Presentation   News Events   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS  zero 

Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

  Home Frenis Zero

        

 

Frenis Zero  Publisher

     

 "L'ESPERIENZA DEL CENTRO DIURNO"  

 

 

  di Maria Antonietta Minafra

 

 

Questo testo è tratto dal libro "Appunti di vista. Esperienze e testimonianze di riabilitazione psichiatrica" (Icaro, 2006) e contiene i temi che saranno al centro della relazione dell'autrice al convegno "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della  riabilitazione", organizzato dalla rivista di psicoanalisi Frenis Zero per il 12 maggio 2012 a Lecce ( www.identitacongress.tk ).

L'autrice è psicologa, psicoterapeuta di formazione psicoanalitica ed è stata responsabile del  Centro Diurno del Centro di Salute Mentale di Lecce. 

 


Il logo del convegno "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione" ideato da Rosanna Pellicani

 



 


 


 


 

            

 

   

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

clicca qui per la ricerca nel sito/Search in the website
A.S.S.E.Psi. web site (History of Psychiatry and Psychoanalytic Psychotherapy ) 

 

A.S.S.E.Psi.NEWS (to subscribe our monthly newsletter)

 

Ce.Psi.Di. (Centro di Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia") 

 

Maitres à dispenser (Our reviews about psychoanalytic congresses)

 

Biblio Reviews (Recensioni)

 

Congressi ECM (in italian)

 

Events (art  exhibitions)

 

Tatiana Rosenthal and ... other 'psycho-suiciders'

Thalassa. Portolano of Psychoanalysis

 

PsychoWitz - Psychoanalysis and Humor (...per ridere un po'!)

 

Giuseppe Leo's Art Gallery

Thalassa. Portolano of Psychoanalysis

Spazio Rosenthal (femininity and psychoanalysis)

Psicoanalisi Europea Video Channel

A.S.S.E.Psi. Video Channel

EDIZIONI FRENIS ZERO

 Nuova pubblicazione/New issue:

"The Voyage Out" by Virginia Woolf

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-97479-01-7

Anno/Year: 2011 

Pages: 672

Prezzo/Price: € 25,00

Click here to order the book

 

"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Preface: Alberto Angelini

ISBN: 978-88-903710-5-9

Anno/Year: 2011 (2nd Edition)

Prezzo/Price: € 18,00

Click here to order the book

 

"Psicoanalisi e luoghi della negazione" a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian,  A. Cusin, N. Janigro, G. Leo, B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.  Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-4-2

Anno/Year: 2011

Pages: 400

Click here to order the book

 

"Lebensruckblick"

by Lou Andreas Salomé

(book in German)

Author:Lou Andreas Salomé

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-97479-00-0

Anno/Year: 2011

Pages: 267

Prezzo/Price: € 19,00

Click here to order the book

 

"Psicologia   dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

Click here to order the book

 

"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

Click here to have a preview 

Click here to order the book

 

 

OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

Click here to order the book

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Se il paziente è nel ghiaccio, il terapeuta accende per lui un fiammifero:

interpreta il ghiaccio e la desolazione dell'esistenza,

ma accende una fiamma minuscola che traduce al paziente

sia la sua possibilità di capire che lui vive in un mondo

ove la rappresentazione di una fiaccola sarebbe una menzogna;

sia anche il suo bisogno che tuttavia vi sia in quel mondo

qualcosa che se pur impotente a fondere il ghiaccio,

attesti e documenti l'esistenza lontana della fiamma in mezzo alla negazione di essa.

 

Gaetano Benedetti

 

 

Nelle poche pagine che seguono vogliamo esporre la nostra esperienza in ambito terapeutico-riabilitativo, così come si è andata delineando in cinque anni di lavoro presso i laboratori del Centro Diurno  del CSM di Lecce. La nostra è stata una avventura collettiva vissuta con circa 100 pazienti (decisamente troppi! Ma tanti ne sono passati in quasi sei anni con alterne vicende), e soprattutto con gli operatori responsabili dei laboratori, con le tante persone che a vario titolo sono entrate in contatto con questa situazione lavorativa.

Abbiamo visto destini e storie di vita intrecciarsi con le nostre e con quelle dei nostri pazienti. Tutte hanno lasciato un segno e l'opportunità, comunque, di riflettere. Abbiamo a lungo discusso su come e cosa si dovesse fare o non fare, abbiamo avuto, anche da persone stimabili, sterili critiche che non ci hanno fatto crescere, inconsulti attacchi alla nostra operatività che non sono mai riusciti a diventare contributi propositivi o elementi di riflessione teorica. Contemporaneamente, e per fortuna, abbiamo vissuto storie bellissime di scambi e di attraversamenti di vite e saperi diversi che ci hanno fatto comprendere come il camminare insieme in una esperienza di lavoro possa essere culturalmente e umanamente gratificante, pur nelle mille contraddizioni delle scelte e le tante possibilità di errore. Di tutto abbiamo fatto tesoro, di tutto abbiamo preso atto: delle esperienze, dei percorsi, delle critiche, degli attacchi e dei riconoscimenti non perdendo mai di vista, in modo forse ossessivo, forse troppo rigido, il concetto fondante la nostra operatività, il nostro "mito delle origini" che era di "non fare manicomio". Noi che lo abbiamo vissuto e che lo abbiamo fisicamente alle spalle, dal lato  e di fronte, anche se ormai cambiato nelle sue destinazioni, ma sempre presente, pur nelle sue belle architetture. Questa sua "durata sovrastorica" è servita a non dimenticare, come diceva Foucault, che la presenza del manicomio domina e definisce anche un paesaggio morale.

Non sappiamo se siamo riusciti a mantenere o meno la promessa, noi pensiamo di sì. Ma, nel corso del tempo, da questa negazione che era un assunto teorico-pratico imprescindibile, abbiamo tratto lo spunto per pensare e aggiungere anche altri stili di lavoro integrabili e non alternativi a questa opzione teorica, per mettere in circuito, in favore dei pazienti, anche altre risorse che fanno parte della nostra specifica professionalità. Quella degli psicologi, non casualmente gli unici sopravvissuti e presenti alle riunioni (tra équipe inviante del C.S.M. ed équipe di operatori del Centro Diurno), che si tengono ogni mercoledì alle h. 12.00, improrogabilmente, da cinque anni.

Cercheremo perciò di spiegare questo connubio e contaminazione di operatività che ci ha consentito nel corso del tempo di costruire una struttura terapeutico-riabilitativa che a noi appare in grado di fornire elementi positivi e propositivi per la vita di molti nostri pazienti. 

