Frenis Zero
Publisher
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"L'ESPERIENZA
DEL CENTRO DIURNO"
di
Maria Antonietta Minafra
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Questo testo è tratto dal libro "Appunti
di vista. Esperienze e testimonianze di riabilitazione
psichiatrica" (Icaro, 2006) e contiene i temi che saranno al
centro della relazione dell'autrice al convegno "Id-entità
mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della
riabilitazione", organizzato dalla rivista di psicoanalisi
Frenis Zero per il 12 maggio 2012 a Lecce ( www.identitacongress.tk
).
L'autrice è psicologa, psicoterapeuta di
formazione psicoanalitica ed è stata responsabile del Centro
Diurno del Centro di Salute Mentale di Lecce.
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Il logo del convegno "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e
luoghi della riabilitazione" ideato da Rosanna Pellicani
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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853
Edizioni
"Frenis Zero"
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a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)
Writings by: J.
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B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 30,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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Se il paziente è nel
ghiaccio, il terapeuta accende per lui un fiammifero:
interpreta
il ghiaccio e la desolazione dell'esistenza,
ma
accende una fiamma minuscola che traduce al paziente
sia
la sua possibilità di capire che lui vive in un mondo
ove
la rappresentazione di una fiaccola sarebbe una menzogna;
sia
anche il suo bisogno che tuttavia vi sia in quel mondo
qualcosa
che se pur impotente a fondere il ghiaccio,
attesti
e documenti l'esistenza lontana della fiamma in mezzo alla negazione
di essa.
Gaetano
Benedetti
Nelle
poche pagine che seguono vogliamo esporre la nostra esperienza in
ambito terapeutico-riabilitativo, così come si è andata delineando
in cinque anni di lavoro presso i laboratori del Centro Diurno
del CSM di Lecce. La nostra è stata una avventura collettiva vissuta
con circa 100 pazienti (decisamente troppi! Ma tanti ne sono passati
in quasi sei anni con alterne vicende), e soprattutto con gli
operatori responsabili dei laboratori, con le tante persone che a
vario titolo sono entrate in contatto con questa situazione
lavorativa.
Abbiamo
visto destini e storie di vita intrecciarsi con le nostre e con quelle
dei nostri pazienti. Tutte hanno lasciato un segno e l'opportunità, comunque,
di riflettere. Abbiamo a lungo discusso su come e cosa si dovesse fare
o non fare, abbiamo avuto, anche da persone stimabili, sterili
critiche che non ci hanno fatto crescere, inconsulti attacchi alla
nostra operatività che non sono mai riusciti a diventare contributi
propositivi o elementi di riflessione teorica. Contemporaneamente, e
per fortuna, abbiamo vissuto storie bellissime di scambi e di
attraversamenti di vite e saperi diversi che ci hanno fatto
comprendere come il camminare insieme in una esperienza di lavoro
possa essere culturalmente e umanamente gratificante, pur nelle mille
contraddizioni delle scelte e le tante possibilità di errore. Di
tutto abbiamo fatto tesoro, di tutto abbiamo preso atto: delle
esperienze, dei percorsi, delle critiche, degli attacchi e dei
riconoscimenti non perdendo mai di vista, in modo forse ossessivo,
forse troppo rigido, il concetto fondante la nostra operatività, il
nostro "mito delle origini" che era di "non fare
manicomio". Noi che lo abbiamo vissuto e che lo abbiamo
fisicamente alle spalle, dal lato e di fronte, anche se ormai
cambiato nelle sue destinazioni, ma sempre presente, pur nelle sue
belle architetture. Questa sua "durata sovrastorica" è
servita a non dimenticare, come diceva Foucault, che la presenza del
manicomio domina e definisce anche un paesaggio morale.
Non
sappiamo se siamo riusciti a mantenere o meno la promessa, noi
pensiamo di sì. Ma, nel corso del tempo, da questa negazione che era
un assunto teorico-pratico imprescindibile, abbiamo tratto lo spunto
per pensare e aggiungere anche altri stili di lavoro integrabili e non
alternativi a questa opzione teorica, per mettere in circuito, in
favore dei pazienti, anche altre risorse che fanno parte della nostra
specifica professionalità. Quella degli psicologi, non casualmente
gli unici sopravvissuti e presenti alle riunioni (tra équipe inviante
del C.S.M. ed équipe di operatori del Centro Diurno), che si tengono
ogni mercoledì alle h. 12.00, improrogabilmente, da cinque anni.
Cercheremo
perciò di spiegare questo connubio e contaminazione di operatività
che ci ha consentito nel corso del tempo di costruire una struttura
terapeutico-riabilitativa che a noi appare in grado di fornire
elementi positivi e propositivi per la vita di molti nostri
pazienti.
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La
pratica di questi anni e i processi di cambiamento che hanno
interessato la psichiatria negli ultimi decenni hanno messo in
discussione non solo lo sviluppo degli ospedali psichiatrici, ma
la loro stessa sopravvivenza. Il caso italiano, nello specifico,
ha assunto ulteriori caratteristiche, note ormai a tutti: a
partire da una analisi della funzione sociale svolta dalla
psichiatria e dal manicomio in particolare, analizzato insieme ad
altre istituzioni del controllo, la nuova psichiatria italiana ha
prodotto un lavoro teorico e pratico di "decostruzione"
dell'istituzione manicomiale, che ha portato dapprima ad una sua
trasformazione e successivamente al suo superamento.
Queste
esperienze hanno anche profondamente modificato il tema della
cura, proiettando all'esterno la ricerca di nuove modalità
terapeutiche in grado di rispondere appropriatamente ai complessi
bisogni di tipo psichiatrico (Tagliabue, 1993). La
"psichiatria senza manicomio" ha modificato scenari di
intervento e luoghi di cura, ha reso necessario pensare ai bisogni
di una persona nell'arco di 24 ore e per 365 giorni...
