Prefazione di Nicole Janigro:
A 70 anni dalla morte di Freud il
concetto di trauma, filo rosso della storia della psicoanalisi,
ritorna al centro del dibattito in un’accezione che estende il suo
campo semantico ma, insieme, amplifica le possibilità per il
soggetto di fare esperienze individuali e collettive di cura. La
teoria psicoanalitica riparte dal “modello traumatico” di Janet
mentre la pratica psicoanalitica si confronta con le forme attuali
dei man made disasters - un paesaggio che alterna modernità
e barbarie. La percezione di vulnerabilità dell’uomo
contemporaneo, tecnologicamente potente nella costruzione di
protezioni e protesi che differiscano il suo impatto con il mondo,
diventa estrema nell’esposizione alla “normale infelicità umana”
e ritrova la visione dei maestri, Freud e Jung: è la realtà
l’evento traumatico.
L’avvenire della psicoanalisi
rimane legato alle sue capacità ermeneutiche di accrescere ed
elaborare il confronto con il negativo (secondo recenti ricerche
nelle interazioni tra madre/neonato solo il 40% ha una valenza
positiva), sfidare gli effetti che produce sul singolo l’incontro
con la distruttività umana - l’appartenere a una specie
implicata in storie di male nell’espressione densa di Paul
Ricoeur.
Tra le due pulsioni, Eros e
Thanatos, può così prevalere la ricerca dell’incontro con l’altro:
è la situazione relazionale il sito in grado di creare e ricreare
l’umano, a permettere di trasformare il “corpo estraneo” in un
luogo di dolore (come scrive Masud Khan in Lo spazio privato
del sé). Il trauma non può essere condiviso, a subirlo si è da
soli, ma se muta in sofferenza, il dolore che sprigiona può essere
detto – e condiviso.
La storia del trauma accumula
significati, interseca le vicende della Grande Storia, viaggia tra
l’Europa e gli Stati Uniti, da ferita che segna e impregna – il
piercing che marca il corpo – a lacerazione generativa di nuovi
significati per l’esistenza: da una
reazione negativa (PTSD), o
neutrale (Resilience), a una positiva Adversity Activated
Development (AAD) . La ricerca di un modello clinico si è
storicamente appoggiata sul lavoro del lutto, ha considerato
cruciale l’esperienza dell’abuso, oggi riflette sulle affinità e
differenze tra violenza domestica e violenza bellica. L’analogia
della situazione sta nel potere che il carnefice possiede sulla
vittima, nel bisogno di empatizzare con il cattivo – il genitore,
il torturatore. In entrambi i casi il terapeuta attraversa zone di
ambiguità e di corresponsabilità – sempre il nemico è un altro
umano.
I contribuiti qui proposti non
temono di meticciarsi con linguaggi altri, di spostarsi dal piano
clinico a quello antropologico, etologico, biologico.
Il materiale copioso, stratificato
e meditato, è già un passo avanti nel processo di continuo
aggiornamento che permette di unire in una cornice di senso le
visioni del mondo interno con il mondo esterno, creare capacità e
possibilità di simbolizzazione.
Gli autori sono psicoanalisti, ma
anche operatori sul campo, critici letterari e scrittori:
testimoni, da un punto di vista diverso, di ciò che può essere
osservato dentro e fuori la stanza d’analisi. E se “ogni uomo è un
popolo”, la pratica clinica si autorizza a passare dal piano del
singolo a quello collettivo per affrontare, anche a partire dalle
autobiografie del terapeuta e della storia della sua esperienza,
case study che rappresentano la progressione storica delle
forme di annientamento e di sterminio del vecchio Novecento e del
nuovo secolo: Armenia, Shoah. Bosnia, Israele, Argentina,
Mediterraneo. Proprio dalle riflessioni emerse durante il convegno
internazionale “Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi
della memoria”, promosso dalla rivista Frenis Zero a Lecce
nell’aprile 2008, ha preso l’avvio questa raccolta di testi.
Infatti, il Mare Nostrum - “culla della civiltà” o bacino
vergognoso? – emblematicamente racchiude la disperazione del mondo
dei diseredati (e le patologie del “processo di denarcisizzazione”)
e quella del mondo degli eccessi narcisistici decadenti con le sue
patologie da ansia di vivere.
