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Krònos e kairòs: il tempo del cambiamento

in psicoanalisi

 


 

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 Lettura de "Il momento presente" di Daniel Stern (Cortina, 2006) di Daniela Maggioni.

Novità - News

 

 Questa lettura del libro di Daniel Stern da parte di Daniela Maggioni è uscita su "Setting" n. 20 . Si ringrazia sentitamente, oltre all'autrice della lettura, la direzione editoriale della rivista per la gentile disponibilità alla sua riproduzione all'interno della rubrica delle recensioni del sito web dell'A.S.S.E.Psi., nonché all'interno della rivista telematica "Frenis Zero".

 

 

 

Rivista Frenis Zero

 

Daniela Maggioni è psicologa e psicoanalista, è Presidente A.S.P. (Associazione di Studi Psicoanalitici) di Milano, membro dell’International Federation of Psychoanalytic Societies (I.F.P.S.), Segretaria Scientifica della rivista “Setting”, Docente alla Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica (SPP) di Milano e Torino, di “Valutazione dell’Intervento Psicoterapico” alla Scuola di specializzazione in Psicologia del Corso di Vita della Facoltà di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca, supervisore di équipes psichiatriche e psico-sociali e conduttrice di numerosi cicli di Seminari e Corsi di formazione per Psicologi, Psicoterapeuti, èquipes territoriali (CPS e Comunità).

Principali ambiti di interesse e ricerca:psicoterapia borderline e schizofrenia, ricerca empirica sul processo, modelli e ricerche sulla rappresentazione, teoria del processo, psicoanalisi e neuroscienze. Attualmente lavora con il gruppo di ricerca KAIROS, da lei coordinato,utilizzando gli strumenti proposti dal Boston Process of Change Study Group, guidato da Daniel Stern, per l’analisi delle sedute e del processo di cambiamento al micro-livello degli scambi paziente-terapeuta.

 

 

 

    

   

Maitres à dispenser

 

 
 

 

Quando è “adesso”? Che cosa è ’“adesso”? L’“adesso” esiste? E, se esiste, quanto dura? come è strutturato? che cosa fa? in che relazione è con la coscienza, con il passato? come porta ai significati? perché occupa un posto così particolare nella psicoterapia? E come viene vissuto l’“adesso” quando viene co-creato e condiviso con qualcun altro? Infine: che ruolo gioca l’”adesso” nel cambiamento? In breve: quale concetto abbiamo di “present moment”?

E’ ciò di cui siamo consapevoli, è l’unico spazio temporale vissuto soggettivamente, veramente e solo “nostro”, è ciò che sta accadendo (nello spazio, nel pensiero, nella realtà, nella fantasia) solo se lo viviamo in presa diretta. Eppure, non ne sappiamo molto, non gli dedichiamo né nelle nostre riflessioni personali né in sede scientifica un posto definito; e persino in psicoterapia ci mostriamo più soggetti alle considerazioni sul passato e sul futuro del paziente e del processo che non al presente condiviso e creativo della seduta, che pure è l’unica nostra dimensione temporale “vera”.

 

Non stiamo ri-echeggiando S. Agostino o Bergson, ma leggendo l’ultimo libro di Daniel Stern, “The present moment in psychotherapy and everyday life”, tradotto recentemente in italiano (Raffaello Cortina, 2005), che dedica all’istante presente considerazioni interessanti, sin dall’inizio intrecciando le due prospettive: quella della vita quotidiana e quella della psicoterapia.

Nella prima prospettiva risalta la densità del “now”: “gli eventi nodali che cambiano la vita di una persona di solito si verificano in un momento vissuto come momento chiave già mentre sta accadendo”, nella seconda Stern ci ricorda che la maggior parte delle psicoterapie concordano circa il fatto che il lavoro terapeutico nell’“hic et nunc” ha il peso maggiore nel cambiamento, che avviene “dove e quando il contatto consapevole reciproco tra le menti del terapeuta e del paziente ha luogo”.

Non sfuggirà, sin da qui, che il linguaggio piano e quasi quotidiano di Stern veicola implicitamente asserzioni non così piane e condivise: per esempio, quella relativa alla causalità diretta tra lavoro nell’”hic et nunc” e cambiamento in psicoterapia e la definizione di tale lavoro in termini di contatto “reciproco” e “consapevole” di due menti.

Questa importante opera di Stern va infatti attentamente riletta, per non ricavarne l’impressione solo di un’esposizione ricca e suggestiva, frutto e segno di una sensibilità clinica e culturale ampiamente condivisa e niente più. A mio parere, come spero di riuscire a dimostrare, molte affermazioni e prospettive in essa enunciate (e le loro implicazioni teoriche e cliniche) potrebbero essere considerate davvero rivoluzionarie, anche se non sempre così solidamente fondate da suscitare l’entusiasmo che questo autore suscita da sempre anche in alcuni degli psicoanalisti più affezionati alla metapsicologia freudiana, al modello pulsionale ed alla centralità dell’interpretazione nel processo clinico.

Soffermiamoci dunque sul “now”, tenendo a mente quanto Stern afferma in apertura: che il suo libro colloca il momento presente al centro del palcoscenico e ce lo tiene lì, rendendo la visione del processo e del cambiamento psicoterapico differente; che una considerazione attenta del “now” cambierà anche il modo di condurre la psicoterapia, ed arricchirà la nostra visione dell’esperienza quotidiana; che questi sono gli obiettivi dell’opera.

Qui introduco una prima considerazione: il sempre maggior avvicinamento tra vita quotidiana ed esperienza psicoanalitica sembra una costante degli scritti più recenti di molti autori, non solo d’oltre Oceano, e potrebbe essere sostenuta da diverse motivazioni, tra le quali:

-            una diffusa “sensibilità” culturale, che desacralizza e de-ritualizza il setting e la teoria delle psicoterapie psicodinamiche;

-            un altrettanto diffuso tono apparentemente “colloquiale” di testi specialistici, forse anche per raggiungere un pubblico più vasto, per assegnare loro una funzione anche divulgativa;

-            una attenzione “politica” a non dichiarare intenti teorici rivoluzionari o ad esplicitare la comunità scientifica –soprattutto psicoanalitica- come interlocutore privilegiato;[1]

-            in questo specifico caso, il voler sin dall’inizio fondare la concettualizzazione del processo terapeutico su quella dello sviluppo dell’essere umano e della vita quotidiana, alla luce dei recenti contributi delle Neuroscienze e dell’Infant research, abolendo anche il semplice sospetto di poter distinguere rigidamente tra psicopatologia e “normalità”, tra terapie espressive e supportive, tra psicoterapie interpretative e di “correzione emotivo-cognitiva”, e collocandosi così nel sempre più ampio alveo dell’integrazione in atto tra orientamenti, fondamenti e tecniche molto diversi tra loro.

Le pagine che Stern dedica al “now moment” sono di rassicurante bellezza: la maestria con la quale egli ne tratteggia l’importanza nella nostra vita e nella clinica ricordano la sua vocazione da coreografo e musicista, che forse l’ha guidato anche nello studio momento per momento delle interazioni tra neonato e caregiver, delle quali gli siamo debitori[2]. L’amore, l’incontro che cambia una vita, il gioco imprevisto in una piazza con uno sconosciuto, ma anche i gesti quotidiani ai quali non prestiamo attenzione sono descritti nel loro istantaneo “farsi” carico di conseguenze: dopo quel “now” che non possiamo cogliere con la riflessione ma che ci ha trasformato profondamente, nulla sarà più uguale a prima.

Stern afferma che è più facile per noi riconoscere e usare il tempo lineare, cronologico (krònos), mentre ci sembra impossibile immettere nelle nostre comunicazioni e trattazioni il tempo soggettivo, l’esperienze in diretta e “dal dentro”, l’unica che esiste perché sta accadendo adesso proprio a noi. Senza questo tempo soggettivo – afferma Stern- noi non potremmo in realtà mai collegare le sequenze di molti accadimenti che si verificano durante un “present moment” in una esperienza complessiva dotata di coerenza: la vita sarebbe discontinua e caotica anche nella dimensione temporale limitata del presente. E la sensazione di coerenza del nostro Sé, aggiungerei, non ci accompagnerebbe; e lo stesso racconto al terapeuta del nostro passato si ridurrebbe a cronaca impersonale, o forse delirio, frammentazione di concreti “fatti” con il cui substrato esistenziale nessun analista potrebbe nemmeno provvisoriamente identificarsi.