Estensibili, ma non "ripetibili" per il tempo necessario
a quella persona.
Ciò
ha significato l'avvio di nuovi Servizi (ambulatori, gruppi
appartamento, centri residenziali, centri diurni, ecc.) che hanno
consentito di aumentare in questi anni il bagaglio di conoscenze e
di possibilità operative nei confronti dei pazienti psicotici.
Soprattutto
la pratica nelle strutture intermedie, con le sue potenzialità,
limiti e problemi specifici, se da una parte ha consentito di
accumulare preziose conoscenze, dall'altra ha messo in rilievo
anche i rischi di una prassi che, se non adeguatamente valutati,
comportano la riproduzione delle stesse modalità e funzioni della
tanto deprecata istituzione manicomiale. Del resto in Italia le
strutture intermedie, così come tutta la rete dei servizi sul
territorio, ha avuto destini profondamente differenziati a seconda
delle varie realtà.
Per
struttura intermedia si intende uno spazio comunitario su piccola
scala, inserito al massimo grado nella vita sociale, capace
di servire da intermediario in tutte le situazioni di rottura con
questa, sia che esse derivino dalla permanenza in un'istituzione,
sia da uno sradicamento originario, da un'invalidazione sociale o
psichiatrica, o da una situazione di miseria e solitudine (Reverzy,
1981).
Al
di là della storica collocazione sul percorso che dall'ospedale
psichiatrico porta al contesto sociale, la struttura intermedia,
per definizione, si propone di attuare cambiamenti: individuali,
dalla destrutturazione verso l'identità; familiari,
dall'espulsione verso l'accettazione; sociali, dall'emarginazione
verso il re-inserimento (Tagliabue, 1993). Al tempo stesso la
struttura intermedia, per le sue caratteristiche spazio-temporali,
può costituire il luogo favorevole per lo sviluppo di programmi
intensivi e diversificati, altrimenti impraticabili negli altri
ambiti operativi di un Servizio di Salute Mentale.
I
centri diurni, in particolare, nascono prevalentemente negli anni
'80-'90 con il mandato di confrontarsi con una parte significativa
di utenza grave, complessa e gravosa, che nel primo decennio del
dopo riforma aveva mostrato i limiti della presa in carico
ambulatoriale. Risultava non facilmente dimissibile a causa di una
prolungata e irreversibile dimensione di dipendenza dalle
strutture pubbliche e presentava una progressiva limitazione in
alcune aree dell'attività della persona, soprattutto nella cura
di sé, nella comunicazione, verbale e non, nell'apprendimento,
nella capacità di muoversi autonomamente, nella
possibilità/capacità di garantirsi una autosufficienza
economica. Nascono per farsi carico, in altri termini, di quei
pazienti che "nel continuum dipendenza-autonomia si
situano sul versante in cui la dipendenza da un 'oggetto'
(persona, gruppo, istituzione) costantemente presente è
necessaria per poter provvedere ai propri bisogni vitali. Persone
la cui 'non idoneità all'autoconservazione' prevede e pretende
interventi prolungati per favorire, ove possibile, maggiore
emancipazione e un migliore grado di funzionamento dell'Io e
di integrazione del Sé" (Zapparoli, 1988).
A
partire da questi contesti, negli ultimi anni il termine
"riabilitazione" è venuto a far parte a pieno titolo
delle "parole della psichiatria" ma sembra a tuttora
connotare una attività finalizzata al recupero di abilità
sociali, elementari o complesse, attraverso procedimenti educativi
o modalità relazionali tutt'al più imitative e a cui è stato
troppo spesso attribuito un peso teorico nel complesso ridotto e
di minore spessore rispetto agli interventi tradizionalmente
definiti "terapeutici".
Come
se fosse comune l'idea di una supremazia del parlare sul fare, che
ci fossero i luoghi della terapia o della psicoterapia e i luoghi
della riabilitazione, gli psichiatri da una parte e il personale
paramedico completamente dall'altra.
A
ben vedere, se utilizziamo la definizione elaborata nel 1987 da
Gianfranco Minguzzi e colleghi di "psicoterapia come
intervento basato quasi esclusivamente sul rapporto
interpersonale, prolungato nel tempo, con un programma più o meno
esplicito, volto ad alleviare il disagio psichico, o a modificare
un comportamento o un rapporto interpersonale o una condizione
esistenziale", la pretesa differenza fra ambito
psicoterapeutico e ambito riabilitativo decade. O meglio, pone il
problema di strategie operative che, utilizzando contesti e
professionalità diverse, tentino di integrare i vari interventi
in una continuità di senso che valorizzi l'aspetto comunicativo e
di scambio insito in qualunque tramite, gesto o parola che sia, e
che quindi, come augura Tagliabue, "riabiliti" un fare
troppo spesso svalorizzato (Tagliabue, 1993).
O
come fanno notare molti autori poter pensare che l'istituzione
riabilitativa è un campo in cui i fenomeni di interazione fra
utenti e operatori, fra utenti e utenti e fra operatori e
operatori costituiscono un tessuto complesso di dinamiche che, se
adeguatamente condotte e integrate, rappresentano il futuro
terreno di sviluppo di trasformazioni e di ricerca (Correale,
1994). Si tratta dunque di valorizzare funzioni interattive
presenti in qualunque tipo di lavoro terapeutico e quindi anche
nelle attività riabilitative, che, in particolare, permettono lo
sgretolamento e la decostruzione di stereotipate modalità
relazionali, facilitando la trasformazione di elementi psicologici
e il recupero di competenze perdute non solo dai pazienti ma anche
dalle istituzioni di cura. è
chiaro che tutto questo prevede un diverso assetto mentale e un
modello organizzativo e di setting nel quale tenere conto dei
contributi più recenti in tal senso come gli interventi combinati
(Ballerini e Berti Ceroni), gli interventi integrati (Zapparoli),
il gruppo di lavoro (Berti Ceroni), l'analisi del campo
istituzionale (Correale) e per finire, ma non da ultimo, quella
che potremmo definire "l'attenzione all'uomo e al suo libero
porsi nel mondo" (Basaglia). è
in questo contesto teorico che può essere recuperata
l'affermazione di Racamier secondo la quale lo psicoanalista può
assumere diversi atteggiamenti nei confronti della istituzione
psichiatrica, uno dei quali e non il più facile, è occuparsi del
funzionamento, della trasformazione e persino della creazione di
un organismo istituzionale. Di questo stesso organismo egli
diventa sia l'osservatore che l'animatore (Racamier, 1972; Borghi,
Greco et al., 1994).