 

 

 

 


 


Le Strutture intermedie

 
 
 
 
   

 

 

La pratica di questi anni e i processi di cambiamento che hanno interessato la psichiatria negli ultimi decenni hanno messo in discussione non solo lo sviluppo degli ospedali psichiatrici, ma la loro stessa sopravvivenza. Il caso italiano, nello specifico, ha assunto ulteriori caratteristiche, note ormai a tutti: a partire da una analisi della funzione sociale svolta dalla psichiatria e dal manicomio in particolare, analizzato insieme ad altre istituzioni del controllo, la nuova psichiatria italiana ha prodotto un lavoro teorico e pratico di "decostruzione" dell'istituzione manicomiale, che ha portato dapprima ad una sua trasformazione e successivamente al suo superamento.

Queste esperienze hanno anche profondamente modificato il tema della cura, proiettando all'esterno la ricerca di nuove modalità terapeutiche in grado di rispondere appropriatamente ai complessi bisogni di tipo psichiatrico (Tagliabue, 1993). La "psichiatria senza manicomio" ha modificato scenari di intervento e luoghi di cura, ha reso necessario pensare ai bisogni di una persona nell'arco di 24 ore e per 365 giorni... Estensibili, ma non "ripetibili" per il tempo necessario a quella persona.

Ciò ha significato l'avvio di nuovi Servizi (ambulatori, gruppi appartamento, centri residenziali, centri diurni, ecc.) che hanno consentito di aumentare in questi anni il bagaglio di conoscenze e di possibilità operative nei confronti dei pazienti psicotici.

Soprattutto la pratica nelle strutture intermedie, con le sue potenzialità, limiti e problemi specifici, se da una parte ha consentito di accumulare preziose conoscenze, dall'altra ha messo in rilievo anche i rischi di una prassi che, se non adeguatamente valutati, comportano la riproduzione delle stesse modalità e funzioni della tanto deprecata istituzione manicomiale. Del resto in Italia le strutture intermedie, così come tutta la rete dei servizi sul territorio, ha avuto destini profondamente differenziati a seconda delle varie realtà.

Per struttura intermedia si intende uno spazio comunitario su piccola scala, inserito  al massimo grado nella vita sociale, capace di servire da intermediario in tutte le situazioni di rottura con questa, sia che esse derivino dalla permanenza in un'istituzione, sia da uno sradicamento originario, da un'invalidazione sociale o psichiatrica, o da una situazione di miseria e solitudine  (Reverzy, 1981).

Al di là della storica collocazione sul percorso che dall'ospedale psichiatrico porta al contesto sociale, la struttura intermedia, per definizione, si propone di attuare cambiamenti: individuali, dalla destrutturazione verso l'identità; familiari, dall'espulsione verso l'accettazione; sociali, dall'emarginazione verso il re-inserimento (Tagliabue, 1993). Al tempo stesso la struttura intermedia, per le sue caratteristiche spazio-temporali, può costituire il luogo favorevole per lo sviluppo di programmi intensivi e diversificati, altrimenti impraticabili negli altri ambiti operativi di un Servizio di Salute Mentale.

I centri diurni, in particolare, nascono prevalentemente negli anni '80-'90 con il mandato di confrontarsi con una parte significativa di utenza grave, complessa e gravosa, che nel primo decennio del dopo riforma aveva mostrato i limiti della presa in carico ambulatoriale. Risultava non facilmente dimissibile a causa di una prolungata e irreversibile dimensione di dipendenza dalle strutture pubbliche e presentava una progressiva limitazione in alcune aree dell'attività della persona, soprattutto nella cura di sé, nella comunicazione, verbale e non, nell'apprendimento, nella capacità di muoversi autonomamente, nella possibilità/capacità di garantirsi una autosufficienza economica. Nascono per farsi carico, in altri termini, di quei pazienti che "nel continuum  dipendenza-autonomia si situano sul versante in cui la dipendenza da un 'oggetto' (persona, gruppo, istituzione) costantemente presente è necessaria per poter provvedere ai propri bisogni vitali. Persone la cui 'non idoneità all'autoconservazione' prevede e pretende interventi prolungati per favorire, ove possibile, maggiore emancipazione e un migliore grado di funzionamento  dell'Io e di integrazione del  Sé" (Zapparoli, 1988).

A partire da questi contesti, negli ultimi anni il termine "riabilitazione" è venuto a far parte a pieno titolo delle "parole della psichiatria" ma sembra a tuttora connotare una attività finalizzata al recupero di abilità sociali, elementari o complesse, attraverso procedimenti educativi o modalità relazionali tutt'al più imitative e a cui è stato troppo spesso attribuito un peso teorico nel complesso ridotto e di minore spessore rispetto agli interventi tradizionalmente definiti "terapeutici".

Come se fosse comune l'idea di una supremazia del parlare sul fare, che ci fossero i luoghi della terapia o della psicoterapia e i luoghi della riabilitazione, gli psichiatri da una parte e il personale paramedico completamente dall'altra.

A ben vedere, se utilizziamo la definizione elaborata nel 1987 da Gianfranco Minguzzi e colleghi di "psicoterapia come intervento basato quasi esclusivamente sul rapporto interpersonale, prolungato nel tempo, con un programma più o meno esplicito, volto ad alleviare il disagio psichico, o a modificare un comportamento o un rapporto interpersonale o una condizione esistenziale", la pretesa differenza fra ambito psicoterapeutico e ambito riabilitativo decade. O meglio, pone il problema di strategie operative che, utilizzando contesti e professionalità diverse, tentino di integrare i vari interventi in una continuità di senso che valorizzi l'aspetto comunicativo e di scambio insito in qualunque tramite, gesto o parola che sia, e che quindi, come augura Tagliabue, "riabiliti" un fare troppo spesso svalorizzato (Tagliabue, 1993).