Questa dimensione di krònos degli antichi greci avrebbe preso il sopravvento nelle scienze naturali e negli appuntamenti della vita quotidiana come nelle varie psicoterapie: l’istante presente è diventato un punto in movimento nel tempo teso solo verso il futuro, lungo una linea retta o un cerchio o una spirale, ma sempre e comunque in movimento: “consuma il futuro e lascia il passato dietro di sé” e- conclude Stern-  in questa dimensione non c’è il presente.

Per fortuna, l’uomo può ridare “libertà” e vita al tempo vissuto creando e ri-creando –nel racconto come nella stanza d’analisi- l’ordine cronologico degli eventi senza assoggettarsi alle sequenze dei “fatti”.

Nel tempo narrativo, l’Io narrante crea l’ordine degli eventi narrati, selezionando gli episodi ed apponendo loro il sigillo temporale del prima, del dopo, dell’ancora, ed eseguendo quindi un “montaggio” che rende il racconto coerente con la vita –cioè la storia- che il soggetto degli episodi vi ha incontrato: “in questo modo, le narrative ci restituiscono i sentimenti di continuità della vita… non usano krònos … e ci fanno sentire coerenti lungo questa dimensione infinita”. Tuttavia, l’”adesso” non ha un posto adeguato in una storia narrata, perché in quanto raccontato è già avvenuto, non è un’esperienza diretta, ma è piuttosto il suo racconto. Sembra non esserci un modo di “imbrigliare” il “now”, di assegnargli una durata e quindi di riempirlo di esperienza diretta. Forse non resta che la dimensione di etero-cronicità di alcuni stati meditativi, “in cui il tempo non si muove ma fluisce dall’esistenza in un omogeneo, continuo adesso”?

Il laico e scienziato Stern rifugge da questa risposta, e prova ad interrogare il tempo psichico freudiano, nella sua complessità e nella sua pienezza di esperienza vissuta. Per concludere che anch’esso non tiene conto della successione lineare, cambia la velocità dei passaggi e ritorna indietro e va in avanti su se stesso – è cioè un tempo frammentato, come ha detto A.Green (2002).

Il tempo freudiano, come quello della narrazione, non considera l”adesso” in se stesso, come processo temporale in movimento nel corso del quale microscopici e significativi fatti nuovi accadono, ma piuttosto come punto di “ripristino” del passato o di “progettazione” del futuro.

Stern invoca allora il passaggio alla concezione soggettiva del tempo dei greci, espressa dal termine kairòs, che definisce come il momento in svolgimento in cui qualcosa succede, accompagnato dalla consapevolezza del soggetto. Questo tempo è contrassegnato da novità, precisi confini e ritmi di svolgimento; trascende il tempo lineare eppure contiene un passato: nel kaipòs (opportunità, occasione propizia, momento opportuno, istante decisivo – così ci hanno insegnato in Ginnasio a tradurre questo termine) noi ci ritagliamo una parentesi soggettiva nel fluire inesorabile di krònos, rispondiamo alla tirannia deterministica degli eventi con una decisione immediata, personale, indilazionabile e non calcolata.[3].

In seduta, come i brani di trascrizioni di sedute nella seconda parte del libro illustrano, il kairòs è un present moment che potenzialmente può risolvere la crisi creatasi in un now moment. Come verrà sinteticamente detto nel ricco ed utilissimo“Glossario” che completa il volume, si tratta di un moment of meeting, concettualizzato da Stern e dai suoi collaboratori come proprietà emergente dal micro-contesto del now moment, dai cui vincoli dipende.  Il moment of meeting prevede, da parte dell’analista, una risposta specifica: non può consistere in una generica per quanto codificata risposta tecnica, ma deve portare la firma personale, per così dire, del terapeuta. Tale risposta, carica di affettività, viene sentita profondamente da entrambi i partner, nella sua specificità, in quel preciso “momento intersoggettivo”, come alterazione dello stato relazionale precedente e –si badi bene- non richiede la verbalizzazione per essere efficace e durevole.

Ecco l’intento clinico e non solo culturale e teorico de “Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana” (questo è il titolo completo): Stern vuole mostrare “perché tutti i present moment sono anche momenti di kairòs indipendentemente dalla loro grandezza” ed “esplorare il present moment come approccio psicologico per capire l’esperienza del kairòs”.

Ma che cos’è un now moment?

Rileggiamo al riguardo alcuni passi del già citato articolo del 1998[4]:

Nella nostra teorizzazione, i “now moments” sono un tipo particolare di “present moment”: quello che viene a trovarsi illuminato dalla soggettività e dall’affettività, portando un moment a realizzarsi pienamente nel presente. [Abbiamo ripreso il termine “now moment” da Walter Freeman.] Essi assumono questa qualità soggettiva perché la configurazione abituale - l’ambiente intersoggettivo noto, familiare della relazione tra terapeuta e paziente - è stata tutt’a un tratto mutata o corre il rischio di subire un mutamento. Lo stato attuale della “relazione comune implicita” viene fatto uscire allo scoperto. Questa potenziale breccia nelle procedure prestabilite succede in vari momenti; non deve per forza minacciare l’assetto della terapia in atto, ma richiede una risposta troppo specifica e personale per essere una manovra tecnica già nota.

I “now moments” non sono parte dell’insieme di “present moments” caratteristici che costituiscono la modalità abituale di stare insieme e di andare avanti. Essi richiedono un’intensificazione di attenzione ed una certa scelta circa il rimanere o meno nella configurazione abituale prestabilita. E se si sceglie di non rimanervi? In questo caso, il terapeuta è costretto ad un qualche tipo di “azione”, interpretazione o risposta inedita rispetto alla struttura abituale o silenzio che sia.

 (…) Possono verificarsi dei “now moments” quando la cornice terapeutica tradizionale rischia di essere o è o potrebbe essere rotta.

(…) Concettualmente, i “now moments” sono la soglia di una proprietà emergente dell’interazione: esattamente, del “moment of meeting”.

I ”now moments” più intriganti nascono quando il paziente fa qualcosa che è difficile da inquadrare, qualcosa che richiede un diverso e nuovo tipo di risposta, con un marchio “personalizzato” che riesca a far arrivare al paziente lo stato affettivo soggettivo dell’analista (affetto, fantasia, esperienza concreta, ecc.). Se ciò avviene, i due entreranno in un vero e proprio “momento di incontro”, durante il quale un contatto intersoggettivo di tipo inedito verrà probabilmente a stabilirsi tra loro: sarà nuovo nel senso che viene a crearsi un mutamento nella “relazione comune implicita” (cit., pp.916-7).

Ora Stern precisa, anche nel “Glossario”: il present moment è l’arco di tempo in cui i processi psicologici si raggruppano, partendo da unità di percezione molto piccole, in una gestalt globale più vasta, che ha senso nel contesto di una specifica relazione; dura da 1 a 10 secondi con una media intorno ai 3/4 secondi e soggettivamente viene sperimentato come un now ininterrotto. Il present moment è strutturato come una microstoria con un canovaccio minimo, scandito da “affetti vitali”[6].  Stern insiste sul fatto che si tratta di un fenomeno conscio, ma non necessariamente conscio in senso riflessivo, verbalizzato o narrato e che esso costituisce “la prima pietra” delle esperienze di relazione, precedente le generalizzazioni, gli script, i RIGs, ecc.: si tratta di un’esperienza di base, diretta, “vergine”, ineliminabile.

Il now moment è un present moment che sorge all’improvviso come proprietà emergente del processo psicoterapico, che cerca di rompere la cornice nota o le “regole” abituali, esplicite ed implicite, con le quali paziente e analista lavorano e stanno insieme; la crisi necessita di soluzione, sotto forma di un moment of meeting o di un’interpretazione.