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I
progetti terapeutici e il setting
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La
mente umana si identifica con il senso che viene attribuito alla
percezione degli avvenimenti interni ed esterni al sé. Il lavoro
psicoterapeutico deve tendere alla trasformazione di questi
aspetti quando risultino, per una persona o un gruppo di persone,
disfunzionali alla realtà e causa di sofferenza. Il modo più
semplice per aiutare una persona che si trova in difficoltà è
quello di scambiare punti di vista all'interno di un incontro
formalizzato. Questo incontro si chiama setting ed è il
presupposto della psicoterapia intesa in senso clinico.
Fin
quando è possibile rispettare le regole, il setting costituisce
un riferimento indispensabile sia per il paziente che per il
terapeuta.
Intendiamo
allora per setting l'insieme delle regole formali relative al
tempo e allo spazio in cui si realizzano le sedute analitiche,
regole fin dall'inizio poste e accettate in modo condiviso e
consapevole da entrambi i contraenti. Ci riferiamo, come è noto,
al luogo e al numero delle sedute, al loro ritmo regolare,
alla loro durata, alle modalità di pagamento, all'uso del
lettino. Tale insieme di norme costituisce il contratto analitico
e, in quanto elemento reale, non è da analizzare. Invece sono da
analizzare nei tempi e nei modi idonei le modificazioni o
trasgressioni che il paziente può apportare a tali regole (Arrigoni
Scortecci, 1988).
Indicheremo,
perciò, con setting terapeutico quei progetti terapeutici
nei quali è possibile definire il setting, al di là delle regole
che si ritiene di dover adottare, e in questo caso la terapia
assume una sua specificità che unisce nello spazio mentale del
terapeuta e del paziente - riflessione condivisa in un setting - i
vari momenti dell'incontro e i vissuti che si generano fra un
incontro e l'altro (Piperno, Riefolo, 1994).
Ma
nella terapia con i pazienti psicotici questo non è sempre
possibile e i vari elementi del contratto dovranno essere modulati
all'insegna del raggiungimento della distanza emotiva ottimale per
quel determinato paziente in quel determinato momento, distanza
che perciò terrà conto dei bisogni e delle problematiche del
paziente stesso (Arrigoni Scortecci, 1988).
Noi
abbiamo cercato di tenere in mente questi concetti nei
progetti riabilitativi e nella organizzazione della operatività
del Centro Diurno, considerato che proprio in questa sede si
possono più facilmente valutare i bisogni del paziente come
persona, aiutandolo a differenziare e ad integrare le proprie
qualità psichiche, affettive e comportamentali, anche e
soprattutto in riferimento all'équipe degli operatori,
nell'articolazione delle specifiche funzioni dei membri che la
compongono.
L'inserimento
nel Centro Diurno avviene come sempre su segnalazione dell'équipe
curante, e senza alcuna selezione rispetto alla diagnosi di
ingresso e l'inserimento deve solo essere compatibile con gli
spazi disponibili (fisici e mentali della struttura). Considerato
inoltre che il Centro Diurno è l'unica struttura riabilitativa
semiresidenziale esistente nel C.S.M. della città, è evidente
che non si possa attuare alcun altro tipo di distinzione o
"scrematura" (De Leonardis, 1990).
L'accoglienza,
che è poi una osservazione partecipante, dura circa un mese, il
tempo necessario al paziente per capire cosa vuole fare, a quale
attività vuole dedicarsi, quale laboratorio frequentare. A noi
serve per conoscerlo e individuare i suoi bisogni. La modalità di
osservazione che abbiamo cercato di mettere in atto prevede,
infatti, una fase preliminare utile a delineare un quadro
conoscitivo della persona, indipendentemente dalla diagnosi
psichiatrica, che risulta sostanzialmente sterile, o per lo meno
insufficiente ai fini del progetto di integrazione di interventi
finalizzati alla riabilitazione.
Il
nostro lavoro comprende, invece, l'individuazione dei bisogni del
paziente, il riconoscimento delle difese che egli mette in atto di
fronte a tali bisogni e un profilo della sua personalità inserito
nel contesto dei sintomi presentati e del comportamento generale.
In questa fase, e in relazione alle riunioni con l'équipe
inviante, l'attenzione e il lavoro delle operatrici, tutor dei
vari laboratori, sono fondamentali, perché sono loro a
trascorrere tutto il tempo necessario con il paziente al quale
illustrano tempi e modalità e quanto altro occorra conoscere sul
Centro Diurno e sul suo funzionamento; e che, soprattutto,
organizzano con lui una prima fase di fare e saper fare, offrendo
risposte adeguate ai suoi bisogni e alle sue possibilità.
Evidenziare
questi bisogni consente, inoltre, di iniziare a valutare in
maniera attendibile sia le sue necessità di
separazione-individuazione sia la sua necessità di mantenere un
rapporto di dipendenza; il suo rapporto con lo spazio e con il
tempo; la capacità di rispettare le regole, ecc.. L'intervento
dell'operatore diventa quindi modulato in funzione dei bisogni
presentati e non dell'entità dei sintomi manifestati, che
sono invece considerati in relazione ai bisogni stessi. è
evidente che un tale criterio operativo richiede la programmazione
di un piano di trattamento individualizzato con la previsione di
determinati obiettivi da raggiungere (in relazione ai bisogni
individuati) e la disponibilità a eventuali modificazioni degli
interventi o al loro mantenimento, a seconda del mutare o del
persistere di determinati bisogni.
