imparato, con gli anni, a non fare qualcosa di cui non mi sento tranquilla
perché finisco per farla male. Il professore aveva capito le mie
difficoltà e non aveva insistito. Infatti se poi ho deciso di fare la
tesi su questo caso è perché ho acquistato più sicurezza. Certo ho
dovuto affrontare alcuni problemi etici tipo; dire o non dire a Rita che
stavo facendo una tesi sulla sua problematica? Il dubbio non scaturiva dal
timore che Rita potesse non essere d'accordo ma dal mio timore che lei,
sapendo che ciò che mi avrebbe detto sarebbe stato poi riportato,
scritto, "abbellisse", "romanzasse" ancora di più la
sua realtà esistenziale. Non dirlo mi è sembrata una scorrettezza
intollerabile, maggiore del rischio su accennato per cui gliel'ho detto.
Rita si è mostrata subito d'accordo anzi mi ha pregato di chiamarla tutte
le volte che ne sentivo la necessità: "Sono felice di poter fare
qualcosa per te dopo che tu hai fatto tanto per me". La verità è
che a Rita piace molto parlare di sé). Ritornando al discorso che stavo
facendo prima, io sono alla ricerca di un modo per ripristinare un
rapporto con lei. Al Centro Diurno non può ritornare perché l'ultima
volta che è stata sospesa le è stato detto chiaramente che senza i panni
non può essere riammessa, ma neanche la posso "lasciar
perdere". Come servizio psichiatrico non la possiamo rifiutare né
con i panni né senza i panni. Dopo lunghe riflessioni decido di proporre
a Rita di scrivere la sua storia di vita, di farlo nella mia stanza dove
può venire anche senza i panni (avrei provveduto io a pulire tutto). In
questo modo posso riaccogliere Rita ed evitare le proteste degli altri
operatori. Propongo il progetto al dirigente della struttura psichiatrica
che lo accoglie molto favorevolmente anche perché alcuni giorni prima era
andato il padre di Rita a lamentarsi del comportamento della figlia e a
minacciare di mandarla via di casa. Propongo quindi il progetto anche a
Rita che accetta con entusiasmo. In un primo momento si offre di pulire ciò
che eventualmente sporcherà, poi mi propone di mettersi il panno.
"Guarda che non sei obbligata" le dico, "No, no lo voglio
mettere io così sto più tranquilla che non ti sporco niente". Siamo
andate avanti per qualche minuto io ad insistere perchè non mettesse il
panno lei ad insistere perché lo voleva mettere. Con stupore mi sono resa
conto che in questo copione le parti si erano invertite e che in pochi
minuti di colloquio avevo ottenuto ciò che per diversi mesi, con lusinghe
e minacce non si era riusciti ad ottenere. Rita si presenta il giorno dopo
puntuale, mette il panno e comincia a scrivere con entusiasmo. Dato che ha
il panno le propongo di ritornare al Centro diurno così può stare
lontana da casa tutto il giorno e non solo le ore in cui sono in servizio.
Accetta volentieri ma a patto che continui ad usare i mezzi di trasporto
pubblici perché quando esce di casa e quando torna a casa vuole andare
“libera”. Accetto. Dopo diverse settimane
Rita decide di mettere il panno anche quando esce di casa, si è stancata
di viaggiare con i mezzi pubblici. Da allora frequenta regolarmente il
Centro Diurno, ha anche allungato un po’ le sue gonne, quel poco che
basta perché gli altri operatori non la ritengono indecente. I rapporti
con tutti gli operatori (quelli della struttura psichiatrica e quelli del
Centro Diurno) sono migliorati. Rita continua a dire le sue bugie o
meglio, come le chiamo io, le sue verità fantasiose, a mettere in atto
tutta una serie di provocazioni per attirare l’attenzione. (Qualche
giorno fa per esempio è andata a letto completamente nuda. Chi vuole il
pomeriggio può riposare per un’ora). Ma adesso tutti abbiamo imparato a
conoscerci di più, ad accettarci di più per cui è diventato più facile
comunicare, convivere. Tempo fa quando le “verità fantasiose” di Rita procuravano
scompiglio, disorientamento e rifiuto pensavo che se fossi riuscita a far
accettare a Rita la sua pur difficile situazione Rita avrebbe smesso di
rifiutarsi e quindi non avrebbe avuto più bisogno di dire bugie. Volevo
cambiare Rita e Rita ha cambiato me. Sono stata io a cambiare, ad
accettarla per come è perché, in questa situazione esistenziale, non
c’è un modo “giusto” o “sbagliato” di essere ma ci sono solo
tanti “modi” di essere che socialmente sono più o meno accettati, più
o meno rifiutati. Tutti volevamo cambiare Rita e Rita ha cambiato tutti
noi perché oggi tutti noi l’accettiamo, o meglio cerchiamo di
accettarla per quella che è. Sono
grata a Rita per averla conosciuta, per avermi messo in condizione di
riflettere e modificarmi. Mi ha fatto capire ancora di più il valore di
un essere umano. Un valore che trascende qualsiasi caratteristica esso può
avere. Non rinuncio alla speranza che anche Rita cambi. Spero di metterla
in condizione di riflettere e modificarsi perché possa accettarsi e
vedere la bellezza che è in lei (una bellezza che trascende i tratti
somatici, il colore della pelle, le doti intellettuali) come in tutti noi.