O come fanno notare molti autori poter pensare che l'istituzione riabilitativa è un campo in cui i fenomeni di interazione fra utenti e operatori, fra utenti e utenti e fra operatori e operatori costituiscono un tessuto complesso di dinamiche che, se adeguatamente condotte e integrate, rappresentano il futuro terreno di sviluppo di trasformazioni e di ricerca (Correale, 1994). Si tratta dunque di valorizzare funzioni interattive presenti in qualunque tipo di lavoro terapeutico e quindi anche nelle attività riabilitative, che, in particolare, permettono lo sgretolamento e la decostruzione di stereotipate modalità relazionali, facilitando la trasformazione di elementi psicologici e il recupero di competenze perdute non solo dai pazienti ma anche dalle istituzioni di cura.  è chiaro che tutto questo prevede un diverso assetto mentale e un modello organizzativo e di setting nel quale tenere conto dei contributi più recenti in tal senso come gli interventi combinati (Ballerini e Berti Ceroni), gli interventi integrati (Zapparoli), il gruppo di lavoro (Berti Ceroni), l'analisi del campo istituzionale (Correale) e per finire, ma non da ultimo, quella che potremmo definire "l'attenzione all'uomo e al suo libero porsi nel mondo" (Basaglia). è in questo contesto teorico che può essere recuperata l'affermazione di Racamier secondo la quale lo psicoanalista può assumere diversi atteggiamenti nei confronti della istituzione psichiatrica, uno dei quali e non il più facile, è occuparsi del funzionamento, della trasformazione e persino della creazione di un organismo istituzionale. Di questo stesso organismo egli diventa sia l'osservatore che l'animatore (Racamier, 1972; Borghi, Greco et al., 1994). 

 

  I progetti terapeutici e il setting

 

 
 

 

 

La mente umana si identifica con il senso che viene attribuito alla percezione degli avvenimenti interni ed esterni al sé. Il lavoro psicoterapeutico deve tendere alla trasformazione di questi aspetti quando risultino, per una persona o un gruppo di persone, disfunzionali alla realtà e causa di sofferenza. Il modo più semplice per aiutare una persona che si trova in difficoltà è quello di scambiare punti di vista all'interno di un incontro formalizzato. Questo incontro si chiama setting ed è il presupposto della psicoterapia intesa in senso clinico.

Fin quando è possibile rispettare le regole, il setting costituisce un riferimento indispensabile sia per il paziente che per il terapeuta.

Intendiamo allora per setting l'insieme delle regole formali relative al tempo e allo spazio in cui si realizzano le sedute analitiche, regole fin dall'inizio poste e accettate in modo condiviso e consapevole da entrambi i contraenti. Ci riferiamo, come è noto, al luogo e al numero  delle sedute, al loro ritmo regolare, alla loro durata, alle modalità di pagamento, all'uso del lettino. Tale insieme di norme costituisce il contratto analitico e, in quanto elemento reale, non è da analizzare. Invece sono da analizzare nei tempi e nei modi idonei le modificazioni o trasgressioni che il paziente può apportare a tali regole (Arrigoni Scortecci, 1988).

Indicheremo, perciò,  con setting terapeutico quei progetti terapeutici nei quali è possibile definire il setting, al di là delle regole che si ritiene di dover adottare, e in questo caso la terapia assume una sua specificità che unisce nello spazio mentale del terapeuta e del paziente - riflessione condivisa in un setting - i vari momenti dell'incontro e i vissuti che si generano fra un incontro e l'altro (Piperno, Riefolo, 1994).

Ma nella terapia con i pazienti psicotici questo non è sempre possibile e i vari elementi del contratto dovranno essere modulati all'insegna del raggiungimento della distanza emotiva ottimale per quel determinato paziente in quel determinato momento, distanza che perciò terrà conto dei bisogni e delle problematiche del paziente stesso (Arrigoni Scortecci, 1988).

Noi abbiamo cercato  di tenere in mente questi concetti nei progetti riabilitativi e nella organizzazione della operatività del Centro Diurno, considerato che proprio in questa sede si possono più facilmente valutare i bisogni del paziente come persona, aiutandolo a differenziare e ad integrare le proprie qualità psichiche, affettive e comportamentali, anche e soprattutto in riferimento all'équipe degli operatori, nell'articolazione delle specifiche funzioni dei membri che la compongono.

L'inserimento nel Centro Diurno avviene come sempre su segnalazione dell'équipe curante, e senza alcuna selezione rispetto alla diagnosi di ingresso e l'inserimento deve solo essere compatibile con gli spazi disponibili (fisici e mentali della struttura). Considerato inoltre che il Centro Diurno è l'unica struttura riabilitativa semiresidenziale esistente nel C.S.M. della città, è evidente che non si possa attuare alcun altro tipo di distinzione o "scrematura" (De Leonardis, 1990).

L'accoglienza, che è poi una osservazione partecipante, dura circa un mese, il tempo necessario al paziente per capire cosa vuole fare, a quale attività vuole dedicarsi, quale laboratorio frequentare. A noi serve per conoscerlo e individuare i suoi bisogni. La modalità di osservazione che abbiamo cercato di mettere in atto prevede, infatti, una fase preliminare utile a delineare un quadro conoscitivo della persona, indipendentemente dalla diagnosi psichiatrica, che risulta sostanzialmente sterile, o per lo meno insufficiente ai fini del progetto di integrazione di interventi finalizzati alla riabilitazione.

Il nostro lavoro comprende, invece, l'individuazione dei bisogni del paziente, il riconoscimento delle difese che egli mette in atto di fronte a tali bisogni e un profilo della sua personalità inserito nel contesto dei sintomi presentati e del comportamento generale. In questa fase, e in relazione alle riunioni con l'équipe inviante, l'attenzione e il lavoro delle operatrici, tutor dei vari laboratori, sono fondamentali, perché sono loro a trascorrere tutto il tempo necessario con il paziente al quale illustrano tempi e modalità e quanto altro occorra conoscere sul Centro Diurno e sul suo funzionamento; e che, soprattutto, organizzano con lui una prima fase di fare e saper fare, offrendo risposte adeguate ai suoi bisogni e alle sue possibilità.

Evidenziare questi bisogni consente, inoltre, di iniziare a valutare in maniera attendibile sia le sue necessità di separazione-individuazione sia la sua necessità di mantenere un rapporto di dipendenza; il suo rapporto con lo spazio e con il tempo; la capacità di rispettare le regole, ecc.. L'intervento dell'operatore diventa quindi modulato in funzione dei bisogni presentati e non dell'entità dei sintomi manifestati,  che sono invece considerati in relazione ai bisogni stessi. è evidente che un tale criterio operativo richiede la programmazione di un piano di trattamento individualizzato con la previsione di determinati obiettivi da raggiungere (in relazione ai bisogni individuati) e la disponibilità a eventuali modificazioni degli interventi o al loro mantenimento, a seconda del mutare o del persistere di determinati bisogni.