 Tre mi paiono le innovazioni degne di considerazione, ai fini della visione del cambiamento terapeutico:

1)        la decisa inscrizione del present moment all’area conscia anche se non simbolico-verbale;

2)        l’individuazione del now moment, anch’esso conscio o comunque non inconscio in senso freudiano,  come momento di crisi dell’assetto relazionale della coppia al lavoro inevitabilmente;

3)        l’omologazione, che non è così chiara nel corso dell’esposizione di Stern, tra moment of meeting e punto di innesco del cambiamento terapeutico (con conseguente svalutazione del primato dell’interpretazione).

Il lettore potrà rendersi conto delle possibili implicazioni, quali: dove si colloca, in questa prospettiva, il lavoro sulla resistenza? c’è posto per l’inconscio dinamico, per transfert e controtrasfert?

Del resto, nella parte centrale e finale del libro l’autore più dichiaratamente formula la sua teoria del processo di cambiamento, alla quale la scelta di “assolutizzazione” del momento presente inevitabilmente conduce. Non si tratta, come egli stesso ricorda, di una scelta del tutto nuova: le teorie esistenzialistiche e della Gestalt e, in sede filosofica, la fenomenologia ne sono i precursori. Quest’ultima viene dichiarata come fondamento, in una accezione che peraltro mi sembra un po’ generica, cioè come “lo studio delle cose così come appaiono alla coscienza, così come sembrano quando sono nella nostra mente”: percezioni, sensazioni, sentimenti, ricordi, sogni, fantasie, aspettative, idee non per quanto riguarda la loro origine, il loro fondamento o la loro corrispondenza con la realtà esterna, ma solo così come si presentano alla nostra esperienza.

Si comprenderà la relativa facilità con la quale Stern “liquida” la superiorità del present moment rispetto alla simbolizzazione ed al linguaggio: esso, mentre viene vissuto, non può essere colto dal linguaggio che lo (ri)costruisce solo dopo che si è realizzato, e quindi non è attingibile nella sua originarietà da nessuna forma di conoscenza “scientifica” e verbale. Bisognerà dunque indagarne la natura, la struttura, la “voce”, al di là del linguaggio e dell’interpretazione oggettivante o, meglio, metterle in scena. Non uso a caso quest’espressione, perché la cornice delle esemplificazioni e delle concettualizzazioni, anche cliniche, è spesso di tipo scenico, cioè “filmico” o musicale, come si conviene non solo allo stile comunicativo di Stern, ma anche ad un campo così istantaneo, fugace e nello stesso tempo denso di significato, esperienza soggettiva ed interattiva quale il “now”, in psicoterapia e nella vita quotidiana, sempre più decisamente risulta essere.

Basti pensare alla “breakfast interview”, ora chiamata “intervista micro-analitica”, che egli descrive come “strumento per identificare i present moment e gli eventi affettivi che si verificano durante questi”, per arrivare ad “una registrazione molto simile ad una sinfonia musicale”, in cui le continuità e le discontinuità vengono suddivise in episodi di consapevolezza, costituiti da uno o più present moment delimitati da un cambiamento di luogo, di tempo, di personaggi, di azione o da un cambiamento nella narrativa.

L’accentazione è decisamente posta sul piano della coscienza, e sulla certezza che ogni episodio, indifferentemente ed indipendentemente dalla sua banalità, è ugualmente “degno” di essere preso in considerazione: in un film o in una seduta.

Fin qui, “il mondo in un granello di sabbia” di Keats assorbe tutta la nostra interessata attenzione, ed un’esistenza impercettibilmente in divenire sembra allontanarsi dalla prospettiva clinica tradizionale del passato da ricordare, ripetere, rielaborare e dalla nostra necessità di lunghe fasi e di più livelli di esplorazione del materiale offerto dal paziente.

Non è così: Stern dedica il 12° capitolo, “Passato e momento presente”, a spiegare come il passato “diventi” in qualche modo presente, cioè quale ruolo esso giochi nella vita attuale, e quindi a rifondare il determinismo psichico e la psicodinamica. Con una precisazione, fin dalle prime righe: anche l’esperienza presente deve essere in grado di modificare il passato diminuendone l’influenza, riselezionando gli elementi che giocheranno un ruolo più significativo, perché “se il presente non può far ciò, non ci può essere alcun cambiamento terapeutico”.

Viene così esaminata l’influenza del presente sul passato in termini di contesto presente del ricordo, secondo le concettualizzazioni correnti riguardanti la memoria (Damasio; Edelman): se oggi sappiamo che la memoria non è un archivio che conserva fedelmente gli originali delle nostre esperienze e se il ricordo è un’operazione complessa e sempre nuova di contestualizzazione nel/del presente del/nel passato, il passato viene relegato sullo sfondo o nel sottobosco ed ancora una volta è il presente a dominare la scena[7]: “Il contesto dei ricordi per eccellenza è il momento presente”, il “presente ricordato” di Edelman. 

.Come fa il contesto presente a “selezionare”, non consciamente, i “pezzi” di passato da ri-assemblare per creare un “nuovo” ricordo? Stern si rifà ad “indizi” fenomenologici che derivano dalla descrizione psicoanalitica del lavoro sui sogni, sulle libere associazioni, sui processi del pensiero primario e sulla dissociazione ed alla posizione freudiana circa i legami ed i dis-legamenti complessi tra passato e presente; poi cita la Psicologia della Gestalt e le sue leggi di percezione e associazione di stimoli; infine, propone la metafora come candidata favorita a spiegare il ruolo cruciale di collegamento tra memoria inconscia e ricordo conscio. .

Questo mi pare uno dei passaggi più difficili ed insoddisfacenti per il lettore. Viene citato Modell (2003), in ambito decisamente clinico, ma sostenuto dalle tesi di linguisti cognitivisti come Lakoff , Johnson, Turner e Gibss, per i quali la metafora assolve ben altra funzione. Forse insoddisfatto della propria esposizione, Stern ritorna subito dopo sul piano clinico, parlando della funzione metaforica nelle  terapie corporee e poi di nuovo sui contributi di provenienza cognitivistica, con la Teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci, per concludere con l’ammissione della difficoltà a fondare in modo univoco il rapporto inscindibile e reciproco, clinicamente evidente, tra passato e presente.

La via d’uscita è l’affermazione di un radicale ruolo attivo del presente sul passato: come nell’ascolto di un pezzo musicale, in una sorta di après coup, noi “alteriamo” l’ascolto del fraseggio precedente alla luce dell’ascolto del fraseggio che l’orchestra sta eseguendo adesso, così ogni nuovo ricordo nel presente riscrive il ricordo passato e le relative tracce neurali. Non esiste mai un ricordo“originario” immutato di nessuna esperienza passata.

Il presente cambia il passato, se non dal punto di vista storico, da quello funzionale ed esperienziale soggettivo. Questo è, del resto, l’àmbito della trattazione di Daniel Stern, ed anche quello che attiene al livello della clinica come tecnica ed evidenza, ma non come teoria.

Le implicazioni cliniche delle sue affermazioni giocano però a nostro favore, per così dire: l’efficacia dell’azione terapeutica, cioè del presente della seduta e del processo del dispositivo freudiano, eminentemente relazionale, è qui straordinariamente sottolineata. In particolare, nei termini di Stern, un moment of meeting o un’interpretazione può cambiare il passato, pezzetto per pezzetto, senza estirpare il ricordo precedente del passato, anche se le Neuroscienze dovranno spiegarci i circuiti neurali di tali passati “paralleli” ed il fondamento della loro distinzione, nella coscienza del soggetto. 

Infine, un’ultima affermazione di Stern –che non sembra così coerente con le descrizioni cliniche successive e con l’articolo del 1998 sul “something more”- appare scontata per il clinico: dal punto di vista fenomenologico, il processo del presente che cambia il passato si verifica al di fuori della consapevolezza, non solo mentre avviene, ma spesso anche dopo che il soggetto ne è stato modificato.

E vediamo ora il vettore di cambiamento inverso, dal passato al presente. La relativa esposizione, più decisa ma anche meno immediatamente apprezzabile, si basa sulla posizione fenomenologia per illustrare i tre principali tipi di passato che interessano il clinico: il “passato silenzioso”, il passato “non esistente”, e il passato “vivo”.