La bellezza di appartenere al “genere” umano. 3-10 RITA E IL SUO CONCETTO DI NORMALITA' E ANORMALITA' Questo sottocapitolo è il
frutto di un colloquio avuto con Rita in data 17/8/2000 e non era
previsto. La tesi infatti era stata terminata un mese fa ma le cose che
sono emerse durante questo colloquio mi sono sembrate così importanti da doverle riportare. Occorre precisare che la registrazione
puntuale del colloquio (la parte tra virgolette) riguarda solo la seconda parte del colloquio, la prima parte
la sintetizzerò con mie parole e questo perché avendo terminatala tesi,
ma non il mio lavoro con Rita, non ritenevo opportuno registrare parola
per parola tutto il colloquio. Procediamo con ordine: Ho avuto il mio
ultimo colloquio con Rita, prima di andare in ferie, a giugno scorso. Rita
aveva deciso di non frequentare più il Centro Diurno perché a causa del
suo diabete e delle crisi ipoglicemiche che si intensificano quando va al
mare gli operatori l'avevano esclusa dalle escursioni marine.
Questa almeno era la versione che aveva dato a me. I genitori non erano
d'accordo con questa decisione, a loro però Rita aveva dato un'altra
versione; aveva detto infatti che non avrebbe più frequentato il Centro
perché le facevano lavare sempre i piatti e fare altre faccende
domestiche. Durante tutto il colloquio Rita aveva abilmente invertito le
parti nel senso che era lei a consolare me . Mi diceva infatti di non
preoccuparmi, che tanto
questo era il suo destino cioè quello di essere un'esclusa, che per lei
non c'era posto in questo mondo e che il suo posto era in "Transilandia"
cioè il Paese dei trans solo che questo Paese ancora non esisteva. Io mi
sentivo impotente frustrata e addolorata. Impotente perché avevo già
tentato, senza successo, di farla partecipare alle escursioni marine;
frustrata e addolorata perché Rita non lottava contro questa esclusione
ma l'accettava escludendo a sua volta tutti me compresa che invece non
avevo nessuna voglia di escluderla e che vivevo questa situazione come
un'ingiustizia che la "società" (in questo caso il Dipartimento
di Salute Mentale) faceva non solo nei confronti di Rita ma anche nei miei
confronti. Come essere umano uguale a Rita infatti mi sentivo offesa da
questa decisione presa dai miei colleghi di lavoro e addolorata perché
escludendomi e collocandomi dall'altra parte (quella dei normali, degli
eterosessuali) Rita mi emarginava dal suo mondo. Ho trascorso le mie ferie
riflettendo su questa situazione. Rita infatti si intrufolava nei miei
pensieri impedendomi, a volte, di concentrarmi persino sugli esami da
preparare. (Cosa questa che mi è successa spesso da quando ho iniziato a
fare questa tesi tanto da farmi tornare in mente le parole del mio
professore di tirocinio. Durante il tirocinio
avevo spesso esplicitato la mia difficoltà sia a scegliere
l'argomento della tesi sia a
trattarlo. Il mio tutor interno mi ripeteva spesso che con la mia
esperienza io la tesi ce l'avevo tutta in testa dovevo solo scriverla. Io
non capivo, nella mia testa c'era il vuoto e poi ero restia a trattare il
caso dei miei utenti sia perché mi sembrava di sfruttare il disagio
altrui, sia perché non mi sentivo sufficientemente preparata. Temevo
infatti che questo compito potesse influenzare negativamente il mio
rapporto con gli utenti e che questi potessero considerare non autentico
il mio interessamento. Se oggi ho potuto fare questa tesi lo devo al mio
