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"OLTRE LA MEMORIA C'E' LA STORIA"

 di Sergio Luzzatto

 

 

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   GIORNATA DELLA MEMORIA 2010                                                                                                                                                       

    

   

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Il testo riprodotto in questa pagina è la riproduzione dell'articolo apparso  sul Domenicale de "Il Sole 24 Ore" del 24 gennaio 2010.
 
 

 

 

 

 

 

                

In Italia, la memorialistica sulla Shoah ha disegnato nel tempo una curva molto chiara, agevole da decifrare. Le prime testimonianze di ebrei sopravvissuti giunsero a caldo, entro un paio d'anni dal 1945: fra queste, Se questo è un uomo di Primo Levi. Seguì un lungo intervallo di silenzio o di quasi silenzio: fino al 1986, quando lo stesso Levi pubblicò I sommersi e i salvati proprio a riflettere su tempi e modi della Memoria. Si aprì allora una terza stagione, che è durata fino ad adesso: con una piccola pioggia di racconti per opera di uomini e donne ormai vecchi, testimonianze-testamento.

All'altezza cronologica del 2010, cioè sessantacinque anni dopo la liberazione di Auschwitz, i conti sono presto fatti. Quando si dice Giorno della Memoria e si intende una memoria diretta della Shoah, ci si può riferire ormai soltanto - salvo casi di longevità eccezionale - alla memoria di chi era allora un bambino, o al massimo un adolescente. Memoria particolare, poiché le misure razziali intervennero così presto nella vita degli ebrei nati negli anni Venti e negli anni Trenta da non ammettere la possibilità di un "prima": da far coincidere l'infanzia (o l'adolescenza) con il trauma della persecuzione e poi con l'incubo della deportazione. Le testimonianze-testamento della Shoah pubblicate nell'ultimo ventennio, in Italia come fuori d'Italia, hanno questo di peculiare, di consolante e insieme di straziante: sono storie di "salvati" che erano cresciuti da "sommersi".

Alcune sono autentici capolavori. Due esempi: Per violino solo di Aldo Zargani (nato nel 1933), Storia di una vita di Aharon Appelfeld (nato nel '32). Ma di là dalla maggiore o minore qualità letteraria di tali racconti, oggi colpisce soprattutto il fatto che la dimensione cui essi pertengono - la memoria della Shoah vissuta come esperienza diretta - è in via di estinzione. L'«era del testimone» si sta chiudendo, per il buon motivo che i testimoni vanno scomparendo a uno a uno. Da qui la delicatezza della stagione che va inaugurandosi nei nostri anni, e la difficoltà della sfida che si è voluto raccogliere con l'istituzione di un Giorno della Memoria. Noi dobbiamo trasmettere ai posteri la memoria della Shoah, ma dobbiamo farlo, per così dire, senza conoscenza di causa: senza il terribile privilegio di averla vissuta.

Nel 2006, lo scandalo suscitato dalla pubblicazione del romanzo di Jonathan Littell, Le Benevole, è stato anche un riflesso di questa congiuntura anagrafica. Nato nel 1967 da ebrei americani, Littell non poteva essere ritenuto in alcun modo una vittima della Shoah, né era un parente prossimo di vittime. Romanzo (secondo i gusti) magnifico o scadente, nobile o perverso, Le Benevole ha rappresentato comunque un evento culturalmente epocale, in quanto ha sottratto la Shoah al monopolio identitario delle vittime. Ma Littell ha fatto di più (per i detrattori, di peggio): ha costruito il suo racconto sulla storia molto più che sulla memoria, sugli studi molto più che sulle testimonianze. Brutto o bello che sia, Le Benevole è un libro d'invenzione fondato sopra una conoscenza esatta, quasi maniacale, della storiografia universitaria intorno al genocidio degli ebrei e alla guerra sul fronte dell'est.