E’ il sentimento della vergogna
che caratterizza il nuovo tipo umano: la vergogna che il carnefice
non può provare, che misura l’allarme sociale, dà il segnale, si
trasforma in sintomo. La vergogna che protegge e pietrifica: un
concetto guida per affrontare il confine, la differenziazione tra
il privato e il pubblico nella consueta intimità/estraneità
dell’incontro terapeutico.
Il confine appare un altro
concetto nevralgico: confini naturali, cortine di ferro, barriere
inedite che vorrebbero dividere l’umanità globalizzata,
creolizzata: check point reali e metaforici. Dopo tragiche
violenze collettive diventa essenziale riuscire a ricreare una
distanza, separare i morti dai vivi, trovare un nuovo posto agli
oggetti, rievocare chi era vivo nei gesti delle sue mani. Ma il
rapporto con il confine dice anche le nostre modalità di
attaccamento ai luoghi, l’esistenza di una frontiera rende
evidente la loro importanza affettiva, denota la necessità di
localizzare – nella nostra mente-mondo. Perché, come il morto che
si è potuto seppellire, il “localizzato” può essere visitato,
ricordato, dunque rimosso, elaborato,… dimenticato.
Mentre è continua la mutazione
antropologica e sono incredibilmente accresciute le nostre
conoscenze sul funzionamento di mente-cervello, si è ormai
affermata l’idea della non unitarietà della psiche. Per
comprendere gli effetti che crea l’evento traumatico appaiono
ancora produttive le intuizioni (sviluppate nel 1933 in
Confusione delle lingue tra gli adulti e il bambino) di
Ferenczi sulla dissociazione: “questa sconnessione della
percezione che rende la persona del tutto indifesa”. “Menti
scisse” producono “lealtà scisse”: rompere il silenzio, violare
il segreto significa trasgredire all’ordine instaurato, ritrovare
la possibilità di rappresentazione e di parola. L’importante
esperienza di lavoro clinico con la terza generazione erede del
nazismo conferma il bisogno di tempi di elaborazione storicamente
lunghi – induce al confronto con le politiche dell’emergenza che
richiedono la risoluzione del trauma in tempo reale.
Il punto di vista
transgenerazionale racconta gli spostamenti della colpa, rende
palese la ricerca dell’analista nemico con il quale ripetere il
conflitto ebreo-tedesco, dell’analista confessore che assolve
mentre si fa sempre più complesso l’intreccio tra la Grande Storia
e la nevrosi familiare. La coppia analitica che osa entrare in
contatto con il “residuo radioattivo” della Shoah rimbalza nella
coppia analitica israeliana-palestinese – è quasi un’azione di
mediazione culturale quella che oggi terapeuti israeliani e
palestinesi cercano collaborando in gruppo. E la bussola è sempre
quella: la capacità dell’umano di empatizzare con un proprio
simile.
Ricordare
diventa così, prima ancora che un compito analitico e individuale,
un imperativo collettivo: in molti paesi il giorno della memoria
ha assunto uno statuto di rituale laico, una sorta di rito di
fondazione della contemporaneità che cerca di sfuggire al suo
disagio. Intanto, gradualmente ma progressivamente, il tempo della
seduta è scivolato dal passato al presente, il qui e ora della
partita segnata dal transfert e dal controtransfert. In questo
campo è il ricordo a far da “infiltrato”, l’angoscia che il
risvegliarlo produce è imparentata con quella che lo protegge.
La riflessione sulla memoria
è plurale: sull’uso pubblico della memoria, cruciale per la storia
delle identità nazionali e fondamentale per le vicende del
singolo; sulle molteplici valenze di cinema e memoria;
sull’acquisizione del concetto di memoria implicita, importante
per le modalità, non solo verbali, attraverso le quali può essere
richiamato il trauma.
Oggi, per la clinica, non esistono
più steccati tra la cura del trauma nel bambino, dell’adulto, nel
gruppo. Così come alla talking cure sono affiancate
metodiche diverse: l’uso delle arti, del disegno, della scrittura,
del diario, dell’Emdr, della Sandplay therapy. Per affrontare la
vista della realtà, perché la sofferenza si esprime anche
attraverso un disturbo dell’immagine, per riuscire a ricomporre la
storia personale fatta di realtà storica, narrativa, fenomenica e
psichica. Che nell’unicità dell’incontro con l’Altro ritrova la possibilità di una
rigenerazione.
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