professore di tirocinio, all'esperienza e alle riflessioni che mi ha fatto
fare). Durante queste riflessioni sono giunta
alla conclusione che il processo di emarginazione non è mai
esclusivamente univoco ma biunivoco, cioè non è solo una sola parte che
esclude l'altra perché anche l'emarginato, a sua volta, mette in atto,
consapevolmente o inconsapevolmente, meccanismi di esclusione. Tornata
dalle ferie ho chiesto agli operatori del Centro Diurno se Rita avesse
ripreso a frequentare la struttura, il responsabile mi ha risposto di no e
che a lui erano giunte voci che la davano in procinto di contrarre
matrimonio. Contatto Rita telefonicamente e fissiamo un colloquio per il
17 agosto. Rita arriva puntuale, dice di aver smesso di assumere
psicofarmaci, di non essere più incontinente e che tutto sommato sta
bene, "Certo ho qualche periodo di depressione ma poi lo supero senza
ricorrere agli psicofarmaci". Racconta che in questo periodo ha avuto
delle avventure una con un ragazzo "biondo, occhi azzurri, bellissimo
e pensare che a me piacciono i mori!". Un'altra con un ragazzo del
suo paese, figlio di un noto medico che la voleva sposare ma lei ha
rifiutato perché "non c'era il vento della passione. Era qualche
anno più grande di me e a me piacciono quelli più giovani. Con lui non
provavo niente anche se è stato molto buono con me, mi ha portato in
pizzeria, al mare, in mezzo alla gente senza vergognarsi. Spesso la gente
faceva commenti cattivi: "Nanne sctone chiù femmene" (non ce ne
sono più femmine) ma lui non se ne importava, mi diceva: "Non ti
preoccupare chiacchiereranno per un po’ poi si stancheranno e passeranno
ad altro" ma a me a volte mi davano fastidio, ci restavo male e così
ho cominciato a pensare che tutto sommato preferisco le mie avventurette
che durano poco ma almeno non
devo fingere di essere quella che non sono. È inutile io non sono una
donna normale, né mai lo potrò essere e poi che cos'è questa normalità?
È un cacamento di cazzo, io ne ho fin sopra i capelli della normalità.
La società è divisa tra maschi e femmine, tra normali e anormali. I
normali hanno anche loro la loro parte di anormalità ma la nascondono
dietro una maschera per difendere la loro rispettabilità, per difendere
una immagine di perfezione che si sono dati, io invece ammetto di essere
così, imperfetta, ma sono più vera. Perché infondo che cos'è la
normalità? La normalità non esiste. Noi ci siamo prefissi che ci sono le
categorie, quelle degli eterosessuali, che sono normali e poi ci sono le
distonie sessuali: i transessuali, gli omosessuali, le lesbiche. Io sto
bene con loro, con loro non devo fingere, non devo rispettare nessun
criterio di rispettabilità, sono libera. E poi anche gli eterosessuali
hanno la loro parte di maschile e femminile solo che non lo vogliono
ammettere. Io ho rifiutato di sposarmi perché non c'era, da parte mia,
nessuna passione, certo mi avrebbe garantito una normalità ma io non
voglio la vita di voi normali. Cosa mi sarebbe aspettato dopo? La vita dei
miei genitori con tutti i loro litigi, le loro ipocrisie. Ho l'esempio
delle mie sorelle: la prima più conformista, abito bianco, matrimonio
religioso ecc…La seconda più trasgressiva, non porta la fede, non si è
voluta sposare, non ha voluto fare figli, non vuole piantare altre croci.
Io preferisco la seconda. A me piacciono i ragazzi giovani, sposati o no
non importa, non voglio formalizzare la mia vita, mi va bene l'avventuretta.