Questa
sorta di protocollo di primo intervento richiede, in sostanza,
agli operatori e alle istituzioni, una certa elasticità
nell'adattarsi ai bisogni dei pazienti che hanno in carico,
problema questo non sempre di facile soluzione nella sua
realizzabilità quotidiana. Si riscontra molto spesso nelle
strutture che elasticità e al tempo stesso attenzione sono
qualità carenti, sostituite invece da comportamenti rigidi che
richiedono l'adattamento dei pazienti ai bisogni dell'istituzione
o degli operatori, pena il rifiuto o l'espulsione. Ci si scontra
facilmente con l'ideologia dell'istituzione, con la disattenzione
dei colleghi, con l'urgenza di altri progetti nei quali inserire i
pazienti, con l'idea, sempre presente - al di là delle parole - e
difficilmente modificabile come stereotipo
"psichiatrico", che nei Centri Diurni si dipinga, si
legga, si scriva, si ascolti musica, o si costruiscano oggetti per
i quali il massimo riconoscimento è che siano "cose
carine", che le iniziative siano divertenti, che le
situazioni collettive di festa o di piazza siano ben organizzate.
Ma riabilitare o abilitare non è sicuramente solo questo. Abbiamo
cercato, nel corso del tempo, di modificare questa visione
riduttiva che rimandava all'intrattenimento tanto deprecato da
Saraceno, ma ci siamo imbattuti in azioni spesso disomogenee
e in risposte non adeguate al nostro progetto di lavoro, traendone
il convincimento che, al di là degli enunciati, pochi condividono
e accompagnano reali percorsi di "guarigione".
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|
I
"bisogni" dei pazienti |
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Nelle
strutture intermedie abbiamo l'opportunità di offrire un
contesto terapeutico dove si possono attuare progetti che
utilizzano soluzioni dilazionate nel tempo e nello spazio.
In
questo contesto, al contrario di quello che accade in un setting,
si verifica una sorta di frammentazione dei momenti terapeutici
legata alla molteplicità delle relazioni e si compiono azioni
concrete che vengono incontro alla difficoltà dei pazienti
psicotici ad effettuare operazioni simboliche. Questa
difficoltà rende indispensabile l'attribuzione di significato
ad attività centrate su cose concrete, su cose che siano
connesse con un dare e con un fare concreto, attraverso
"incoraggiamenti discreti e presenza benevola" (Zapparoli,
1988).
Per
questo è spesso necessario allargare i confini della relazione
a tempi e spazi diversi, generalmente più elastici, che
cambiano anche i presupposti della terapeuticità e le modalità
di intervento. Abbiamo potuto constatare che per i
pazienti psicotici è utile avviare progetti che utilizzino
molteplici modalità comunicative in diversi contesti
interattivi, finalizzati, comunque, ad una trasformazione della
loro condizione esistenziale, che rimane l'obiettivo prioritario
di tutti i progetti riabilitativi. I nostri sono pazienti
i cui processi di differenziazione e integrazione propri della
crescita sono stati gravemente compromessi da relazioni
oggettuali precoci assai disturbate. Questo produce deficit
evidenti nelle aree di funzionamento dell'Io, dell'autonomia e
della capacità di strutturare concetti stabili e realistici di
Sé e degli altri e pertanto gravi difficoltà di relazione con
se stessi, con gli altri e in generale con la realtà.
Siamo
di fronte a persone che hanno sofferto danni profondi alla
struttura coesiva del sé, cioè alle strutture spazio-temporali
e corporee, coesive e stabilizzanti del senso di sé, che si
formano nell'epoca in cui la mente non dispone di strumenti
adeguati alla rappresentazione tramite immagini o parole di ciò
che sta sperimentando. Il danno al senso di sé è derivato
prevalentemente dalla mancanza di convalida, nonché di
condivisione e compartecipazione integratrice da parte delle
figure significative, di esperienze relazionali importanti e
ripetute.
La
logica portante di un progetto terapeutico per questi pazienti
diventa allora fornire loro la possibilità di costruire
relazioni, o ripristinare fiducia nelle relazioni, attraverso
una posizione "conservatrice" e poco esplorativa degli
operatori, in una dimensione "protetta" (ma non falsa,
artificiale o qualitativamente scadente). Prerogativa questa che
configura un intervento assistenziale di lunga durata (Zapparoli
et al., 1988; Saraceno, 1996). Ci riferiamo, ancora una volta,
alle riflessioni teoriche e all'esperienza di ricerca di
Zapparoli e collaboratori.
Una
posizione corretta in grado di dare un apporto decisivo da un
punto di vista operativo, e che permetta di affrontare
l'eterogeneità delle manifestazioni dei disturbi psichici, deve
riferirsi alle "più attuali teorie eziologiche delle
malattie mentali [...] che postulano un'interazione tra fattori
ereditari-costituzionali e ambientali-esperenziali-traumatici
alla base del disturbo psichico. Una vulnerabilità, per esempio
alla schizofrenia, può essere trasmessa geneticamente [...] ma
devono intervenire fattori di stress ambientale perché queste
tendenze si sviluppino in una manifestazione psicopatologica.
Esisterebbe cioè una predisposizione non specifica, che si
sviluppa in una sindrome solo in seguito all'azione di stimoli
ambientali traumatici. Le influenze psicosociali avrebbero
quindi un profondo impatto sullo sviluppo psichico, essendo in
grado di accrescere o diminuire un'innata vulnerabilità. Nel
caso in cui questa predisposizione sia particolarmente grave, o
ad una predisposizione di più lieve entità si aggiungano
influenze ambientali particolarmente disturbanti, si avrà come
conseguenza un disturbo evolutivo che nei gradi estremi avrà le
caratteristiche di un deficit strutturale, con perdita
irreversibile di una funzione o gruppo di funzioni, scarsa
strutturazione del sé e insufficiente differenziazione
tra il sé e il mondo esterno. Man mano, invece, che l'azione
dei fattori ereditari, costituzionali, ambientali, o la loro
interazione, è meno importante, risulteranno ridotte le
componenti di deficit rispetto a quelle conflittuali,
nell'originare le manifestazioni psicopatologiche.