Il passato silenzioso, come frattale, agisce sul presente ma non è, in sé, percepito: consiste principalmente di inconscio rimosso e di non conscio implicito. Si tratta di ciò che la psicoanalisi chiama conflitto, fantasia, trauma e tratti di carattere messi in atto automaticamente, senza coscienza né consapevolezza; comprende anche ricordi, rappresentazioni e pattern che appartengono al sapere implicito.

Il “fascino” esercitato da questo passato “silenzioso” viene spiegato ricorrendo al concetto di frattale[8] così come descritto nella teoria dei sistemi dinamici.

Ai fini del nostro discorso, un determinato pattern può essere visto come frattale di un pattern inconscio o non conscio che solo nel contesto di quella storia, di quel soggetto, di quell’esperienza trova la sua forma e che fa sentire tutta l’influenza del pattern. Anche qui, Stern traduce in termini psicoanalitici i “passati” come frattali: rappresentazioni/fantasie originarie, ricordi traumatici, difese, conflitti, ecc., ma si chiede anche quanto sia legittima l’assimilazione tra il “presente come ripetizione del passato” freudiano o comunque tra il passato psicodinamico e il concetto di frattale, per il quale non si può parlare di un passato attivo, che preme per esprimersi nel presente.  L’assimilazione viene giustificata in questi termini: ogni present moment è un frattale del passato, fortemente vincolato dalle condizioni del momento. La differenza fra i frattali e le declinazioni psicodinamiche sarebbe solo teorica e non fenomenologica: il passato personale silenzioso è un vincolo intrinseco al soggetto, “il passato è fenomenologicamente silenzioso invece che non esistente”. Il “silenzio” di questo passato può essere superato dal linguaggio, che lo fa passare alla condizione di “passato vivo”. Anche qui, la possibilità teorica di costrutti psicoanalitici come quello di transfert, emergenza di ricordi rimossi, trasformazione di ricordi e così via è pienamente riconosciuta, seppure sfumata nel senso del dominio implicito più che inconscio del silenzio fenomenologico.

Ed ora, il secondo tipo di passato, che influenza in modo radicale il presente non “forgiandolo”, ma limitandolo e depotenziandolo nei suoi gradi di libertà con vincoli precisi: alterazioni neurofisiologiche irreversibili, traumi ripetuti o gravi, conflitti e deprivazioni in fasi di sviluppo critiche e determinanti per l’attaccamento, la funzione riflessiva, la teoria della mente. Stern parla qui di passato “non esistente”, ancora una volta, in senso fenomenologico: si tratta di un passato che non influenza attivamente, dinamicamente il presente; che esiste solo se visto o ipotizzato dall’esterno, in senso storico o narrativo.

Il terzo tipo di passato che ci interessa è “vivo” (alive) nel presente, sia nel senso della sua diretta influenza su quest’ultimo sia nel “sentire” del soggetto, che lo vive come esperienza in atto pur riconoscendolo come passato. L’esperienza del “sapere di ricordare”, della sovrapposizione temporale e soggettiva di un passato ricordato e di un presente in cui lo si sta ricordando è l’esempio più frequente, in quanto distinto dall’incubo e dall’allucinazione. Nel present moment del ricordare abbiamo la multitemporalità dell’evento passato e del presente in atto che permette quel dialogo, con registri temporali avvertiti come diversi e specifici, che chiamiamo “ricordare il presente”. La psicoterapia può essere vista come un lungo processo di variazioni del passato vivo, sotto forma di espansione nel presente del passato, ovvero di variazioni di pattern relazionali “ricordati” in seduta e individuati e modificati dai successivi, di seduta in seduta.

Da qui Stern prende le mosse (capitoli 9, 10, 11 e 13) per una proposta di lettura del processo e del cambiamento al livello delle micro-interazioni tra paziente e terapeuta, cioè al livello locale dove le unità sono costituite delle più piccole gestalt di comportamento per le quali si potrebbe inferire un’intenzione, cioè di movimenti relazionali e present moment di pochi secondi organizzati in sequenze. E’ la parte del libro che forse può più attirare il clinico, e che dietro un’apparente “trasparenza” fenomenologia lancia una sfida ed una promessa a tutte le forme di psicoterapia ed una griglia di lettura del materiale clinico nuove.

Dirò solo che il processo si configura qui come un “moving along” auto-organizzato e co-creato, che trova la sue strada man mano procede: non si conosce in anticipo il percorso che seguirà. Esso appare caratterizzato dalla continua tensione per raggiungere un campo intersoggettivo più vasto e più coerente, da un alto grado di impredicibilità, non linearità e sloppiness.

La trattazione e il commento di questa proposta richiede un’esposizione a parte, anche per i concetti e costrutti sui quali si fonda, a cominciare da quello di intersoggettività come sistema motivazionale e non solo come elemento del setting o scelta tecnica. Davvero il granello di sabbia del present moment nasconde un mondo intero, ed è difficile “tenere l’infinito nel cavo della mano e l’eternità in un’ora”[9].

Per non lasciare tuttavia nel fascino filosofico-letterario, più intuitivo che definito concettualmente, il pensiero di Stern, si può ricordare la sua fonte originaria: coerentemente con la sua pratica prevalente e davvero insuperabile, cioè quella dell’Infant research, credo che egli si rifaccia a quella scoperta di un “tempo a due” tra madre e bambino che riflessioni ed esperimenti ormai a tutti noti hanno rivelato nell’ultimo decennio. Anche perché da tale fonte scaturisce in gran parte il modello del processo di cambiamento del Boston Group e la relativa lettura e ricostruzione, che nel libro viene applicata al trascritto di una seduta con una paziente adulta, come ho già detto, che costituirà il fulcro dell’ultimo report del gruppo, ma che già nel report precedente del Boston Group (2002) avevamo potuto intravedere, con l’applicazione ad una seduta video-filmata di psicoterapia con una bambina[10].  

In esso si dichiarava di voler proporre “un metodo per esaminare i micro-eventi del processo analitico che deriva massicciamente dalla ricerca sullo sviluppo”, ponendo in primo piano “la crescente importanza di illuminare il microprocesso dell’interazione per la comprensione del processo del cambiamento nel trattamento analitico”. E, ancora, gli autori dichiarano: “Grazie alla nostra pratica di ricerca sullo sviluppo, abbiamo pensato che fosse possibile studiare l’interazione in modo analogo all’osservazione micro-analitica dell’interazione madre-bambino (Stern, 1977; Trevarthen, 1979; Sander,1980; Tronick, 1989; Beebe et al., 2000)“, che si focalizza sull’attività momento per momento, riconosciuta da molti autori ma sin qui “oggetto di attenzione relativamente scarsa in confronto a quella dedicata al livello narrativo/dichiarativo dell’azione terapeutica”[11].

Nel libro di Stern la fonte dell’analogia tra studio dell’interazione madre-bambino e paziente-terapeuta non viene altrettanto esplicitata, evitando così le note critiche all’equazione tra “bambino osservato” e paziente: le due diadi non sono infatti “analoghe” nel senso della corrispondenza tra madre e terapeuta da una parte e bambino e paziente dall’altra, come da più autori è stato osservato, soprattutto se non si tiene conto delle caratteristiche di rappresentazione ed attività intenzionale del bambino che solo recentemente abbiamo scoperto e che non sono appartengono solo alle prime fasi dello sviluppo, ma perdurano per tutta la vita. Intendo dire che il rischio, paventato negli anni ’80 e ’90, di derivare dall’Infant research un’indicazione, in sede clinica, di “infantilizzazione” del paziente e di ruolo di “maternage” dell’analista, mi sembra decisamente superato. A ben vedere, stiamo invece assistendo ad una insistenza sul ruolo attivo, competente, simmetrico di paziente e terapeuta. Ritornerò brevemente su questo punto tra poco, dicendo intanto che evitare il rischio e la conseguente critica dei decenni scorsi implica una lettura più suggestiva di testi quali “Il momento presente” di Stern, ma anche una maggior difficoltà a comprendere teoricamente l’applicazione di metodologie e costrutti desunti dalla ricerca sullo sviluppo infantile al processo di cambiamento terapeutico.