Questa sorta di protocollo di primo intervento richiede, in sostanza, agli operatori e alle istituzioni, una certa elasticità nell'adattarsi ai bisogni dei pazienti che hanno in carico, problema questo non sempre di facile soluzione nella sua realizzabilità quotidiana. Si riscontra molto spesso nelle strutture che elasticità e al tempo stesso attenzione sono qualità carenti, sostituite invece da comportamenti rigidi che richiedono l'adattamento dei pazienti ai bisogni dell'istituzione o degli operatori, pena il rifiuto o l'espulsione. Ci si scontra facilmente con l'ideologia dell'istituzione, con la disattenzione dei colleghi, con l'urgenza di altri progetti nei quali inserire i pazienti, con l'idea, sempre presente - al di là delle parole - e difficilmente modificabile come stereotipo "psichiatrico", che nei Centri Diurni si dipinga, si legga, si scriva, si ascolti musica, o si costruiscano oggetti per i quali il massimo riconoscimento è che siano "cose carine", che le iniziative siano divertenti, che le situazioni collettive di festa o di piazza siano ben organizzate. Ma riabilitare o abilitare non è sicuramente solo questo. Abbiamo cercato, nel corso del tempo, di modificare questa visione riduttiva che rimandava all'intrattenimento tanto deprecato da Saraceno,  ma ci siamo imbattuti in azioni spesso disomogenee e in risposte non adeguate al nostro progetto di lavoro, traendone il convincimento che, al di là degli enunciati, pochi condividono e accompagnano reali percorsi di "guarigione". 

 

 

I "bisogni" dei pazienti

 

 

Nelle strutture intermedie abbiamo l'opportunità di offrire un contesto terapeutico dove si possono attuare progetti che utilizzano soluzioni dilazionate nel tempo e nello spazio.

In questo contesto, al contrario di quello che accade in un setting, si verifica una sorta di frammentazione dei momenti terapeutici legata alla molteplicità delle relazioni e si compiono azioni concrete che vengono incontro alla difficoltà dei pazienti psicotici ad effettuare operazioni simboliche. Questa difficoltà rende indispensabile l'attribuzione di significato ad attività centrate su cose concrete, su cose che siano connesse con un dare e con un fare concreto, attraverso "incoraggiamenti discreti e presenza benevola" (Zapparoli, 1988).

Per questo è spesso necessario allargare i confini della relazione a tempi e spazi diversi, generalmente più elastici, che cambiano anche i presupposti della terapeuticità e le modalità di intervento. Abbiamo potuto constatare  che per i pazienti psicotici è utile avviare progetti che utilizzino molteplici modalità comunicative in diversi contesti interattivi, finalizzati, comunque, ad una trasformazione della loro condizione esistenziale, che rimane l'obiettivo prioritario di tutti i progetti riabilitativi.  I nostri sono pazienti i cui processi di differenziazione e integrazione propri della crescita sono stati gravemente compromessi da relazioni oggettuali precoci assai disturbate. Questo produce deficit evidenti nelle aree di funzionamento dell'Io, dell'autonomia e della capacità di strutturare concetti stabili e realistici di Sé e degli altri e pertanto gravi difficoltà di relazione con se stessi, con gli altri e in generale con la realtà.

Siamo di fronte a persone che hanno sofferto danni profondi alla struttura coesiva del sé, cioè alle strutture spazio-temporali e corporee, coesive e stabilizzanti del senso di sé, che si formano nell'epoca in cui la mente non dispone di strumenti adeguati alla rappresentazione tramite immagini o parole di ciò che sta sperimentando. Il danno al senso di sé è derivato prevalentemente dalla mancanza di convalida, nonché di condivisione e compartecipazione integratrice da parte delle figure significative, di esperienze relazionali importanti e ripetute.

La logica portante di un progetto terapeutico per questi pazienti diventa allora fornire loro la possibilità di costruire relazioni, o ripristinare fiducia nelle relazioni, attraverso una posizione "conservatrice" e poco esplorativa degli operatori, in una dimensione "protetta" (ma non falsa, artificiale o qualitativamente scadente). Prerogativa questa che configura un intervento assistenziale di lunga durata (Zapparoli et al., 1988; Saraceno, 1996). Ci riferiamo, ancora una volta, alle riflessioni teoriche e all'esperienza di ricerca di Zapparoli e collaboratori.

Una posizione corretta in grado di dare un apporto decisivo da un punto di vista operativo, e che permetta di affrontare l'eterogeneità delle manifestazioni dei disturbi psichici, deve riferirsi alle "più attuali teorie eziologiche delle malattie mentali [...] che postulano un'interazione tra fattori ereditari-costituzionali e ambientali-esperenziali-traumatici alla base del disturbo psichico. Una vulnerabilità, per esempio alla schizofrenia, può essere trasmessa geneticamente [...] ma devono intervenire fattori di stress ambientale perché queste tendenze si sviluppino in una manifestazione psicopatologica. Esisterebbe cioè una predisposizione non specifica, che si sviluppa in una sindrome solo in seguito all'azione di stimoli ambientali traumatici. Le influenze psicosociali avrebbero quindi un profondo impatto sullo sviluppo psichico, essendo in grado di accrescere o diminuire un'innata vulnerabilità. Nel caso in cui questa predisposizione sia particolarmente grave, o ad una predisposizione di più lieve entità si aggiungano influenze ambientali particolarmente disturbanti, si avrà come conseguenza un disturbo evolutivo che nei gradi estremi avrà le caratteristiche di un deficit strutturale, con perdita irreversibile di una funzione o gruppo di funzioni, scarsa strutturazione del sé  e insufficiente differenziazione tra il sé e il mondo esterno. Man mano, invece, che l'azione dei fattori ereditari, costituzionali, ambientali, o la loro interazione, è meno importante, risulteranno ridotte le componenti di deficit rispetto a quelle conflittuali, nell'originare le manifestazioni psicopatologiche.

Un primo ordine di valutazione rispetto al trattamento viene fornito dal riferimento ad uno schema che propone l'esistenza di un continuum ai cui estremi si situano i disturbi originati da fattori di conflitto da un lato, e quelli caratterizzati da fattori di deficit dall'altro. Le tecniche psicologiche di esplorazione e interpretazione costituirebbero il trattamento elettivo per i disturbi del primo tipo, ma andrebbero affiancate, integrate o sostituite da tecniche diverse, man mano che ci si avvicina all'estremo opposto. Tra queste modalità di intervento possiamo annoverare l'intervento assistenziale che può venire incontro ai bisogni di base di quei pazienti che, per i motivi suesposti, non sono in grado di mantenere in modo continuo uno stabile equilibrio o garantirsi la sopravvivenza"(Gislon, 1988).  