Un
primo ordine di valutazione rispetto al trattamento viene
fornito dal riferimento ad uno schema che propone l'esistenza di
un continuum ai cui estremi si situano i disturbi originati da
fattori di conflitto da un lato, e quelli caratterizzati da
fattori di deficit dall'altro. Le tecniche psicologiche di
esplorazione e interpretazione costituirebbero il trattamento
elettivo per i disturbi del primo tipo, ma andrebbero
affiancate, integrate o sostituite da tecniche diverse, man mano
che ci si avvicina all'estremo opposto. Tra queste modalità di
intervento possiamo annoverare l'intervento assistenziale che
può venire incontro ai bisogni di base di quei pazienti che,
per i motivi suesposti, non sono in grado di mantenere in modo
continuo uno stabile equilibrio o garantirsi la
sopravvivenza"(Gislon, 1988).
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L'intervento
assistenziale |
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Questo
tipo di intervento assistenziale è diretto a sostenere o, se
possibile, incrementare l'organizzazione dell'io, rivolgendo
l'attenzione agli aspetti di disadattamento e sostenendo o
favorendo le funzioni evolutivamente più progredite, ad esempio
quelle di prender decisioni, fare programmi o organizzare e
prevedere. Si tratta in questo caso di una funzione
antiregressiva, che sostiene lo sviluppo del senso di efficienza e
di competenza attraverso l'incoraggiamento della capacità
potenziale di risolvere i problemi. L'operatore si pone
essenzialmente come una figura concreta che fornisce un ancoraggio
alla realtà o come "Io ausiliario" del paziente per
colmare, per quanto possibile, il deficit del suo funzionamento
rispetto alla realtà. In questa relazione con una figura reale e
concreta vengono incoraggiate nel paziente la fiducia e la
sicurezza che derivano dal sentirsi preso in carico secondo i
propri bisogni. Tale fiducia e sicurezza possono progressivamente
essere contrapposte alle precedenti esperienze di sfiducia di base
e alla diminuzione dell'autostima. Tale relazione permette di
vivere quella che è stata definita "esperienza emotiva
correttiva", che in questo caso modifica le aspettative del
paziente di essere rifiutato, conseguenti al non sentirsi capito e
accettato secondo le sue necessità individuali. L'essenza
dell'esperienza emotiva correttiva sta quindi nel fornire all'Io
l'opportunità di riadattare i vecchi modelli patologici alle
mutate condizioni interne ed esterne. L'esperienza emotiva
correttiva si riferisce al fatto che alcuni eventi che il paziente
si aspetta che accadano non si realizzano, ed egli impara che le
sue fantasie non sono necessariamente vere: di conseguenza si
modificano le sue idee e fantasie, così come le sue reazioni
emotive. Il bambino che aveva dovuto adattare le proprie
reazioni al comportamento dei genitori comincia ad imparare,
attraverso le reazioni degli operatori, che ci possono
essere anche modalità di relazioni diverse e questo gli
impone di modificare e correggere vecchi modelli cognitivi,
emotivi e comportamentali. L'elemento
comune a tutte le funzioni proprie dell'assistenza è apparso
quello di poter fornire al paziente alcune sicurezze mediante l'accudimento
personalizzato. Come sappiamo una delle caratteristiche della
condizione psicotica è la necessità di un sostegno esterno per
il soddisfacimento dei bisogni di base legati alla sopravvivenza,
cui il paziente non è in grado di dare una risposta autonoma
adeguata. Tale funzione è spesso svolta dai genitori o da altre
persone dell'ambiente familiare ed è ben noto come, di
conseguenza, uno dei problemi più angosciosi che i nostri
pazienti vivono derivi dal timore di non avere più
l'appoggio di queste persone dalle quali sentono
dipendere la loro sopravvivenza (Gislon, 1988). Abbiamo
molto lavorato, pertanto, su ipotesi che sollecitassero le
capacità e gli affetti più elementari; abbiamo proposto
autostima e cercato di dare consapevolezza di
dipendere da persone affidabili. Abbiamo fornito, ove
possibile, un supporto che permettesse la riscoperta di
"parti" di sé ancora capaci di relazione
con l'Altro. Attraverso questi prerequisiti abbiamo
constatato anche che il lavoro e la condivisione con
il gruppo, la presenza costante degli operatori hanno sempre
rappresentato un valido contenimento psicologico
dell'aggressività. |
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L'operatività
del Centro Diurno |
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Possiamo
proporre alcuni ulteriori chiarimenti sul nostro lavoro. Le
modalità con cui si possono organizzare progetti terapeutici
sono moltissime e perciò implicano una scelta da parte
dell'operatore e del servizio, sempre nel rispetto delle
esigenze di quel paziente in quel momento, o come dice Beppe
Dell'Acqua "aprendo la testa di fronte a quel
paziente"! Ma non sono in contraddizione con altre
possibili scelte. Noi abbiamo verificato che le situazioni più
significative per il paziente sono date dalla possibilità
di sperimentare una o più relazioni con gli operatori di
riferimento a patto che queste relazioni presuppongano una
dimensione comunicativa che va molto al di là di
quello che viene fatto o detto.
Questo
approccio ha consentito e ha avuto la funzione di sollecitare il
paziente a riformulare progressivamente la sua visione del
mondo, a fare sì che la continuità del sé,
garantita dalla "fiducia di base" che gli
operatori gli hanno saputo fare acquisire, gli facesse
scoprire una nuova visione del mondo, meno
conflittuale perché più adattativa e in
grado di fornire maggiori gratificazioni (Bowlby,
1973).