Credo dunque che Stern possa utilmente essere “integrato”, su questo punto, da scritti di suoi collaboratori o di altri autori che a lungo hanno collaborato con lui: in particolare, da K. Lyons-Ruth (membro autorevole del Boston Group, forse attualmente candidata a continuare in prima persona le ricerche del fondatore) e da B. Beebe e F. Lachmann, con il loro “Infant research e psicoterapia dell’adulto” (2002, traduzione italiana per Raffaello Cortina del 2003).

Questi ultimi si rifanno a Louis Sander[12] ed alla sua teoria “intersoggettiva” del timing, in uno scambio fecondo che sembra davvero “inverare” l’ultimo Stern,  rifacendosi, quattro anni prima del libro di cui stiamo parlando, alla voce più “antica” del gruppo proprio da lui guidato.

Già in “ Systems Models in development and psychoanalysis: the case of rhythm coordination and attachment“ (2000)[13], essi riconoscevano infatti fin dalle prime righe la grande influenza esercitata su di loro da Joseph Sander - a cominciare dal suo approccio sistemico, che dice: “... l’organismo, l’ambiente e gli scambi fra i due possono essere rappresentati o presi in considerazione come scambi di un sistema tra le componenti in interazione del sistema stesso, attraverso le modificazioni reciproche, che raggiungono una coordinazione armonica coerente con le condizioni che rendono duratura l’esistenza di ciascuno”. Ricordiamo che gli studi di Sander.hanno dimostrato la straordinaria attività intersoggettiva del neonato sin dalle prime ore di vita e la sintonizzazione co-creata tra madre e bambino, premessa di quel modello sistemico-diadico dell’intersoggettivismo clinico che troppo spesso viene confuso con la generica sensibilità intersoggettivistica della psicoanalisi nord-americana post-mitchelliana.

Per Beeebe, Lachmann e collaboratori, i modelli sistemici della comunicazione diadica sono di grande valore anche per la psicoanalisi, in quanto ci possono fornire i principi di organizzazione per nuovi modelli interattivi della diade e dello sviluppo della mente. La scoperta della coordinazione di ritmi vocali può fornire un fondamento alla comprensione del “dialogo generalmente non consapevole” nei trattamenti psicoanalitici, perché dimostra che tra due persone che parlano si verifica sempre una qualche forma di coordinazione dei ritmi e il grado di coordinazione contribuisce fortemente alle variazioni del clima emozionale nel corso della relazione tra i due e, più in generale, della vita. Se il ritmo e il timing sono principi di base dell’organizzazione nei sistemi dinamici non lineari, ed il ritmo è sottostante ad ogni comportamento comunicativo, i pattern di coordinazione temporale sono cruciali per comprendere tutte le relazioni sociali: ciascun partner deve avere un feedback più o meno continuo circa lo stato soggettivo dell’altro, una sorta di continuo monitoraggio e messaggio di sistema verificabile sullo stato dell’altro. Sarebbe una sorta di continua scansione di come sentiamo che l’altro sta con noi, generalmente al di fuori della coscienza, alla quale rispondiamo aggiornando la nostra valutazione dello stato di relazione con il partner.

La chiara fondazione del modello su un approccio sistemico mi sembra un aspetto poco esplicitato invece nel libro di Stern, forse perché da lui considerata ovvia ed indiscutibile, ma credo vada ricordata per comprendere appieno la sua teoria del processo. Mi pare che diversamente si corra il rischio che la posizione di Stern venga troppo facilmente assimilata ad una generica affermazione di forte, diadico, bidirezionale legame tra i due partner, che non rimanda ad altro per spiegare le mutevoli ed in una certa misura imprevedibili configurazioni interattive co-create. In realtà, Stern dedica molte pagine del suo libro alla fondazione dell’intersoggettività come sistema motivazionale fondamentale (capitolo V) e della coscienza intersoggettiva (capitolo VIII), definendo l’intersoggettività in termini di “condizione di umanità”, “sistema innato ed essenziale alla sopravvivenza della specie”, “status paragonabile a quello sessuale o di attaccamento” e la coscienza intersoggettiva come “evento interpsichico che riguarda due menti”, “condivisione di esperienze”, “esperienza sovraordinata”. L’ascendenza cognitivistica dell’autore qui emerge con una certa chiarezza (ed insufficienza, rispetto al modello di cambiamento proposto sia in sede di sviluppo sia di clinica?), al punto da farci chiedere se il suo intersoggettivismo non sia meno “deciso” di quello di alcuni dei suoi collaboratori.

 

Dopo questa breve digressione, riprendiamo l’inquadramento della parte clinica del contributo di Stern, che occupa i cinque capitoli finali e quasi la metà delle pagine complessive del libro.

Tre i presupposti:

1)      la nozione si sapere implicito;

2) il livello micro-analitico dell’interazione terapeutica;

3) il fattore di novità come perturbatore e attrattore “naturale” dello scambio intersoggettivo.

Stern apre la sua trattazione ricordando che il present moment viene colto mentalmente mentre si sta ancora svolgendo, cioè solo nel dominio del “sapere implicito”, teorizzato dalla Psicologia, dagli studi sulla comunicazione non verbale[14] e dall’osservazione del bambino negli ultimi due decenni fino ad attribuirgli sempre maggiore importanza rispetto a quello esplicito. L’autore subito aggiunge che ciò “cambia il nostro modo di vedere il present moment così come il nostro modo di pensare circa la coscienza e l’inconscio”, ma soprattutto che sono immediatamente evidenti le implicazioni per la teoria e la pratica psicoterapeutica. Nella distinzione che segue tra conoscenza implicita (non simbolica, non verbale, procedurale ed “inconscia nel senso di non riflessivamente conscia” ed esplicita (simbolica, verbalizzabile, dichiarativa, passibile di narrazione e “riflessivamente conscia”), l’autore ne parla non come di due sistemi di conoscenza e di memoria separati, ma paralleli e parzialmente indipendenti, che “vivrebbero fianco a fianco e crescerebbero insieme tutta la vita”, non mancando di sottolineare la maggior ricchezza del primo, che “non è limitato al ricco mondo della comunicazione non verbale o del movimento e delle sensazioni corporee, ma si applica anche agli affetti e alle parole”. Se dal punto di vista fenomenologico siamo molto vicini al ”saputo non pensato” di Bollas (1987) ed a quello di “conscio pre-riflessivo” di Stolorow e Atwood (1992), come Stern stesso riconosce, bisogna tener presente che qui ci muoviamo ad un altro livello epistemico: non si tratta di un aspetto della comunicazione o di un’area “pre”- interpretativa, “pre”- conscia, “pre”-verbale, ma di una forma autonoma di conoscenza che domina la nostra vita e traccia direzioni e ritmi del processo clinico, e non richiede trasformazioni o interpretazioni a livelli o in codici diversi: “non c’è motivo per mettere in parole l’implicito: esso rimane silenzioso senza che gli eventi costringano ad una traduzione verbale”, ed è soltanto una piccola porzione dell’intera conoscenza implicita che è trasponibile in parole, di solito “fortemente conscia e quindi potenzialmente verbalizzabile”, ma che non precede obbligatoriamente –nella storia dello sviluppo e del trattamento- la parola o la coscienza riflessiva. 

Siamo in un’ottica costruttivistica del sapere, dunque, e non solo del processo: questa è la differenza; il “sapere non pensato” non è una metafora o una fase, ma un sapere –forse quello più “vero” e certamente più vasto- da riconoscere ed esplorare. L’insistenza di Stern sul termine “knowing” come preferibile a quello di “knowledge” –credo che in italiano possiamo tradurlo con “sapere” invece che “conoscenza”- non è un vezzo linguistico, ma un modo per coglierne le caratteristiche intrinseche, senza rimandi ad altri “saperi”: “… io uso il termine sapere implicito invece di conoscenza. Il sapere (che in inglese è il participio di to know) ci dà una vaghezza per noi costruttiva e offre anche un concetto più dinamico di un sapere che si forma in opposizione ad un sapere statico, che può essere visto come se avvenisse nel passato”. Esso è solo “descrittivamente (topograficamente) inconscio”, non rimosso, perché non c’è una barriera difensiva che gli proibisce di entrare nella coscienza. (e su questo punto Stern è chiaro: il termine “inconscio” andrebbe riservato all’inconscio dinamico psicoanalitico); più esattamente, il sapere implicito è non conscio e non rimosso: “La rimozione è probabilmente qualcosa che non agisce sul sapere implicito e quindi l’implicito è semplicemente non conscio, laddove il materiale rimosso è inconscio”. E per buona parte non è nemmeno trasferibile in parole, come le “idee-casino” di Alessandro Baricco in “City”, che affascinano Stern nella loro descrizione in termini di “galassie di piccole intuizioni”, che cambiano in continuazione, sono belle, nel loro stato puro sono un “meraviglioso casino”che ci fa prevedere l’infinito. Siamo in piena post-modernità: Cartesio è morto e le idee chiare e distinte non esistono, il linguaggio mette ordine ma snatura anche l’intuizione originaria e “ i present moment come esperienze nel dominio implicito sono simili alle idee di Baricco”.