 

L'intervento assistenziale

 

 

Questo tipo di intervento assistenziale è diretto a sostenere o, se possibile, incrementare l'organizzazione dell'io, rivolgendo l'attenzione agli aspetti di disadattamento e sostenendo o favorendo le funzioni evolutivamente più progredite, ad esempio quelle di prender decisioni, fare programmi o organizzare e prevedere. Si tratta in questo caso di una funzione antiregressiva, che sostiene lo sviluppo del senso di efficienza e di competenza attraverso l'incoraggiamento della capacità potenziale di risolvere i problemi. L'operatore si pone essenzialmente come una figura concreta che fornisce un ancoraggio alla realtà o come "Io ausiliario" del paziente per colmare, per quanto possibile, il deficit del suo funzionamento rispetto alla realtà. In questa relazione con una figura reale e concreta vengono incoraggiate nel paziente la fiducia e la sicurezza che derivano dal sentirsi preso in carico secondo i propri bisogni. Tale fiducia e sicurezza possono progressivamente essere contrapposte alle precedenti esperienze di sfiducia di base e alla diminuzione dell'autostima. Tale relazione permette di vivere quella che è stata definita "esperienza emotiva correttiva", che in questo caso modifica le aspettative del paziente di essere rifiutato, conseguenti al non sentirsi capito e accettato secondo le sue necessità individuali. L'essenza dell'esperienza emotiva correttiva sta quindi nel fornire all'Io l'opportunità di riadattare i vecchi modelli patologici alle mutate condizioni interne ed esterne. L'esperienza emotiva correttiva si riferisce al fatto che alcuni eventi che il paziente si aspetta che accadano non si realizzano, ed egli impara che le sue fantasie non sono necessariamente vere: di conseguenza si modificano le sue idee e fantasie, così come le sue reazioni emotive. Il bambino che aveva dovuto adattare le proprie reazioni  al comportamento dei genitori comincia ad imparare, attraverso le reazioni degli operatori, che ci possono essere  anche modalità di relazioni diverse e questo gli impone di modificare e correggere vecchi modelli cognitivi, emotivi e comportamentali.

L'elemento comune a tutte le funzioni proprie dell'assistenza è apparso quello di poter fornire al paziente alcune sicurezze mediante l'accudimento personalizzato. Come sappiamo una delle caratteristiche della condizione psicotica è la necessità di un sostegno esterno per il soddisfacimento dei bisogni di base legati alla sopravvivenza, cui il paziente non è in grado di dare una risposta autonoma adeguata. Tale funzione è spesso svolta dai genitori o da altre persone dell'ambiente familiare ed è ben noto come, di conseguenza, uno  dei problemi più angosciosi che i nostri pazienti vivono derivi  dal timore di non avere più l'appoggio  di queste persone dalle quali sentono dipendere  la loro sopravvivenza (Gislon,  1988).

Abbiamo molto lavorato, pertanto, su ipotesi che sollecitassero  le capacità e gli affetti più elementari; abbiamo proposto autostima  e cercato  di dare consapevolezza di dipendere da persone  affidabili. Abbiamo fornito, ove possibile, un supporto che permettesse la riscoperta  di "parti"  di sé  ancora capaci di relazione con l'Altro. Attraverso  questi prerequisiti abbiamo constatato anche  che il lavoro  e la condivisione con il gruppo, la presenza costante degli operatori hanno sempre rappresentato  un valido  contenimento psicologico  dell'aggressività.  

 

  L'operatività del Centro Diurno
  Possiamo proporre alcuni ulteriori chiarimenti sul nostro lavoro. Le modalità con cui si possono organizzare progetti terapeutici sono moltissime e perciò implicano una scelta da parte dell'operatore e del servizio, sempre nel rispetto delle esigenze di quel paziente in quel momento, o come dice Beppe Dell'Acqua "aprendo  la testa  di fronte a quel paziente"! Ma non sono in contraddizione con altre possibili scelte. Noi abbiamo verificato che le situazioni più significative per il paziente sono date  dalla possibilità di sperimentare  una o più relazioni con gli operatori di riferimento  a patto che queste relazioni presuppongano una dimensione comunicativa che va molto  al di là  di quello che viene fatto o detto.

Questo approccio ha consentito e ha avuto la funzione di sollecitare il paziente a riformulare progressivamente la sua visione del mondo, a fare sì che  la continuità del sé, garantita  dalla "fiducia di base" che gli operatori gli hanno saputo fare acquisire,  gli facesse scoprire una nuova visione del mondo,  meno conflittuale  perché più adattativa  e in grado  di fornire  maggiori gratificazioni (Bowlby, 1973).

Abbiamo attuato una sorta di accompagnamento  e di bonifica con un "compagno vivo", abbiamo offerto un accudimento intelligente  modulato sull'offerta di proposte pensate  per non deludere (le frustrazioni ottimali); che affronta il tema della cura e dell'accudimento, che insiste sul ripristino del modello onfalicentrico dell'"aver cura di" di tipo materno,  l'incontro, cioè, tra la  dipendenza del paziente e l'affidabilità  dell'operatore (Fornari,  1976; Kohut, 1971).

In questa dinamica compito del paziente è l'organizzazione e riorganizzazione della struttura emotivo-cognitiva; compito dell'operatore è suscitare il cambiamento attraverso  offerte propositive  accettabili, riconoscibili, coerenti per incentivare modelli di pensiero e di comportamento più maturi e realistici. Devono, perciò, essere  attività e proposte "con senso" e non semplici "intrattenimenti", non fosse altro perché, come spesso diceva Franco Basaglia  "a persone che sono state espropriate di tutto, noi abbiamo l'obbligo di dare il meglio". E del resto  se uno degli obiettivi della cura istituzionale è la possibilità di una buona identificazione, dell'acquisizione di un maggior senso  di sicurezza, dell'allargamento delle aree di autonomia, sia le attività che gli operatori  devono essere  deputati  a questo: attività valide e di qualità allora, offerte da operatori  che diventino  essi stessi produttori  di senso, in una relazione consapevole  del fatto che "l'altro, sempre, può reinventarti o toglierti la parola"  (Rotelli, 1998).

Altrettanto importante è poter offrire uno spazio dove il paziente impari a sentirsi, e uno spazio di rappresentabilità dove impari a fare, a raccontarsi, a mettersi in relazione con l'altro. Un luogo che gli consenta un recupero  di soggettività, un luogo  dove essere,  dove avere una "identità narrativa" che consenta coerenza e continuità del sé, per essere autore e costruttore, protagonista della sua storia (Ferruta, 2000).