Abbiamo
attuato una sorta di accompagnamento e di bonifica con un
"compagno vivo", abbiamo offerto un accudimento
intelligente modulato sull'offerta di proposte
pensate per non deludere (le frustrazioni ottimali); che
affronta il tema della cura e dell'accudimento, che insiste sul
ripristino del modello onfalicentrico dell'"aver cura
di" di tipo materno, l'incontro, cioè, tra la
dipendenza del paziente e l'affidabilità dell'operatore (Fornari,
1976; Kohut, 1971).
In
questa dinamica compito del paziente è l'organizzazione e
riorganizzazione della struttura emotivo-cognitiva; compito
dell'operatore è suscitare il cambiamento attraverso
offerte propositive accettabili, riconoscibili, coerenti
per incentivare modelli di pensiero e di comportamento più
maturi e realistici. Devono, perciò, essere attività e
proposte "con senso" e non semplici
"intrattenimenti", non fosse altro perché, come
spesso diceva Franco Basaglia "a persone che sono
state espropriate di tutto, noi abbiamo l'obbligo di dare il
meglio". E del resto se uno degli obiettivi della
cura istituzionale è la possibilità di una buona
identificazione, dell'acquisizione di un maggior senso di
sicurezza, dell'allargamento delle aree di autonomia, sia le
attività che gli operatori devono essere
deputati a questo: attività valide e di qualità allora,
offerte da operatori che diventino essi stessi
produttori di senso, in una relazione consapevole
del fatto che "l'altro, sempre, può reinventarti o
toglierti la parola" (Rotelli, 1998).
Altrettanto
importante è poter offrire uno spazio dove il paziente impari a
sentirsi, e uno spazio di rappresentabilità dove impari a fare,
a raccontarsi, a mettersi in relazione con l'altro. Un luogo che
gli consenta un recupero di soggettività, un luogo
dove essere, dove avere una "identità
narrativa" che consenta coerenza e continuità del sé, per
essere autore e costruttore, protagonista della sua storia (Ferruta,
2000).
Uno
spazio di accoglimento che sia, come per tutti nei momenti di
difficoltà, un luogo dove si possa elaborare la possibilità di
solitudine, non pericolosa, non minacciante, dove tutto possa
giocarsi sulla concezione del passaggio, del margine, di uno
spazio intermedio in cui il soggetto si inserisce; dove si
costituisce il suo proprio spazio, che non è né quello
della separazione, né quello della fusione, ma quello della sua
cultura e delle sue possibilità (Clément, 1977).
Una
specie di esperienza transizionale, dunque, dove sia possibile
che le attività proposte possano avere una funzione di
mediazione, sollecitando l'animarsi di relazioni affettive
che, a loro volta, producano integrazione, coesione e
senso di appartenenza. Uno spazio dell'illusione,
un'area illusionale che permetta "una protezione dal
panico suscitato dal problema della propria non guaribilità"
(Zapparoli, 1997).
Afferma
ancora Zapparoli (1997): "Spesso i pazienti psicotici
sentono [...] il panico di non poter guarire da una condizione
vissuta come un deficit irreversibile che non permette loro
un'esistenza autonoma; i pazienti terminali vivono una
condizione uguale di panico di fronte all'impossibilità di
'guarire' dalla morte. Entrambi sono individui che non sono in
grado di accettare il proprio reale deficit o il proprio reale
limite e hanno di conseguenza la necessità di essere aiutati,
per non vivere una condizione emotiva di panico o di
terrore, a sviluppare una difesa nei termini di
un'illusione".
è
quello che cerchiamo di fare nel nostro lavoro, poter offrire
una nuova possibilità emotiva raggiungibile e vivibile, dove la
sicurezza di un riferimento costante ad una fonte esterna di
dipendenza per alcuni fondamentali bisogni permetta di
sviluppare aree di autonomia.
Nel
Centro Diurno, come abbiamo già detto, non si lavora
sulle patologie, ma sui problemi che ne sono derivati: il tempo
e lo spazio, il rapporto fra sé e l'altro, il rispetto
delle regole, il rispetto per l'altro, lo spazio ludico, la
creatività, la capacità di scrivere un articolo per il
giornale, la possibilità di andare in Casa Editrice per
stampare, poi impaginarlo, spedirlo; la raccolta di
materiale e la costruzione di oggetti, la pittura, la danza, la
lettura, ecc...
La
terapeuticità dell'intervento sarà allora legata
alle differenti modalità di "stare nella relazione"
da parte dell'operatore e al modo con il quale le cose, le
attività o le situazioni vengono date e proposte al paziente...
Leonardo
ritiene di essere, e probabilmente lo è, un grande
artista e pensa di riuscire a portare avanti
autonomamente le sue attività e i suoi progetti senza il minimo
senso di "principio di realtà", per poi tornare e
sorridere con noi delle sue aspettative deluse; Gustavo e
Sergio ritengono di essere grandi attori di teatro in
grado di effettuare, finalmente svincolati dal Centro, una
tournée in tutta Italia, a patto poi di
ricredersi dopo la prima difficoltà concreta e
tornare a parlarne con noi.
Abbiamo
capito che spesso i nostri pazienti utilizzano le attività più
autonome e sganciate dalla struttura per poi mantenere un'area
di dipendenza con questo Centro Diurno "sufficientemente
buono" al quale sempre ritornano, o per informarci delle
nuove attività intraprese o delle delusioni subite, o in
occasione delle feste o per vedere se siano state avviate
nuove iniziative cui partecipare. Ma anche al contrario,
quando qualcosa non va per il verso giusto. è
come un luogo "al limite" dove poter star bene o
star male, ma sempre a propria "misura".