Ho avuto un rapporto con un ragazzo sposato, non mi ha turbato più di
tanto. Di recente ho visto Salvatore con la nuova ragazza,
un'eterosessuale, non ci ho sofferto molto anzi ho pensato ma perché
prima ci ho sofferto tanto?, d'altra parte è meglio così, loro possono
circolare senza avere problemi dalla gente. E' meglio avere le
avventurette,ti danno molto di più perché l'avventura la trovi come la
vuoi tu, per sistemarsi (sposarsi) bisogna accontentarsi di persone che
hanno dai 40 anni in su. I coetanei sono una rottura di scatole, con
quelli molto più grandi è come uscire con il padre. A me piacciono i
giovani, ma non sono una pedofila, conosco la differenza. I giovani hanno
la pelle fresca. Noi donne, diciamo la verità, vogliamo il massimo e chi
celo dà il massimo, il marito no, l'avventura si. Nell'avventura non c'è
la routine, si prende e si dà quello che si ha, quello che si vuole.
Tutto diventa più facile e più bello, c'è il senso della libertà,
soffiano i venti della passione. Che importa se ha moglie o altre ragazze,
il mio futuro non lo voglio programmato. Questa è l'altra faccia di Rita,
quella che sta nel retrobottega. Ho avuto un'avventura con un ragazzo di
30 anni, sposato con figli, io raccomandavo a lui di trattare bene la
moglie, di portarla fuori, di farle dei regali perché una moglie ha
bisogno di avere delle chance. Va bene così io non posso permettermi di
avere una vita normale, è una trasgressione questa che non mi è
concessa, abbiamo visto con Salvatore come è andata a finire. Neanche la
vita religiosa era quella giusta per me, io se adesso trovassi quelle
monache che mi hanno respinto le ringrazierei come ringrazio Luca (Luca è
il ragazzo che la voleva sposare) Grazie a Luca ho capito che non sono
fatta per la vita matrimoniale. Sono una Trans" Io: "Una trans è tale nel momento di passaggio, tu adesso sei una
donna a tutti gli effetti" Rita: "No io sono sempre una trans, sono stata un ragazzo e questo
non lo posso cancellare tanto che quando conosco un ragazzo lo dico
subito, mi piace la chiarezza. Ricordi quando Salvatore scoprì che una
prostituta con cui era andato era un maschio come la riempì di botte?
Bene io allora pensai che non avrei mai nascosto la mia realtà, non ha
senso. Se l'altro vuole in me una femmina vera non la troverà, se cerca
un maschio non lo troverà, non c'è niente del ragazzo che ero io sono
questa: un trans. Una prostituta può mettere una pietra sul suo passato e
ricominciare daccapo, io no. E' inutile mettere una maschera che poi cade,
allora è meglio che mettosubito le cose in chiaro. Sono convinta di
essere una donna ma al novanta, novantacinque per cento, rimane però quel
cinque per cento scoperto che non so come coprire. Io ho il pomo d'Adamo,
ho le ginocchia sporgenti, voi donne ce l'avete meno sporgente, persino l'
ombelico è diverso. Anche il mio seno è diverso dal vostro è più
separato, vedi l'abito che porto? (prendisole) potevo portarlo senza
camicetta da sotto, col caldo che fa mi farebbe piacere, ma io non porto
mai abiti scollati perché penso che si veda la separazione dei seni. Per
l'avventura non devi essere perfetta, per il tuo ragazzo si. Non devi fare
questo, non devi fare quello, devi curarti, essere come piace a lui. Io
sono stanca di tutto ciò, voglio essere come sono, come mi va di essere.
L'avventura mi permette di essere me stessa. Forse si tratta di
insicurezza, di immaturità oppure di una giovinezza vissuta troppo in
fretta o meglio senza rendermene conto perché ho vissuto un percorso del
corpo tutto al maschile, non ho avuto un'adolescenza, una giovinezza da
femmina e quindi è come se volessi recuperare quel tempo. Questa è la
vita che voglio fare, è l'unica vita che posso fare".