Uno spazio di accoglimento che sia, come per tutti nei momenti di difficoltà, un luogo dove si possa elaborare la possibilità di solitudine, non pericolosa, non minacciante, dove tutto possa giocarsi sulla concezione del passaggio, del margine, di uno spazio intermedio in cui il soggetto si inserisce; dove si costituisce il suo proprio spazio, che non è né quello  della separazione, né quello della fusione, ma quello della sua cultura e delle sue possibilità (Clément, 1977).

Una specie di esperienza transizionale, dunque, dove sia possibile che le attività proposte possano avere una funzione di mediazione, sollecitando  l'animarsi di relazioni affettive che, a loro volta, producano integrazione, coesione e senso  di appartenenza. Uno spazio dell'illusione, un'area  illusionale che permetta "una protezione dal panico suscitato dal problema della propria non guaribilità" (Zapparoli, 1997).

Afferma  ancora Zapparoli (1997): "Spesso i pazienti psicotici sentono [...] il panico di non poter guarire da una condizione vissuta come un deficit irreversibile che non permette loro un'esistenza autonoma; i pazienti terminali vivono una condizione uguale di panico di fronte all'impossibilità di 'guarire' dalla morte. Entrambi sono individui che non sono in grado di accettare il proprio reale deficit o il proprio reale limite e hanno di conseguenza la necessità di essere aiutati, per non vivere una condizione emotiva di panico o di terrore,  a sviluppare una difesa nei termini di un'illusione".

è quello che cerchiamo di fare nel nostro lavoro, poter offrire una nuova possibilità emotiva raggiungibile e vivibile, dove la sicurezza di un riferimento costante ad una fonte esterna di dipendenza per alcuni fondamentali bisogni permetta  di sviluppare aree di autonomia.

Nel Centro Diurno, come abbiamo già detto, non si lavora  sulle patologie, ma sui problemi che ne sono derivati: il tempo e lo spazio, il rapporto fra sé  e l'altro, il rispetto delle regole, il rispetto per l'altro, lo spazio ludico, la creatività, la capacità di scrivere un articolo per il giornale, la possibilità di andare in Casa Editrice per stampare, poi  impaginarlo, spedirlo; la raccolta di materiale e la costruzione di oggetti, la pittura, la danza, la lettura, ecc...

La terapeuticità dell'intervento  sarà allora legata  alle differenti modalità di "stare nella relazione" da parte dell'operatore e al modo con il quale le cose, le attività o le situazioni vengono date e proposte al paziente...

Leonardo ritiene di essere, e probabilmente lo è, un grande  artista  e pensa di riuscire  a portare avanti autonomamente le sue attività e i suoi progetti senza il minimo senso di "principio di realtà", per poi tornare e sorridere con noi  delle sue aspettative deluse; Gustavo e Sergio ritengono  di essere grandi attori di teatro in grado di effettuare, finalmente svincolati dal Centro, una tournée  in tutta Italia,  a  patto poi di ricredersi  dopo la prima difficoltà concreta e tornare  a parlarne con noi.

Abbiamo capito che spesso i nostri pazienti utilizzano le attività più autonome e sganciate dalla struttura per poi mantenere un'area di dipendenza con questo Centro Diurno "sufficientemente buono" al quale sempre ritornano, o per informarci delle nuove attività intraprese o delle delusioni subite, o in occasione delle feste o per vedere se siano  state avviate nuove iniziative cui partecipare.  Ma anche al contrario, quando qualcosa non va per il verso giusto. è come un luogo  "al limite" dove poter star bene o star male, ma sempre a propria "misura".

Abbiamo constatato una gradualità nei processi evolutivi, di emancipazione, di autonomia, ma non riusciamo ancora a monitorarli  nelle loro fasi per ogni singolo paziente; soprattutto non abbiamo ancora capito se questo "continuo ritorno" dipende  dall'aver noi  ingenerato dipendenza, o da una  loro necessità, considerati  anche i notevoli livelli di autonomia raggiunti  da qualcuno.  Ci è parso comunque  evidente che le persone inserite in progetti di avviamento al lavoro siano state  quelle che hanno tratto complessivamente maggiori vantaggi dalla frequentazione del Centro Diurno  e, contestualmente, siano quelle che più facilmente hanno messo in atto situazioni di svincolo progressivamente più stabili nel tempo. 

 

 

Lo spazio transizionale e la creatività

   L'elemento su cui concorda la maggior parte dei clinici  che si occupano di psicosi è l'esistenza  di confini scarsamente differenziati tra la realtà interna e quella esterna: l'incapacità di differenziare tra fantasia e realtà che, in varia misura, caratterizza i vissuti dei nostri pazienti.

"Si ritiene in generale inadeguata una definizione  della  natura umana in termini di relazioni interpersonali, anche quando si tenga conto dell'elaborazione immaginativa della funzione e delle fantasie consce ed inconsce, compreso l'inconscio rimosso. Vi è un altro modo di descrivere le persone [...] per ogni individuo  che abbia raggiunto lo stadio dell'unità (con una membrana  che separa  il dentro dal fuori) si può dire  che esiste una realtà interna, un mondo interno che può essere ricco o povero, in stato di pace o di guerra.

Io affermo che se vi è bisogno di questa doppia formulazione ve ne  è una  terza necessaria: la terza  parte della vita dell'essere umano, una parte che non possiamo ignorare, un'area intermedia di esperienza a cui contribuiscono sia la realtà interna sia la vita esterna. Si tratta di un'area  che non viene messa in causa poiché non si pretende nulla da essa se non che esista come rifugio dell'individuo perpetuamente impegnato nel suo compito umano di tenere le due realtà, interna ed esterna, separate e pur tuttavia in relazione l'una con l'altra [...]. Un'area neutra di esperienza che non gli verrà mai contestata [...]. Quest'area intermedia è direttamente collegata  con l'area ludica del bambino più grande che si perde nel gioco"  (Winnicott, 1951).

Quest'area "ludica" svolge cioè la funzione di un'area transizionale dove la possibilità di un controllo onnipotente e la possibilità di credere in una propria autosufficienza onnipotente (di creare il proprio oggetto o mondo di soddisfacimento  del bisogno) coesiste con lo sviluppo iniziale da una parte  della capacità di illudersi, legata all'illusione che esista una realtà esterna che corrisponde alla propria capacità di creare, dall'altra  della capacità di simbolizzazione, che permette di usare un oggetto  esterno come simbolo di un oggetto  parziale (il seno), indirettamente, attraverso  il suo significato di oggetto (seno)  intero  (Winnicott, 1951).