Abbiamo
constatato una gradualità nei processi evolutivi, di
emancipazione, di autonomia, ma non riusciamo ancora a
monitorarli nelle loro fasi per ogni singolo paziente;
soprattutto non abbiamo ancora capito se questo "continuo
ritorno" dipende dall'aver noi ingenerato
dipendenza, o da una loro necessità, considerati
anche i notevoli livelli di autonomia raggiunti da
qualcuno. Ci è parso comunque evidente che le
persone inserite in progetti di avviamento al lavoro siano
state quelle che hanno tratto complessivamente maggiori
vantaggi dalla frequentazione del Centro Diurno e,
contestualmente, siano quelle che più facilmente hanno messo in
atto situazioni di svincolo progressivamente più stabili nel
tempo.
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Lo
spazio transizionale e la creatività |
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L'elemento
su cui concorda la maggior parte dei clinici che si
occupano di psicosi è l'esistenza di confini scarsamente
differenziati tra la realtà interna e quella esterna:
l'incapacità di differenziare tra fantasia e realtà che, in
varia misura, caratterizza i vissuti dei nostri pazienti.
"Si
ritiene in generale inadeguata una definizione della
natura umana in termini di relazioni interpersonali, anche
quando si tenga conto dell'elaborazione immaginativa della
funzione e delle fantasie consce ed inconsce, compreso
l'inconscio rimosso. Vi è un altro modo di descrivere le
persone [...] per ogni individuo che abbia raggiunto lo
stadio dell'unità (con una membrana che separa il
dentro dal fuori) si può dire che esiste una realtà
interna, un mondo interno che può essere ricco o povero, in
stato di pace o di guerra.
Io
affermo che se vi è bisogno di questa doppia formulazione ve
ne è una terza necessaria: la terza parte
della vita dell'essere umano, una parte che non possiamo
ignorare, un'area intermedia di esperienza a cui
contribuiscono sia la realtà interna sia la vita esterna. Si
tratta di un'area che non viene messa in causa poiché non
si pretende nulla da essa se non che esista come rifugio
dell'individuo perpetuamente impegnato nel suo compito umano di
tenere le due realtà, interna ed esterna, separate e pur
tuttavia in relazione l'una con l'altra [...]. Un'area neutra di
esperienza che non gli verrà mai contestata [...]. Quest'area
intermedia è direttamente collegata con l'area ludica del
bambino più grande che si perde nel gioco" (Winnicott,
1951).
Quest'area
"ludica" svolge cioè la funzione di un'area
transizionale dove la possibilità di un controllo onnipotente e
la possibilità di credere in una propria autosufficienza
onnipotente (di creare il proprio oggetto o mondo di
soddisfacimento del bisogno) coesiste con lo sviluppo
iniziale da una parte della capacità di illudersi, legata
all'illusione che esista una realtà esterna che corrisponde
alla propria capacità di creare, dall'altra della
capacità di simbolizzazione, che permette di usare un
oggetto esterno come simbolo di un oggetto parziale
(il seno), indirettamente, attraverso il suo significato
di oggetto (seno) intero (Winnicott, 1951).
L'ipotesi
qui proposta è che la dimensione ludica sia espressione di una
iniziale accettazione e di una iniziale possibilità di
elaborazione e di trasformazione del delirio e della sua
funzione di difesa dal panico (Zapparoli, 1988; Rinaldi,
1999).
In
questa trasformazione hanno un ruolo importante alcune funzioni:
innanzi tutto la creatività, ma non più come avviene nella
produzione del delirio (in funzione di una sostituzione della
realtà oggettiva con una realtà interna diversa mirata a
disconoscere il mondo esterno). Qui al contrario le fantasie
possono trovare un'espressione e una possibilità di
gratificazione "parziale", accompagnata da una
parziale frustrazione, che consiste nella consapevolezza della
qualità non reale delle realizzazioni in fantasia. In questo
senso possiamo offrire ai nostri pazienti uno spazio
transizionale tra il mondo esterno e il mondo interno (il centro
diurno e le attività dei laboratori), e un oggetto
transizionale, una figura (l'operatore) che si propone come
esterna ma che accetta di essere oggetto delle proiezioni del
paziente e che quindi, "creata" dal paziente sotto la
spinta dei suoi bisogni, è sotto il suo controllo onnipotente e
può essere "manipolata".
Non
a caso gli operatori del Centro sono spesso investiti di un
potere sconfinato o al tempo stesso svalutati nei loro ruoli,
funzioni o capacità, diventano oggetto di disegni caricaturali,
di dediche affettuose, di severi commenti, o di lodi
spropositate, talvolta letteralmente inglobati nel delirio. Il
paziente riesce ad utilizzare la figura dell'operatore come
oggetto dei propri deliri e di affetti ambivalenti e questo gli
dà la possibilità di mantenere e continuare ad utilizzare
queste proiezioni a volte deliranti come difesa dal panico.
Tutto questo amplia l'area del funzionamento "normale"
attenuando il conflitto tipico e fondamentale dello psicotico
tra accettare di avere bisogni e rifiutare di averne e
aiuta a sviluppare una primitiva capacità di vivere i propri
bisogni/desideri e di esprimerli nel rapporto interpersonale.
Come
seconda conseguenza permette un ambito nel quale viene accettata
e vissuta la parte psicotica delirante, ma questo avviene
nell'interazione con una figura esterna, la quale è
contemporaneamente una figura reale che accetta di
"delirare insieme" e quindi di essere oggetto della
proiezione degli introietti del paziente (Zapparoli, 1967). è
allora possibile che anche nel paziente si realizzino nello
stesso tempo sia la parte psicotica, che nega la realtà, sia
quella non psicotica, che accetta la realtà, e che
attraverso questa particolare relazione dialettica delle
due diverse valenze, di accettazione e di negazione della
realtà, possa avere inizio lo sviluppo della capacità di
simbolizzare, cioè di capire che l'oggetto reale è
simbolo di un oggetto interno (Gislon, Zapparoli et al.,
1988).
