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"L'Italia dei matti da slegare" di Sergio Luzzatto |
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Novità - News |
Foto:
Franco Basaglia.
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Rivista Frenis Zero
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Maitres
à dispenser
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IL LIBRO:
Valeria P. Babini, "Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una
storia del Novecento", Bologna, Il Mulino, pagg. 364, € 28,00. | ||||
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Foto scattata nel 2008 da Marta Sarlo nell'O.P.G. di Aversa
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Agostino Gemelli fece tante cose nella vita. Prima di fondare, nella Milano del 1921, l'Università Cattolica del Sacro Cuore, il frate francescano era stato un militante socialista di belle speranze, pupillo di Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Ed era stato un promettente laureato in medicina, allievo a Pavia dell'istologo Camillo Golgi, il futuro premio Nobel. Dopodiché, durante la Prima guerra mondiale, padre Gemelli si era fatto - da ufficiale medico della Sanità militare - alfiere della crociata antiteutonica. Distaccato presso il Comando supremo di Udine, aveva percorso le retrovie del fronte con la divisa sopra la tonaca, benedicendo e comunicando in massa i soldati del Carso. Da psicologo sperimentale, aveva inoltre messo in piedi un Gabinetto per le ricerche psicofisiologiche sull'aviazione, lavorando alla selezione attitudinale dei nostri primi piloti di guerra.
Pioniere italiano della medicina aeronautica, padre Gemelli fu anche un antesignano della "psicologia militare", come suonava il sottotitolo di un suo libro del 1917. Riconobbe nel fronte un ospedale a cielo aperto, dove a psicologi e psichiatri era dato di compiere un'esperienza clinica eccezionale. Perché nella bolgia delle trincee, tra il fragore degli obici e nella poltiglia dei morti, poteva capitare a chiunque di perdere il senno: non occorrevano chissà quali tare, congenite o ereditarie. Diffuse tra gli ufficiali almeno altrettanto che fra i soldati, le nevrosi di guerra obbligavano la scienza medica a ripensare dalle fondamenta il problema del disagio psichico.
Fuori d'Italia, la Grande Guerra segnò
effettivamente una svolta nella storia della follia. Lo spettacolo di tanti
uomini "normali" resi alienati dalle trincee spinse i medici ad accreditare
l'ipotesi di un'origine psichica del disturbo mentale. Quanto l'alienistica
ottocentesca si era ostinata a imputare all'uno o all'altro difetto visibile
nella costituzione dei corpi, la psichiatria novecentesca cercava ormai di
spiegare con le invisibili dinamiche della mente. Ma in Italia, il trauma
della Prima guerra mondiale non
bastò a inficiare un radicatissimo, lombrosiano pregiudizio organicista. Nei
manicomi, il disturbo mentale continuò a essere trattato come fatto
costituzionale piuttosto che psicogenetico. Nelle cliniche universitarie, i
neurologi restarono assolutamente egemoni rispetto agli psichiatri. E la
qualità stessa della ricerca medica italiana negli anni Venti e Trenta,
almeno in settori come la biochimica e l'endocrinologia, ritardò i progressi
di un approccio nuovo alla malattia mentale. Fare storia degli psichiatri e
dei manicomi è un modo per fare storia tout court. Lo dimostra felicemente
un volume di Valeria Babini che il Mulino manda ora in libreria, Liberi
tutti. Seguendo nei decenni l'evolversi delle teorie psichiatriche e delle
pratiche manicomiali si ritrovano infatti, una dopo l'altra, le diverse
Italie del ventesimo secolo. Dapprima l'«Italietta» giolittiana, tanto
ansiosa di difendersi dal «pubblico scandalo» dei malati di mente da
investire i direttori dei manicomi, con una legge del 1904, del ruolo di
onnipotenti guardiani della follia. Poi l'Italia fascista, dove la riforma
Gentile decretò ufficialmente la riduzione del sapere psichiatrico a una
branca del sapere neurologico. Quindi l'Italia democristiana, con le sue
prime, prudenti aperture verso la psicoterapia e la psicanalisi. Infine
l'Italia del Sessantotto e dintorni, dove la spinta dei "movimenti" produsse
una critica integrale dell'istituzione manicomiale: sino alla cosiddetta
«legge Basaglia» del 1978, che smantellò il principio stesso della
pericolosità sociale dei malati di mente. Tutto ciò sarebbe stato impensabile senza l'avvento degli psicofarmaci, che appunto nel corso degli anni Cinquanta trasformarono profondamente il paesaggio manicomiale: rendendo docili i pazienti agitati, e creando dunque le condizioni sia per un progressivo abbandono delle pratiche coercitive, sia per l'instaurazione di un dialogo fra medici e pazienti. Fuori dai manicomi, una realtà d'avanguardia fu quella della Cattolica di Milano, dove all'Istituto di Psicologia dell'ormai anziano padre Gemelli approdò come assistente un giovane medico d'eccezione, Pier Francesco Galli: l'antesignano della psicoterapia in Italia, oltreché lo sdoganatore culturale della psicanalisi. Ma anche altrove, da Varese a Bologna, da Padova a Firenze, da Genova a Perugia, molto si discuteva allora di "politica di settore", formazione degli infermieri e degli assistenti sociali, lavoro d'équipe, presidi extraospedalieri. Insomma, il trattamento della malattia mentale veniva finalmente concepito nella prospettiva di un'apertura dell'universo manicomiale: da frati di clausura, si diceva, gli psichiatri dovevano trasformarsi in frati zoccolanti...
Foto: Pier Francesco Galli
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