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"L'Italia dei matti da slegare"

 di Sergio Luzzatto

 

 

Recensioni bibliografiche

 

  

 

 


La storia italiana vista dai manicomi: da Giolitti che li istituì nel 1904 per nascondere lo <<scandalo>> della follia, alla legge Basaglia (1978) che decrtò la non pericolosità sociale dei malati di mente

 

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  Foto: Franco Basaglia.

 

 

Rivista Frenis Zero

 

Questa recensione è apparsa sul supplemento domenicale (10 gennaio 2010) de "Il Sole 24 Ore".

    

   

Maitres à dispenser

 

IL LIBRO:

Valeria P. Babini, "Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento", Bologna, Il Mulino, pagg. 364, € 28,00.
 

 

 

 

 

Foto scattata nel 2008 da Marta Sarlo nell'O.P.G. di Aversa

 

                

   

 

 

 Agostino Gemelli fece tante cose nella vita. Prima di fondare, nella Milano del 1921, l'Università Cattolica del Sacro Cuore, il frate francescano era stato un militante socialista di belle speranze, pupillo di Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Ed era stato un promettente laureato in medicina, allievo a Pavia dell'istologo Camillo Golgi, il futuro premio Nobel.  Dopodiché, durante la Prima guerra mondiale, padre Gemelli si era fatto - da ufficiale medico della Sanità militare - alfiere della crociata antiteutonica. Distaccato presso il Comando supremo di Udine, aveva percorso le retrovie del fronte con la divisa sopra la tonaca, benedicendo e comunicando in massa i soldati del Carso. Da psicologo sperimentale, aveva inoltre messo in piedi un Gabinetto per le ricerche psicofisiologiche sull'aviazione, lavorando alla selezione attitudinale dei nostri primi piloti di guerra.

 

  Foto: Agostino Gemelli

Pioniere italiano della medicina aeronautica, padre Gemelli fu anche un antesignano della "psicologia militare", come suonava il sottotitolo di un suo libro del 1917. Riconobbe nel fronte un ospedale a cielo aperto, dove a psicologi e psichiatri era dato di compiere un'esperienza clinica eccezionale. Perché nella bolgia delle trincee, tra il fragore degli obici e nella poltiglia dei morti, poteva capitare a chiunque di perdere il senno: non occorrevano chissà quali tare, congenite o ereditarie. Diffuse tra gli ufficiali almeno altrettanto che fra i soldati, le nevrosi di guerra obbligavano la scienza medica a ripensare dalle fondamenta il problema del disagio psichico.

Fuori d'Italia, la Grande Guerra segnò effettivamente una svolta nella storia della follia. Lo spettacolo di tanti uomini "normali" resi alienati dalle trincee spinse i medici ad accreditare l'ipotesi di un'origine psichica del disturbo mentale. Quanto l'alienistica ottocentesca si era ostinata a imputare all'uno o all'altro difetto visibile nella costituzione dei corpi, la psichiatria novecentesca cercava ormai di spiegare con le invisibili dinamiche della mente. Ma in Italia, il trauma della Prima guerra mondiale non bastò a inficiare un radicatissimo, lombrosiano pregiudizio organicista. Nei manicomi, il disturbo mentale continuò a essere trattato come fatto costituzionale piuttosto che psicogenetico. Nelle cliniche universitarie, i neurologi restarono assolutamente egemoni rispetto agli psichiatri. E la qualità stessa della ricerca medica italiana negli anni Venti e Trenta, almeno in settori come la biochimica e l'endocrinologia, ritardò i progressi di un approccio nuovo alla malattia mentale. Fare storia degli psichiatri e dei manicomi è un modo per fare storia tout court. Lo dimostra felicemente un volume di Valeria Babini che il Mulino manda ora in libreria, Liberi tutti. Seguendo nei decenni l'evolversi delle teorie psichiatriche e delle pratiche manicomiali si ritrovano infatti, una dopo l'altra, le diverse Italie del ventesimo secolo. Dapprima l'«Italietta» giolittiana, tanto ansiosa di difendersi dal «pubblico scandalo» dei malati di mente da investire i direttori dei manicomi, con una legge del 1904, del ruolo di onnipotenti guardiani della follia. Poi l'Italia fascista, dove la riforma Gentile decretò ufficialmente la riduzione del sapere psichiatrico a una branca del sapere neurologico. Quindi l'Italia democristiana, con le sue prime, prudenti aperture verso la psicoterapia e la psicanalisi. Infine l'Italia del Sessantotto e dintorni, dove la spinta dei "movimenti" produsse una critica integrale dell'istituzione manicomiale: sino alla cosiddetta «legge Basaglia» del 1978, che smantellò il principio stesso della pericolosità sociale dei malati di mente.
È una storia singolare, quella della via italiana alla psichiatria moderna. Storia fatta di gravi ritardi, per la forza di tutta una tradizione organicistica e biologistica, ma anche di notevoli accelerazioni, per l'originalità di certe scoperte scientifiche e di certe esperienze cliniche. Storia fatta pure di serendipity, di trovate inattese. Come quando, nell'Italia "autarchica" del 1938, l'esigenza di risparmiare sulle terapie somatiche più costose promosse l'invenzione, per opera di Ugo Cerletti, di una cura d'urto tanto impressionante quanto economica, e all'apparenza così efficace da fare scuola nel mondo intero: l'elettroshock. Storia anche drammatica, e non soltanto per le decine di migliaia di pazienti imprigionati nelle camicie di forza o attraversati dalla corrente a 120 volt. Nel 1938, l'anno stesso in cui la psichiatria italiana si segnalava al mondo per la tecnica dell'elettroshock, le leggi razziali condannavano al prepensionamento o all'esilio il fior fiore della nostra scienza psichiatrica e psicanalitica: medici di "razza ebraica" come Levi Bianchini, Modena, Weiss, Artom, Servadio, Arieti, Musatti, e altri ancora.
Dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale sarebbe toccato proprio a Cerletti – l'inventore dell'elettroshock – di indicare per primo, nel 1949, la via di una riforma radicale dell'assistenza manicomiale, e di farlo sulla base di un paragone choccante: i manicomi erano come i lager. Lungi dal curare il disagio psichico, la privazione della libertà non poteva che aumentarlo. Da qui, cioè dalla ripulsione per ogni universo concentrazionario, lo sviluppo di teorie psichiatriche che si fecero strada anche in Italia durante gli anni Cinquanta. L'assistenza mentale doveva compiersi sul territorio prima che in manicomio, e doveva compiersi oltre il manicomio: da un lato, prevenendo nei malati l'aggravamento dei sintomi; dall'altro lato, favorendo una reinserzione sociale dei pazienti dimessi.