Va tenuta ferma questa fondazione se non si vuole ridurre il discorso di Stern ad una sottolineatura, che sarebbe ormai anche poco originale, dell’importanza dei fattori pre-verbali o non verbali nella comunicazione e nello scambio clinico e se si è disposti ad accettare l’attacco al cuore della psicoanalisi, costituito dall’erosione del concetto di inconscio e di quello di transfert-controtransfert.

Egli infatti afferma che il suo modo di vedere il sapere implicito pone sul tappeto un grosso problema per la psicoanalisi tradizionale, perché:

-il sapere implicito non è l’inconscio dinamico e quindi non è tenuto fuori dalla coscienza dalle resistenze, ma è non conscio “per altri motivi”;

-il concetto di resistenza o rimozione qui non si applica: la parte del leone del materiale descrittivamente non conscio la fa la parte non verbalizzata, ma per motivi diversi dalla resistenza; la “resistenza” non è ristretta solo a quelle situazioni nelle quali è in gioco del materiale dinamico inconscio dinamico rimosso –cioè a “una piccola parte del lavoro terapeutico”;

-sono i ricordi e la rappresentazioni implicite a “giocare un ruolo costante nel dare forma al transfert e alla relazione terapeutica, in generale, così come nel far emergere buona parte del nostro passato vissuto e del presente sintomatico”.

    Ci sono due principali momenti nella situazione clinica da indagare: il primo, “l’agenda esplicita” o narrativa, che riguarda il contenuto verbale della seduta (il passato, il futuro, i sogni, le fantasie, i problemi al di fuori della stanza d’analisi); la seconda, “l’agensa implicita”, riguarda la regolazione dello stato implicito della relazione tra terapeuta e paziente, ed include buona parte dell’alleanza terapeutica, l’alleanza di lavoro, la relazione transfert/controtransfert e la relazione “reale”. Nel primo momento, terapeuta e paziente sono fianco a fianco, per così dire, e guardano un terzo elemento, cioè il contenuto esterno alla loro relazione immediata: cercano il significato della narrazione; co-creare e regolare la relazione al di fuori della consapevolezza costituisce invece  l’”agenda implicita”. La regolazione del campo intersoggettivo immediato è l’aspetto dell’agenda implicita che ci interessa di più: essa contestualizza l’agenda esplicita, vincola e determina di che cosa si può parlare; in altre parole, i suoi gradi di libertà.

   In psicoterapia, il principale compito implicito è quello di regolare il campo intersoggettivo immediato. Ciò si realizza nella sequenza di momenti e di present moment che sono i piccoli passi nel negoziare e sintonizzare bene il campo intersoggettivo. Questo processo diadico di lettura parallela da parte di paziente e analista si verifica in larga parte in modo non conscio, e paziente e terapeuta non stanno più fianco a fianco a guardare un terzo elemento, ma sono invece faccia a faccia mentre si guardano l’un l’altro, anche se fuori dal raggio visivo. Da un punto di vista clinico, tutte le conoscenze implicite sulla relazione influenzeranno l’agenda esplicita e, viceversa,. nessuna può essere considerata indipendente dall’altra. Ma “questo libro, tuttavia, ha per focus diretto e principale il dominio del sapere implicito, in particolare il campo intersoggettivo tra terapeuta e paziente, e più specificatamente il modo in cui questo campo viene regolato momento per momento durante i present moment, che sono la nostra unità di base dell’esperienza soggettiva. In terapia, è quest’area che non è stata presa in esame con la stessa profondità di quella esplicita”.

La distinzione tra consapevolezza e coscienza e coscienza riflessiva è quella che ci riguarda di più. I filosofi hanno litigato con distinzioni simili espresse in modo diverso: la distinzione tra consapevolezza e coscienza viene vista come distinzione tra coscienza fenomenologica e coscienza introspettiva, laddove quella fenomenologica riguarda l’esperienza diretta, “il sentire grezzo” (Rorty, 1982), il modo in cui le cose sembrano essere sul “palcoscenico” della mente, la loro somiglianza (Nagel, 1998), e l’esperienza dei qualia (cioè la prontezza); la coscienza introspettiva o accessibile (Block, 1995) è la consapevolezza di avere l’esperienza fenomenologia. Il confine tra questi due tipi di coscienza non è così chiaro; tuttavia, si può dire che la coscienza riflessiva stia necessariamente in un inquadramento temporale diverso rispetto alla consapevolezza, in quanto è a posteriori. Le descrizioni del flusso di coscienza in letteratura non chiariscono i sottili confini tra coscienza e consapevolezza.

   Un problema della distinzione conscio/non conscio applicato alla situazione clinica è costituito dal fatto che paziente e terapeuta hanno sempre a che fare con agende simultanee che interagiscono fra di loro: l’agenda esplicita del contenuto di ciò che stanno dicendo e il suo significato, che riguarda chiaramente materiale conscio riflessivamente perché ha accesso verbale. Molte nozioni cliniche di coscienza si riferiscono al linguaggio come elemento indispensabile, fino all’estremismo secondo il quale non ci sarebbe nessuna coscienza riflessiva o introspettiva senza un’etichetta per gli oggetti di esperienza di forma linguistica o simbolica.

   Buona parte della teoria psicoanalitica – ci ricorda Stern-  ha abbracciato quest’idea, quanto meno con risultati confusivi. Farla riposare sul linguaggio è problematico perché molta parte dell’azione clinica riguarda “oggetti di esperienza” non consci ed in particolare l’agenda implicita che microregola il campo intersoggettivo terapeutico. Di solito le terapie fondate sulla comunicazione linguistica sottolineano la coscienza introspettiva o riflessiva, che è quasi sempre sinonimo di accesso verbale. Nelle terapie di movimento, nello psicodramma e in quelle esistenzialistiche, invece, è sottolineata la coscienza fenomenologica che di solito è sinonimo di enactment.

   Mi limito a sintetizzare il concetto di coscienza intersoggettiva di Stern mediante una citazione tratta dal capitolo VIII, dedicato al ruolo della coscienza ed al concetto di coscienza intersoggettiva:

 

Quando due persone co-creano un’esperienza intersoggettiva in un present moment condiviso, la coscienza fenomenologica dell’uno si sovrappone e parzialmente include quella dell’altro: uno ha la propria esperienza più l’esperienza dell’altro riflessa nei suoi occhi, nel suo corpo, nel suo tono di voce, e così via. La sua esperienza e quella dell’altro non devono necessariamente essere la stessa esperienza: hanno origine da punti e orientamenti diversi, possono avere colorazioni, forme e sensazioni molto differenti, ma solo abbastanza simili da poter dar luogo al fatto che, quando le due esperienze vengono reciprocamente validate, una “coscienza” di condividere il medesimo panorama mentale può nascere.  Questa è la coscienza intersoggettiva.  È quello che accade durante degli speciali present moment nella psicoterapia.