NOTE (1)P.L.Berger, T.Luckman, La realtà come costruzione sociale, Bologna,
Il Mulino, pag.235. CONCLUSIONI. Per prima cosa, bisogna dire che in questo capitolo non c’è alcuna
conclusione definitiva né ce ne potrebbero essere. In un mondo in cui
niente è assoluto e definitivo ma tutto rappresenta una tappa in vista di
una prossima meta, una migliore comprensione di questa cosa complessa che
definiamo vita o realtà esistenziale, non ci sono né ci possono essere
conclusioni definitive. Ci saranno allora solo alcune considerazioni o
meglio riflessioni su quello che in genere viene definito un caso di
“marginalità”, sul modo di esporlo, trattarlo, comunicarlo. Le riflessioni non seguono un ordine gerarchico, seguono piuttosto un
dispiegarsi del pensiero. Ho scritto la storia di Rita, o meglio quel frammento della storia di
Rita che si è intersecata con la mia storia, senza soffermarmi troppo a
considerare se stavo o non stavo rispettando ad litteram un metodo
scientifico e questo per diversi motivi: 1)Sono convinta che non c’è un metodo Scientifico (con la S
maiuscola) di descrivere la realtà. In un mondo in cui le ultime
conquiste della scienza, in tutti i campi, mettono in crisi, modificano o
ribaltano le penultime conquiste scientifiche, come si può parlare di un
metodo scientifico con la S maiuscola, assoluto? D’altra parte Popper,
Kuhn e altri hanno illustrato meglio di me e prima di me questo concetto; 2)questo non vuol dire
cadere nello spontaneismo e nel pressappochismo. Sono convinta che è
necessario invece esplicitare il punto di vista attraverso cui si dà
lettura di una realtà per rendere più comprensibile non la realtà, che
nella sua oggettività è sfuggente inafferrabile, manifestandosi solo
nella soggettività, ma la lettura che della realtà si dà. Facendo un
esempio classico e forse scontato si può dire che nel fornire la foto di
un qualsiasi soggetto il fotografo (se il suo obiettivo è quello di
rendere il più comprensibile possibile tale soggetto fotografato)
dovrebbe esplicitare il più possibile la sua posizione nel fotografare
(se l’ha fotografato dall’alto, dal basso, in ombra, in luce ecc.) E
questo è quello che ho cercato di fare nella prima parte della tesi
quando ho parlato dei paradigmi teorici di riferimento, intendendo per
riferimento quel “punto facilmente riconoscibile dagli altri, per segni
o per altri dati, che serve a riconoscere un luogo per orientarsi e
sim."” (F. Palazzi, Novissimo dizionario della lingua italiana,
Ceschina, Milano 1939). L’esplicitazione di tali paradigmi teorici
quindi non è da intendersi come adottare in “toto” una metodologia ma
solo un “rifarsi” ad una metodologia. Quando ho scelto l’argomento
della tesi, ho fatto precedere la trattazione dell’argomento da un
periodo di riflessione per capire che cosa volevo dire e come lo volevo
dire nelle linee generali. (E’ chiaro che non sapevo a quali
considerazioni sarei approdata e ciò non mi dava insicurezza o ansia ma
al contrario mi stimolava). Ho scelto l’ambito della sociologia
qualitativa e l’approccio etnometodologico perché questo, fra i vari
approcci al tema della marginalità, mi è sembrato quello più
rispondente a ciò che volevo fare. Qualcuno può obiettare che questo è
poco scientifico e per certi versi si può anche concordare ma, e qui
ritorniamo al primo punto di questo discorso, che cos’è
“Scientifico”? Inoltre io qui non mi presento in veste scientifica,
l’ho pur detto nei primi capitoli, non mi sento una “Ricercatrice”
(con la R maiuscola), rivendico il mio statuto di studentessa, di
ricercatrice (con la r minuscola) e questo non per assumere una posizione
di “falsa modestia” (detesto la falsa modestia come detesto, con la
stessa intensità l’arroganza, la presunzione) ma per esplicitare dei
limiti che mi riconosco. Intendo il lavoro della tesi come uno spazio che l’Università dà
allo studente per dibattere un argomento alla luce di quanto si è
studiato, appreso, maturato, mediato con la propria realtà interiore. Un
componimento quindi che per certi versi è e deve essere originale.