L'ipotesi qui proposta è che la dimensione ludica sia espressione di una iniziale accettazione e di una iniziale possibilità di elaborazione e di trasformazione del delirio e della sua funzione di difesa dal panico  (Zapparoli, 1988; Rinaldi, 1999).

In questa trasformazione hanno un ruolo importante alcune funzioni: innanzi tutto la creatività, ma non più come avviene nella produzione del delirio (in funzione di una sostituzione della realtà oggettiva con una realtà interna diversa mirata a disconoscere il mondo esterno). Qui al contrario le fantasie possono trovare un'espressione e una possibilità di gratificazione "parziale", accompagnata  da una parziale frustrazione, che consiste nella consapevolezza della qualità non reale delle realizzazioni in fantasia. In questo senso possiamo offrire ai nostri pazienti uno spazio transizionale tra il mondo esterno e il mondo interno (il centro diurno e le attività dei laboratori), e un oggetto transizionale, una figura (l'operatore) che si propone come esterna ma che accetta di essere oggetto delle proiezioni del paziente e che quindi, "creata" dal paziente sotto la spinta dei suoi bisogni, è sotto il suo controllo onnipotente e può essere "manipolata".

Non a caso gli operatori del Centro sono spesso investiti di un potere sconfinato o al tempo stesso svalutati nei loro ruoli, funzioni o capacità, diventano oggetto di disegni caricaturali, di dediche affettuose, di severi commenti, o di lodi spropositate, talvolta letteralmente inglobati nel delirio. Il paziente riesce ad utilizzare la figura dell'operatore come oggetto dei propri deliri e di affetti ambivalenti e questo gli dà la possibilità di mantenere e continuare ad utilizzare queste proiezioni a volte deliranti come difesa dal panico. Tutto questo amplia l'area del funzionamento "normale" attenuando il conflitto tipico e fondamentale dello psicotico tra accettare di avere bisogni e rifiutare di averne e aiuta a sviluppare una primitiva capacità di vivere i propri bisogni/desideri e di esprimerli nel rapporto interpersonale.

Come seconda conseguenza permette un ambito nel quale viene accettata e vissuta la parte psicotica delirante, ma questo avviene nell'interazione con una figura esterna, la quale è contemporaneamente una figura reale che accetta di "delirare insieme" e quindi di essere oggetto della proiezione degli introietti del paziente (Zapparoli, 1967). è allora possibile che anche nel paziente si realizzino nello stesso tempo sia la parte psicotica, che nega la realtà, sia quella non psicotica, che accetta la realtà, e che attraverso  questa particolare relazione dialettica delle due diverse valenze, di accettazione e di negazione della realtà, possa avere inizio lo sviluppo  della capacità di simbolizzare, cioè di capire che l'oggetto reale è simbolo  di un oggetto interno (Gislon, Zapparoli et al., 1988).

Del resto anche i "laboratori" vengo criticati  o scelti entusiasticamente, a volte senza una precisa motivazione, ma, progressivamente, aumenta il senso di sicurezza del paziente nello svolgere quella determinata attività, perché gli è permessa una esperienza differente, più gratificante, rispetto ai suoi bisogni e alla possibilità che vengano soddisfatti, attraverso una propria funzione creativa, quindi sotto il proprio controllo. Ad esempio la pittura e la redazione del giornale sembrano molto adeguati  a  questa specifica esigenza oltre che alla incentivazione  di notevoli margini di autonomia. Si sviluppa anche la capacità di tollerare la frustrazione e un contatto diverso col mondo esterno, su cui il controllo onnipotente può essere, gradualmente, anche se in certi casi solo parzialmente, abbandonato a favore di una maggiore capacità di accettare la realtà e di svolgere un esame di realtà.

Fondamentalmente, quindi, ci si trova di fronte alla possibilità di passare dalla soggettività  alla percezione oggettiva e all'esame di realtà, da forme di pensiero concreto  a forme di pensiero simbolico: in questo senso, sottolineano alcuni autori, questo è "addirittura" un funzionamento più progredito rispetto a quello richiesto dall'attività lavorativa (Gislon, 1988).

Questa funzione è di solito svolta dallo psicoterapeuta, ma non con i pazienti il cui pensiero opera prevalentemente ad un livello concreto, per i quali è necessario  che vi siano persone che interagiscano al livello della vita reale, in modo più diretto, senza che sia necessario trasformare la relazione simbolicamente. L'incapacità di ricreare in modo simbolico gli aspetti delle relazioni più precoci, che consente alla relazione terapeutica di simbolizzare gli stadi evolutivi più primitivi, è uno degli elementi che rendono necessaria per questi pazienti la funzione dell'assistenza. Semmai, in certi casi, nella psicoterapia possono essere elaborati proprio i problemi che si sono presentati  nell'ambito  dell'intervento assistenziale (Gislon, 1988).

Ed è questo  il tentativo di senso delle nostre riunioni del mercoledì, che non sono soltanto organizzative e che cercano faticosamente di integrare gli interventi che siamo in grado di offrire. 

 

   
 

Le invenzioni per i pazienti

   Nel momento in cui siamo chiamati a svolgere questo tipo di lavoro la domanda più produttiva è domandarci quale "invenzione concettuale" possa rendere più agevole la comprensione e l'aiuto ai pazienti, anzi, a quel determinato paziente, in quel momento della sua vita e della sua storia personale.

"In quest'ottica saranno le invenzioni del terapeuta o dell'operatore della riabilitazione, insieme a quelle del paziente, le loro reciproche costruzioni della realtà ad avere potenzialità trasformative, l'invenzione di un modo altro, la creazione di opportunità, di possibilità, di probabilità per il paziente" (Rotelli, 1994). Queste reciproche costruzioni servono agli operatori e alla loro formazione e soprattutto, come continua Rotelli, alla riabilitazione della psichiatria, che non è praticabile senza una trasformazione culturale dei contesti; servono dunque a poter de-istituzionalizzare la scena della follia (Saraceno, 1996).

E, in tal caso "...saremmo noi psichiatri ad andare alla ricerca di un ruolo che non abbiamo ancora mai avuto e che ci metta - per quanto possibile - alla pari con il malato in una dimensione in cui la malattia come categoria data venga messa tra parentesi" (Basaglia, 1967).