…io uso il termine di “coscienza intersoggettiva” in riferimento solo a ciò che sta accadendo ora in uno specifico present moment, non come ad uno spazio potenziale di sapere condiviso. La coscienza non si estende al di là dell’adesso. Quindi,la coscienza intersoggettiva può essere creata solo ora, non espansa in un futuro che non è ancora nella coscienza: è solo il campo intersoggettivo delle conoscenze implicite che può essere espanso per mezzo di atti di coscienza intersoggettiva.[15]

 

   Bisogna anche ricordare che Stern non contrappone il sistema motivazionale intersoggettivo e quello dell’attaccamento, ma li vede in reciproca feconda interazione: “… l’attaccamento tiene le persone vicine in modo tale che l’intersoggettività possa svilupparsi o approfondirsi, e l’intersoggettività crea le condizioni che sono un modo per arrivare a formare degli attaccamenti. Nello sviluppo non si sa con certezza quale dei due sorga prima”. Mi limito ad osservare che questa posizione di prudente mediazione lascia qualche dubbio, se non altro perché il primato del sistema motivazionale intersoggettivo sembra deducibile dall’insistenza sulle competenze innate del neonato, che appaiono molto più forgiate o modificate da quelle del caregiver nell’ottica della Teoria dell’Attaccamento.

    Abbandonando l’ottica intrapsichica, la coscienza intersoggettiva diventa un evento interpsichico che richiede due menti: un soggetto ha avuto un’esperienza, ed essa viene sentita direttamente, attiva all’incirca la medesima esperienza in un altro soggetto, grazie alla condivisione intersoggettiva. Siamo… alle soglie dei neuroni-specchio, che i ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma diretto da Giacomo Rizzolatti[16] hanno scoperto circa un anno dopo la pubblicazione del libro di Stern, il quale ne anticipa –per così dire- la necessità quando scrive che “fino ad oggi non si è certi di nessun punto centrale di coscienza nel cervello, e molti autori hanno suggerito che non ne esiste nessuno, ma che piuttosto la coscienza sia un attributo collettivo dell’intero corpo nel suo equipaggiamento motorio e mentale nel suo impegno motorio e mentale  nei confronti dell’ambiente… Un impegno nei confronti dell’ambiente include, ed è importante, le interazioni con le menti della altre persone ed anche con la cultura”[17].

  Se la coscienza riflessiva esige un “altro” presente a testimoniare il fatto che noi abbiamo un’esperienza fenomenologica; se noi possiamo conoscere e riconoscere noi stessi solo passando “attraverso la nostra esperienza dell’esperienza, da parte dell’altro, della nostra stessa esperienza (dove l’esperienza dell’altro viene afferrata intersoggettivamente)”, in psicoterapia “l’altro è molto reale, interagisce con noi; insieme, noi co-creiamo delle esperienze. La nostra esperienza fenomenologica include la nostra esperienza diretta dell’esperienza fenomenologica dell’altro. Il setting non è solo sociale, ma è la quintessenza dell’intersoggettività”.

 

Ed ecco, nella terza parte del libro, l’applicazione clinica di quanto sin qui esposto, con un capitolo dedicato al present moment in psicoterapia, uno al processo del moving along, uno all’intreccio tra implicito ed esplicito nella prassi clinica, uno al rapporto tra present moment e passato e l’ultimo (il più breve di tutto il volume!) al cambiamento terapeutico.

 Essenzialmente, Stern si propone di rispondere con materiale clinico alle seguenti domande: come fa il present moment a diventare una progressione relazionale che è una sequenza di pattern di avvenimenti passati? e come viene sperimentato dal punto di vista fenomenologico dai due partner? e come fa a portare al cambiamento terapeutico?

L’esempio clinico cui ricorre largamente, tratto da una psicoterapia interamente registrata, viene visto in termini di sequenza di movimenti relazionali (ad esempio: proposta del tema della seduta da parte del paziente o del terapeuta, ratifica congiunta della sua accettazione) da parte dei due partner e di loro variazioni (ad esempio: riaffermazione del tema, ricontestualizzazione del contenuto precedentemente proposto, sua applicazione all’hic et nunc della seduta ovvero al passato della propria storia). La progressione che conduce al cambiamento, in seduta, non viene vista nello sviluppo del contenuto, ma nel contesto, “in altre parole, nei riaggiustamenti di direzione del campo intersoggettivo”; essa è inscritta nella sequenza, non nei singoli movimenti, che possono costituire o meno dei present moment

Spiega l’autore: il primo momento della sequenza (che è già passato) e il secondo momento (che avviene ora) formano una presentazione multitemporale in cui il primo momento viene riattivato e portato avanti dalla memoria di lavoro grazie alla sua similarità e vicinanza a un secondo momento, che funziona come contesto di memoria per evocare il momento passato. E aggiunge: “Ciò è inevitabile perché, se il presente deve essere valutato in base alla sua novità, deve essere paragonato a ciò che è familiare che giace nel passato”.

Stern si rifà al modello dell’attivazione affettiva proposta da Scherer (2001), dove un evento che produce un affetto passa attraverso una rapida successione di valutazioni, ciascuna della durata di pochi millisecondi e immediatamente con un preciso ordine sequenziale rispetto alla novità dell’evento, all’opportunità di avvicinarsi o allontanarsi, alla sua piacevolezza o meno, alla sua definizione in termini cognitivi, alla sua possibilità di essere tollerato/superato, ed infine rispetto all’accettabilità morale della soluzione adottata.

Fin qui, non è necessaria la coscienza riflessiva; quando però l’elaborazione implicita ha fine, la consapevolezza di una progressione relazionale confluisce nella coscienza come proprietà emergente: “Nel medesimo momento in cui la progressione raggiunge un punto di sufficiente completezza, paziente e terapeuta ne diventano consapevoli e diventano anche consapevoli del fatto che l’altro ne è consapevole. Il momento diventa condiviso ed entra nella coscienza intersoggettiva. (…) Ciò rende questi momenti più utili sul piano terapeutico”.

Si può intuire –ma la lettura del materiale clinico così codificato è indispensabile- l’importanza dell’enorme numero di ripetizioni e variazioni che costituiscono una seduta, rilevabili solo attraverso l’analisi del micro-livello di quest’ultima, cioè dei minimi sottilissimi scambi (verbali e non), spesso indipendentemente dal loro contenuto.

Rimandando il lettore al testo, mi limito qui a sottolineare l’importanza (ma anche la difficile modificabilità ed esportabilità) di alcuni costrutti che sostengono questa “griglia” e la nuova concettualizzazione del cambiamento terapeutico, ed a ricordare gli importanti esiti –ovvero le critiche, da parte del mondo psicoanalitico- di queste implicazioni cliniche, anticipate nella prima parte di questo scritto.

1. Paziente e terapeuta sono impegnati in una continua negoziazione dei loro rispettivi stati intenzionali: il processo del “leggere la mente dell’altro”, al micro-livello dell’analisi degli scambi in seduta, è intrinsecamente impredicibile, non lineare, ridondante, impreciso, sempre variato di momento in momento, cioè sloppy Tale caratteristica non è un limite, ma un potenziale creativo di mutamento del campo intersoggettivo, cioè di cambiamento terapeutico[18].

2. Il setting psicoterapico è definito in termini di campo intersoggettivo altamente qualificato dalla domanda di cura del paziente e dalla competenza di monitoraggio del terapeuta. Credo che la definizione che ne viene data (“dominio dei sentimenti, dei pensieri e della conoscenza che due o più persone condividono circa la natura della loro relazione attuale”, caratterizzato dalla sua continua condivisione ma anche dall’inevitabile e continuo superamento,  implicito o esplicito, di tale condivisione) dimostri ampiamente la sua non accostabilità a quella di “campo bi-personale” che dai Baranger è  passata nella psicoanalisi italiana con la mediazione e l’innovazione, soprattutto, di Antonino Ferro.

3. L’attenzione dei ricercatori del Boston Group sarà da qui in poi rivolta al livello locale della seduta, cioè alle interazioni lungo una micro-scala “dove le unità sono costituite delle più piccole gestalt di comportamento per le quali si potrebbe inferire un’intenzione”. Tali unità di movimenti relazionali durano secondi e le loro sequenze esauriscono il livello locale (o micro-livello), che costituisce il livello psicologico fondamentale per ogni forma di relazionalità.

4. Il processo terapeutico, al livello locale, è un continuo moving along che trova la sue strada man mano procede, cioè da continui e non esattamente prevedibili tentativi di raggiungere un campo intersoggettivo più vasto e più coerente. Esso è costituito dai relational moves di entrambi i partner, cioè dalle più piccole unità nelle quali si può trovare un’intenzione a cambiare lo stato della relazione che non diventano consce (se lo fossero, sarebbero present moments).  