Tutto ciò sarebbe stato impensabile senza l'avvento degli psicofarmaci, che appunto nel corso degli anni Cinquanta trasformarono profondamente il paesaggio manicomiale: rendendo docili i pazienti agitati, e creando dunque le condizioni sia per un progressivo abbandono delle pratiche coercitive, sia per l'instaurazione di un dialogo fra medici e pazienti. Fuori dai manicomi, una realtà d'avanguardia fu quella della Cattolica di Milano, dove all'Istituto di Psicologia dell'ormai anziano padre Gemelli approdò come assistente un giovane medico d'eccezione, Pier Francesco Galli: l'antesignano della psicoterapia in Italia, oltreché lo sdoganatore culturale della psicanalisi. Ma anche altrove, da Varese a Bologna, da Padova a Firenze, da Genova a Perugia, molto si discuteva allora di "politica di settore", formazione degli infermieri e degli assistenti sociali, lavoro d'équipe, presidi extraospedalieri. Insomma, il trattamento della malattia mentale veniva finalmente concepito nella prospettiva di un'apertura dell'universo manicomiale: da frati di clausura, si diceva, gli psichiatri dovevano trasformarsi in frati zoccolanti...

  Foto: Pier Francesco Galli
Soltanto se collocata su tale sfondo, la "rivoluzione" di Franco Basaglia – la negazione di ogni funzione clinica dell'ospedale psichiatrico, e la lotta per la sua distruzione istituzionale – acquista un significato storicamente plausibile: non l'alzata d'ingegno di un singolo medico, visionario o velleitario, geniale o maledetto, ma l'interpretazione estremizzata di un movimento collettivo. A Gorizia dal 1961, a Trieste dal '71, l'ex neurologo universitario deriso dai colleghi come "filosofo" scelse di abbattere le inferriate, aprire i reparti maschili e femminili, togliere i camici a medici e infermieri, coinvolgere i malati nella gestione quotidiana del manicomio. Soprattutto, scelse di annullare la verticalità del rapporto medico-paziente, in una comunità terapeutica orizzontale dove si parlava, si viveva, si decideva in gruppo. Dove addirittura si volava in gruppo: come nella sorprendente, straordinaria "festa del volo" organizzata da Basaglia nel '75, una gita aerea di pazienti triestini su un DC9 imprestato dall'Alitalia. Quasi una risposta simbolica al padre Gemelli della Grande Guerra, come a dire: non tutti hanno le doti per essere piloti d'aeroplano, ma tutti hanno il diritto di essere passeggeri.
La storia successiva è più nota della precedente, così che non serve rievocarla qui: è la storia di un'anti-psichiatria che nell'Italia dei "movimenti" arrivò a coinvolgere l'opinione pubblica sino a farsi cultura diffusa, e che nel 1978 sboccò sull'approvazione, a stragrande maggioranza parlamentare, della legge 180, la famosa «legge Basaglia». Una normativa di cui oggi – trent'anni dopo – si vedono tutti i limiti, nella misura in cui la decisione di chiudere i manicomi non venne sostenuta da politiche adeguate di accompagnamento terapeutico sul territorio. Ma una normativa che le società odierne, minacciate dalla crescita del disagio psichico, possono riconoscere tanto più corretta nella sua filosofia di fondo: perché in quanto individuo esposto all'umana sofferenza, ognuno di noi può diventare "matto" da un momento all'altro.