Il fascino della stagione odierna appare dunque, paradossalmente, quello di un Giorno della Memoria fatto soprattutto di letteratura e di storia. In Francia, cioè nel paese adottivo dell'americano Littell, la rentrée littéraire dell'autunno 2009 è stata marcata dall'uscita di un "romanzo" - così definito sul frontespizio - che programmaticamente partecipa di tutte e tre le dimensioni, memoriastoria- letteratura, e che le declina come per un ordine crescente di importanza. Jan Karski, di Yannick Haenel (nato lui pure nel 1967), si apre con la vera testimonianza autobiografica dell'eroe eponimo: il partigiano cattolico polacco che riuscì a trasmettere in Occidente, nel 1942, la notizia della Soluzione finale. Il libro prosegue con una contestualizzazione storicamente precisa, quasi pedante, delle circostanze in cui Karski ebbe a compiere la sua missione. Infine, il libro si chiude con l'unica parte romanzata: entrando nei panni del partigiano, Haenel ne racconta la vicenda senza più mediazioni. Scrive in prima persona. Aderisce al personaggio di Jan Karski al punto di appropriarsi della sua identità, e a costo di usurparla.

Facendo di necessità virtù, l'affrancamento dalla memoria diretta delle vittime consegna il Giorno della Memoria a un'idea di Shoah più larga di prima. Ne fa una storia di ebrei, ma anche di gentili.

Di vittime, ma anche di spettatori segnati per sempre dallo spettacolo del martirio, e di posteri segnati per sempre dalla parola Auschwitz. Lo scorso dicembre, il gesto criminale di una banda di polacchi - il trafugamento della famosa scritta sopra l'ingresso del lager, "Arbeit macht frei" - non è stato forse vissuto dal mondo intero come un'offesa insopportabile? Quanto più la Shoah si allontana nel tempo, tanto meno il criterio dell'appartenenza basta a contenerne il significato universale.

In questo senso, il libro italiano che più merita di essere letto per il Giorno della Memoria è quello pubblicato ora da Bollati Boringhieri e intitolato Gerico 1941. Storie di ghetto e dintorni. Altro volume ibrido, difficile da classificare, anche perché l'autore, Igor Argamante, parla di ebrei senza essere ebreo e scrive in italiano senza essere italiano. Nato nel 1928 a Wilno (l'attuale Vilnius, in Lituania) come Igor Argamakow da una madre cattolica polacca e da un padre russo ortodosso, emigrato in Italia dopo la guerra e a lungo dirigente dell'Olivetti, l'autore di Gerico 1941 ha saputo trasformare i suoi handicap in atout. Estraneo alla sinagoga, outsider della storia, dilettante della letteratura, ha scritto un libro tanto coeso quanto irriducibile a ogni definizione di "genere".

Per forza e per impertinenza, certe pagine di Argamante ricordano quelle di un altro dilettante della nostra letteratura, il Beppe Fenoglio dei Ventitré giorni della città di Alba. Così l'incipit del capitolo sul ghetto di Vilnius: «I tedeschi entrarono a Wilno all'alba del terzo giorno di guerra, il 24 giugno. I lituani esultarono e applaudirono. I polacchi, che spartivano equamente il loro odio tra russi e tedeschi, li guardavano con esibita ostilità. Gli ebrei cercarono di non guardarli, come quei cagnetti che hanno paura del cagnaccio e incontrandolo fanno finta di non vederlo, sperando che neanche lui li veda».

Oltre a quindici racconti brevi, Gerico 1941 contiene un racconto lungo che muove dal ricordo dell'amicizia fra il narratore russo-polacco e il suo migliore compagno d'infanzia, Hansi, ebreo di Praga rifugiatosi a Vilnius con i genitori nel '39 ma poi rinchiuso nel ghetto. Settant'anni dopo, Argamante non conosce con certezza il destino di Hansi, sebbene lo possa facilmente immaginare: inghiottito dalla Soluzione finale, come la quasi totalità degli ebrei di Lituania. «La sorte mi aveva piazzato ai margini di quell'inferno e per giunta comodamente seduto: Hansi invece si era trovato in mezzo, nella pece bollente. E oggi, se è vivo, mi chiede: "Chi ci libererà dai ricordi?">>.