5. Now moments e moments of meeting sono proprietà emergenti del processo, resi possibili proprio dalla sloppiness di quest’ultimo, che genera nei partner ansia e incertezza intersoggettive, perché non è possibile ricorrere alle regole ed alle abitudini già sperimentate e costringe a vivere il “now” nella sua dimensione di rottura della routine, di novità carica di attesa; in una parola: di kairòs.

 

Per chiudere, una domanda: una visione ed un’analisi di questo tipo sostengono in modo diverso o banalizzano e attaccano la teoria psicoanalitica e il suo dispositivo della cura?

La domanda non è secondaria, la risposta richiederebbe una trattazione che rimando ad altra occasione.

 

 


Note dell'autrice:

[1] A questo proposito, mi pare intrigante osservare l’assenza di presentazione della traduzione italiana, nonostante abbiamo in Italia parecchi esperti e divulgatori delle ricerche e dell’opera di Daniel Stern e dei suoi collaboratori e nonostante l’attesa che anche in ambito psicoanalitico si è registrata nei confronti di questo volume, del resto pubblicato da Raffaello Cortina a poco più di un anno dalla distribuzione in America (gennaio 2004).

[2] Credo che “Il mondo interpersonale del bambino” (Bollati Boringhieri, 1989; ed. originale 1985) sia un testo che veramente ha cambiato l’approccio psicoanalitico al passato “infantile”, nonché una delle voci bibliografiche più citate in letteratura negli ultimi decenni.

[3] Si tratta di quello che Daniel Stern, in sede clinica, definisce come “moment of meeting”, realizzazione della promessa di uno dei tanti “now moments” della seduta, e che già nell’articolo “I meccanismi non interpretativi nella terapia psicoanalitica il something more than interpretation” [Int. J. Psycho-Anal. (1998) 79: 903-921] veniva indicato come il momento intersoggettivo in cui si crea una nuova organizzazione nella relazione terapeutica ed un cambiamento nella conoscenza procedurale implicita del paziente.

[4] La traduzione è mia, anche per le citazioni dal libro “Il momento presente”, perché l’articolo è stato scritto prima della pubblicazione della traduzione italiana di Diego Sarracino per l’editore Raffaello Cortina.

[6] Gli affetti vitali vengono da Stern definiti come esperienze soggettive costituite dalle dinamiche temporali di cambiamenti interni, di tipo analogico: micro-variazioni in tempo reale di affetti, pensieri, percezioni o sensazioni che di solito si verificano in parallelo con i “contorni temporali” delle stimolazioni, che però sono eventi oggettivabili. Tra contorni temporali e affetti vitali Stern postula un isomorfismo imperfettoi. Perché i secondi rappresentano l’esperienza stessa delle sensazioni, la forme del sentire o temporale dell’esperienza soggettiva. Mi pare che “contorno temporale” e “affetto vitale” possano essere pensati come aspetti dell’emozione in quanto organizzatore e fondamento della rappresentazione delle relazione ovvero degli schemi di Sé-con-l’altro (Stern 1989), cioè di quel sapere relazionale implicito che, grazie alla concettualizzazione di Karlen Lyons-Ruth, viene a prendere sempre di più il posto dell’inconscio freudiano, negli scritti più recenti del Boston Change of Process Study Group (2003, 2005) e sulla scena del cambiamento in psicoterapia e psicoanalisi.

[7] Con l’eccezione, forse, dei ricordi traumatici, il cui ruolo Stern dichiara non apparire così chiaro nella sua concezione (p. 164); e ciò, per noi, non è di secondaria importanza.

[8] Un frattale è un pattern che ha la medesima forma generale indipendentemente dalla sua scala o misura, come un cristallo, che in natura si può trovare in varianti diversissime, a seconda delle condizioni iniziali di formazione, ma con una struttura identica.

[9] L’esergo del libro di Stern è costituito dai famosi versi di William Blake: “Vedere un Mondo in un granello di sabbia/ e un Cielo in un fiore selvatico, tenere l’Infinito nel cavo della mano/ e l’Eternità in un’ora”.

[10] Explicating the Implicit: the local level and the microprocess of change in the analytic situation”, Int. J. Psychoanal. (2002) 83, 1051- 1070.

[11] Le traduzioni delle citazioni degli articoli degli autori del Boston Group, qui e nel seguito dell’articolo, sono mie.

[12] Purtroppo, di questo autore ben poco si sa in Italia, a motivo della non disponibilità in traduzione dei suoi scritti; sembra -e ci auguriamo che sia così- che tale lacuna possa a breve essere colmata, come sembra, da una pubblicazione di Raffaello Cortina e curata da G. Amadei. [12] Sander è il “grande vecchio” del Boston Group, ormai ultraottantenne, che abbiamo potuto incontrare il 6 settembre 2004, ad un Seminario organizzato proprio dal professor G. Amadei all’Università Cattolica di Milano, che aveva per titolo “La prima e la‘seconda’ origine delle relazioni. La comprensione dello sviluppo normale e patologico e dell’incontro clinico alla luce dei nuovi modelli dell’Infant research” e per relatori anche D. Stern, N. Bruschweiler-Stern, K. Lyons-Ruth, A.C. Morgan e J.P. Nahum. In questo incontro abbiamo potuto ascoltare Sander e coglierne la dedizione assoluta alla ricerca come terreno di straordinaria fecondità per la comprensione dello sviluppo: un autentico scienziato “puro”, poco interessato alle applicazioni delle sue scoperte e quasi completamente assorbito e “sintonizzato” dai/sui ritmi degli scambi madre-bambino.

[13] Gli altri autori dell’articolo, pubblicato in Infant Mental Health Journal, volume 21 (1-2), pp. 99-122, sono: Joseph Jaffe, Stanley Feldstein, Cynthia Crown, Michael Jasnow.

[14] A questo proposito, mi ha colpito –nella linea di un esito talvolta di “autarchia assoluta” del bambino pre-verbale iper competente dell’intersoggettivista Stern- che venga riproposto qui l’esempio descritto in “Il diario di un bambino” circa 15 anni prima: il piccolo in-fante gioca beato con un raggio di sole riflesso sul pavimento, e le parole della madre che lo invitano a non leccarlo, a trattarlo solo come un raggio di sole “frantumano” in mille pezzi il suo mondo originario, distruggono la sua pienezza: “Solo un raggio di sole? Ma era la mia pozza di luce, la mia pozza speciale! … Ma io l’ascolto, lo sento! … Ma io ci stavo dentro!” (tr. it., p. 120).   

[15] Cap. VIII, pp. 125-126 nell’edizione originale.

[16] Ricordiamo, in particolare: Chersi, Fadiga, Fogassi, Gallese, Iacoboni; e soprattutto ricordiamo il libro di Rizzolatti e Sinigaglia “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio”, di imminente distribuzione nella collana “Scienze e Idee” dell’Editore Raffaello Cortina.

[17] I neuroni specchio, “nati” ufficialmente il 29 aprile 2005 con la pubblicazione su “Science” della ricerca dell’Università di Parma, assumono un grande significato sia scientifico sia filosofico: essi si attivano non solo quando il soggetto compie un’azione, ma anche quando osserva un altro che la compie, e quindi si sono candidati a spiegare le basi neuronali dell’empatia e della comprensione delle motivazioni del comportamento dell’altro in base ad una strettissima connessione e ricorsività tra attività motoria e cognitiva.

 

[18] Possiamo dire che il cambiamento, per Stern e collaboratori, coincide con la capacità di variazioni del campo intersoggettivo condivise e co-create; nei termini di Beebe e Lachmann, in incremento dell’abilità consapevole di regolare se stessi e il campo intersoggettivo con la massima e negoziata coerenza di intenzionalità e benessere da parte di entrambi i partner.

 

                  
                   
 
 
 

 

 

 

 

Bibliografia:

 

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[1] Per gli scritti di Sigmund Freud si fa riferimento all’edizione Boringhieri delle Opere, in 12 volumi, Torino 1966-80.