Questo è un passaggio importante perché presuppone che chi è delegato alle cure debba legarsi in un sodalizio particolare, la co-coscienza di essere alla pari,  con chi deve essere curato. Chiameremo questo sodalizio relazione terapeutica. Ed è questa relazione che diventa di fatto il vero soggetto curante.

Di fronte alle frustrazioni i nostri pazienti tendono a ritirarsi in uno spazio autistico dal quale li dobbiamo "stanare", dopo averli "trovati". Non sono loro a chiedere aiuto e a farsi avanti, ma è l'operatore che deve entrare nel loro mondo, spesso perdendo il senso delle cose che fa. L'operatore è confuso rispetto al se e come intervenire. La sua unica possibilità è offrire se stesso come persona,  in un rapporto  in cui le capacità umane  si fondono e confondono con quelle professionali (Borghi, Greco et al., 1994).

In una dimensione dove "ogni polo della realtà cerchi attraverso l'altro il proprio significato" (Basaglia, 1967).

"L'uso di sé", cioè delle proprie emozioni e dei propri vissuti nella relazione, diventa a volta l'unico strumento che può metterci in autentico contatto con il paziente (il termometro della situazione), al di là di tutti gli atteggiamenti spesso confusivi e contraddittori da lui messi in atto; ciò richiede una nostra disponibilità emotiva che, nella presa in carico di questi pazienti, è indispensabile (Arrigoni, 1974).

"Dare le cose" viene così  ad assumere  una duplice funzione: soddisfare i bisogni e introdurre una relazione, o meglio saper comprendere i bisogni ed evidenziarli, piuttosto che necessariamente soddisfarli (Bonetti, 1988).

Il prendersi cura della cronicità si concretizza allora nel difficile tentativo di invertire la catastrofica alleanza destinata ad un processo di progressivo impoverimento esperenziale, oscillando fra un paziente che segnala  di dover continuamente rappresentarsi come vuoto, da riempire incessantemente, che continua a ribadire continuamente la sua "incapacità" di prendere le cose, fare delle cose e un operatore quotidianamente  tentato di accettare la passività e la delega che quest'ultimo costantemente gli propone.

Continuare a dare  delle "cose" ad un paziente  che rimane nel suo statuto di ottenerle passivamente  senza riuscire ad entrare nella "capacità di procurarsele" significa adeguarsi alla sua passività e sostituire all'autonomia la dipendenza, alla crescita l'invasività, all'emancipazione il puro assistenzialismo. Significa perpetuare una dimensione di tutela che non consentirà mai la possibilità di un recupero di contrattualità, del possesso effettivo di risorse per gli scambi sociali e per la conseguente cittadinanza sociale, dell'acquisizione dei diritti di cittadinanza che sono uguali a quelli di tutti gli altri cittadini (Rotelli, 1994).

I pazienti che gradualmente riescono a compiere il difficile processo che va dall'ottenere al procurarsi determinano nell'operatore una sempre minore necessità di sostituirsi a lui e alle sue potenzialità e solo a queste condizioni le "facilitazioni sociali", come "cose che il servizio  può offrire" possono introdurre una relazione che si realizza nella condivisione del fare insieme.

Non è tanto rilevante, allora, quali siano le "cose" che si danno al paziente, cioè le attività che si fanno e che comunque devono avere  le caratteristiche esposte prima (essere attività "con senso" che al tempo stesso costruiscano "singolarità nei soggetti, cambiamento di valori, autonomie di identità"), quanto l'aspetto funzionale del dare  e del fare insieme, il come e il perché delle attività che si intraprendono.

Dovremmo a questo punto fare una notazione critica su come funzionano alcuni progetti, o finanziamenti o varie iniziative in ambito riabilitativo, o su quali siano le finalità e gli scopi che si prefiggono, o, ancora peggio, quale sia la visione e la conoscenza  effettiva dei pazienti  che sottende e sostanzia iniziative, progetti, finanziamenti  e quanto altro cui quotidianamente assistiamo. Infatti "ci sono risorse che vengono destinate a proteggere e perpetuare l'invalidazione delle persone, invece di valorizzare, attivare, animare, interpretare, fare" (Rotelli, 1994).

Sappiamo, perché lo abbiamo imparato insieme a loro, che solo all'interno di una relazione che condivida gli affetti più elementari, ogni paziente può permettersi l'esperienza di reinventarsi gradualmente capace di fare delle cose e di stare nella vita, di essere consapevole dei suoi diritti e di esercitarli. Se questo  non avviene il rischio sempre in agguato è quello di "rifare manicomio"  appiattendosi su cose già fatte e parole già dette, da offrire a persone che altro chiedono e che di altro hanno bisogno.

Allo stato delle nostre esperienze un paziente grave  con disturbi ormai cronici necessita di un progetto stabile e protratto nel tempo.  Questa necessità  non deve essere confusa con l'invariabilità delle modalità di intervento, ma con l'offerta di un ambiente stabile e accogliente che consenta di riattualizzare fasi di sviluppo evolutivo, in relazione a persone capaci di recepire il suo bisogno di accoglimento. Il rischio è che nei progetti riabilitativi il fluire del tempo venga cristallizzato, fissato e congelato in una relazione  statica e reciprocamente logorante, autoperpetuantesi e non più in grado di proporre percorsi trasformativi.

Per gli operatori questo significa non solo prevedere punti di arrivo, ma anche considerare l'indispensabilità di organizzarsi per un progetto di lavoro continuo, secondo tappe evolutive che, a volte, non possono che limitarsi a rallentare il severo andamento  della malattia.  Spesso lavoriamo solo  sulla limitazione del danno di cui parla Segio Piro, sapendo anche che la malattia mentale è "il caso particolare" di un malessere ben più ampio.

E allora, anche se per alcuni pazienti cronici i progetti terapeutici dovessero diventare  interminabili, e questo è realisticamente possibile, ciò non significa  che le modalità della relazione terapeutico-riabilitativa debbano  mantenersi costanti e invariabili (Maone, Ducci, 1998).

Al contrario, nel processo terapeutico riabilitativo bisogna prevedere delle fasi, dei contesti differenti che reintroducano il senso del fluire del tempo e l'avvicendarsi del finire e, ogni volta,  dell'iniziare.

A questo nostro lavoro ben si addice, dunque, la metafora dell'infinito viaggiare... "un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre  ancora venire e sta sempre ancora dietro l'angolo; partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare le valigie, annotare  sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda  e si ricompone  come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo" (Magris, 2005).

   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Edizioni "FRENIS ZERO" All right reserved 2004-2005-2006-2007-2008-2009-2010-2011  2012