Ritengo perciò che l'obiettivo non è constatare se lo studente ha capito
o non ha capito il discorso che porta avanti la sociologia qualitativa e
l’etnometodologia (nel caso specifico), questo l’università l’ha
accertato quando lo stesso ha fatto i vari esami sull’argomento, ma la
sua capacità di riflessione su un argomento dove il riferimento a
paradigmi teorici ha la funzione di favorire una maggiore comprensibilità
delle riflessioni esplicitate; 3)man mano che portavo i capitoli della tesi al mio relatore questi
rilevava che a volte non c’era una descrizione obiettiva ma che vi erano
espressi dei giudizi di valore di carattere personale. L’osservazione è
giusta e corretta. Sono fermamente convinta che qualsiasi osservazione si
faccia (e questo vale ancora di più quando osserviamo l’uomo e il suo
essere nel mondo) questa è sempre permeata di un giudizio di valore
(anche quando si sceglie di non esprimere nessun giudizio di valore, si
adotta un giudizio di valore) quindi tanto vale esprimerlo chiaramente, mi
sembra più corretto. Potevo ricorreggere la mia tesi, smussare le
posizioni contestate, dare una veste diversa ai contenuti ma devo
ammettere che, sapendo di non poter essere obiettiva come avrei voluto e
dovuto, se mi presentavo in tale veste, mi è sembrato più onesto ed
eticamente corretto far emergere chiaramente tali giudizi, in tal modo il
lettore ha la possibilità di orientarsi meglio. Quello che voglio dire
con questa lunga dissertazione è che all’interno di questo lavoro io
sono presente in veste di osservatore partecipante interno e che in quanto
tale sono molto coinvolta. L’essere “molto coinvolta” non mi
impedisce però di mettere in atto anche uno sforzo di distanziamento. In
quanto soggetto coinvolto ho preferito allora raccontare la storia di Rita
così come essa è stata vissuta da me, così come si è presentata nella
sua fattualità quotidiana, il che implica letture personali e giudizi di
valore perché io faccio parte di questa quotidianetà. In questo lavoro ho inteso mettere in evidenza “la produzione
dell’identità di genere” da parte di un soggetto che in quanto
“anomalo” (cioè non facente parte della “norma” intesa come media
statistica) sconvolge un ordine di senso. In questa prospettiva l'identità
di genere si definisce come un “fatto sociale”. Il fatto che una
persona sia maschio o femmina non equivale per nulla ad una nozione di per
sé evidente (e Rita ne è un esempio). E’ vero che c’è una base
biologica da cui non si può prescindere ma è vero anche che di fatto il
riconoscimento e la definizione di eventi collocabili nella sfera
biologica sono attività sociali, in quanto richiedono l’acquisizione di
atteggiamenti e competenze particolari. Essere “maschi” o
“femmine” equivale, in questa prospettiva ad essere considerati come
tali da coloro i quali si impegnano regolarmente, quotidianamente, a dare
una valutazione di tali condizioni sulla cui base intraprendono poi
determinati corsi di azioni, sia in riferimento a se stessi che agli
altri. Tutto parte da tale valutazione. L’identità di genere si
verifica quindi all’interno di un ordine sociale. Abbiamo visto che Rita
usa abiti prettamente femminili (escludendo anche qualsiasi indumento
unisex), che non alza mai la voce con gli altri né dice parolacce, che
assume sempre un atteggiamento umile e sottomesso, perché questi sono
tutti tratti caratteristici di un modello femminile. Un modello per la
verità che la contestazione femminista, i movimenti femminili hanno messo
in crisi, hanno criticato, rivendicando una parità che, per alcuni, può
andare in direzione di una omologazione con l’altro sesso. Spesso
infatti si sente dire: “Oggi non riesci più a distinguere un maschio da
una femmina”. Non a caso Rita scarta tenacemente questo modello perché
lei ha bisogno di essere riconosciuta come “femmina” dalla società e
non come essere umano pari al maschio. Lei ha un’altra parità da
conquistare, quella di “persona” al di là della specificità di
genere. Abbiamo visto l’imbarazzo dei medici quando si è trattato di
ricoverare Rita (nel reparto maschile o in quello femminile?). Imbarazzo
che ha colto anche i medici dell’équipe di Bari che ha eseguito
l’intervento altrimenti non avrebbero messo Rita prima dell’operazione
in una stanza singola e solo dopo l’operazione in una stanza con altre
donne con tanto di nome femminile scritto sulla cartella. (Eppure
anagraficamente, giuridicamente Rita non aveva cambiato ancora il nome, il
cambiamento del nome avverrà mesi dopo alla fine di un complesso iter
burocratico). La nozione di “genere” si presenta quindi come fatto
sociale. E’ vero che ognuno di noi non si preoccupa di stabilire
“biologicamente" se l’altro con cui si ha a che fare, è maschio
o femmina in quanto il suo aspetto decisivo è stabilito dal fatto che
esso determina alcuni modi
specifici di comportarsi, tuttavia tutti abbiamo un modo particolare di
considerare chi ci sta di fronte non appena si arriva alla conclusione che
l’”altro” è maschio o femmina o peggio è entrambi o nessuno dei
due.
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