Del
resto anche i "laboratori" vengo criticati o
scelti entusiasticamente, a volte senza una precisa motivazione,
ma, progressivamente, aumenta il senso di sicurezza del paziente
nello svolgere quella determinata attività, perché gli è
permessa una esperienza differente, più gratificante, rispetto
ai suoi bisogni e alla possibilità che vengano soddisfatti,
attraverso una propria funzione creativa, quindi sotto il
proprio controllo. Ad esempio la pittura e la redazione del
giornale sembrano molto adeguati a questa specifica
esigenza oltre che alla incentivazione di notevoli margini
di autonomia. Si sviluppa anche la capacità di tollerare la
frustrazione e un contatto diverso col mondo esterno, su cui il
controllo onnipotente può essere, gradualmente, anche se in
certi casi solo parzialmente, abbandonato a favore di una
maggiore capacità di accettare la realtà e di svolgere un
esame di realtà.
Fondamentalmente,
quindi, ci si trova di fronte alla possibilità di passare dalla
soggettività alla percezione oggettiva e all'esame di
realtà, da forme di pensiero concreto a forme di pensiero
simbolico: in questo senso, sottolineano alcuni autori, questo
è "addirittura" un funzionamento più progredito
rispetto a quello richiesto dall'attività lavorativa (Gislon,
1988).
Questa
funzione è di solito svolta dallo psicoterapeuta, ma non con i
pazienti il cui pensiero opera prevalentemente ad un livello
concreto, per i quali è necessario che vi siano persone
che interagiscano al livello della vita reale, in modo più
diretto, senza che sia necessario trasformare la relazione
simbolicamente. L'incapacità di ricreare in modo simbolico gli
aspetti delle relazioni più precoci, che consente alla
relazione terapeutica di simbolizzare gli stadi evolutivi più
primitivi, è uno degli elementi che rendono necessaria per
questi pazienti la funzione dell'assistenza. Semmai, in certi
casi, nella psicoterapia possono essere elaborati proprio i
problemi che si sono presentati nell'ambito
dell'intervento assistenziale (Gislon, 1988).
Ed
è questo il tentativo di senso delle nostre riunioni del
mercoledì, che non sono soltanto organizzative e che cercano
faticosamente di integrare gli interventi che siamo in grado di
offrire.
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Le
invenzioni per i pazienti |
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Nel
momento in cui siamo chiamati a svolgere questo tipo di lavoro
la domanda più produttiva è domandarci quale "invenzione
concettuale" possa rendere più agevole la comprensione e
l'aiuto ai pazienti, anzi, a quel determinato paziente, in quel
momento della sua vita e della sua storia personale.
"In
quest'ottica saranno le invenzioni del terapeuta o
dell'operatore della riabilitazione, insieme a quelle del
paziente, le loro reciproche costruzioni della realtà ad avere
potenzialità trasformative, l'invenzione di un modo altro, la
creazione di opportunità, di possibilità, di probabilità per
il paziente" (Rotelli, 1994). Queste reciproche costruzioni
servono agli operatori e alla loro formazione e soprattutto,
come continua Rotelli, alla riabilitazione della psichiatria,
che non è praticabile senza una trasformazione culturale dei
contesti; servono dunque a poter de-istituzionalizzare la scena
della follia (Saraceno, 1996).
E,
in tal caso "...saremmo noi psichiatri ad andare alla
ricerca di un ruolo che non abbiamo ancora mai avuto e che ci
metta - per quanto possibile - alla pari con il malato in una
dimensione in cui la malattia come categoria data venga messa
tra parentesi" (Basaglia, 1967).
Questo
è un passaggio importante perché presuppone che chi è
delegato alle cure debba legarsi in un sodalizio particolare, la
co-coscienza di essere alla pari, con chi deve essere
curato. Chiameremo questo sodalizio relazione terapeutica. Ed è
questa relazione che diventa di fatto il vero soggetto curante.
Di
fronte alle frustrazioni i nostri pazienti tendono a ritirarsi
in uno spazio autistico dal quale li dobbiamo
"stanare", dopo averli "trovati". Non sono
loro a chiedere aiuto e a farsi avanti, ma è l'operatore che
deve entrare nel loro mondo, spesso perdendo il senso delle cose
che fa. L'operatore è confuso rispetto al se e come
intervenire. La sua unica possibilità è offrire se stesso come
persona, in un rapporto in cui le capacità
umane si fondono e confondono con quelle professionali
(Borghi, Greco et al., 1994).
In
una dimensione dove "ogni polo della realtà cerchi
attraverso l'altro il proprio significato" (Basaglia,
1967).
"L'uso
di sé", cioè delle proprie emozioni e dei propri vissuti
nella relazione, diventa a volta l'unico strumento che può
metterci in autentico contatto con il paziente (il termometro
della situazione), al di là di tutti gli atteggiamenti spesso
confusivi e contraddittori da lui messi in atto; ciò richiede
una nostra disponibilità emotiva che, nella presa in carico di
questi pazienti, è indispensabile (Arrigoni, 1974).
"Dare
le cose" viene così ad assumere una duplice
funzione: soddisfare i bisogni e introdurre una relazione, o
meglio saper comprendere i bisogni ed evidenziarli, piuttosto
che necessariamente soddisfarli (Bonetti, 1988).
Il
prendersi cura della cronicità si concretizza allora nel
difficile tentativo di invertire la catastrofica alleanza
destinata ad un processo di progressivo impoverimento
esperenziale, oscillando fra un paziente che segnala di
dover continuamente rappresentarsi come vuoto, da riempire
incessantemente, che continua a ribadire continuamente la sua
"incapacità" di prendere le cose, fare delle cose e
un operatore quotidianamente tentato di accettare la
passività e la delega che quest'ultimo costantemente gli
propone.
Continuare
a dare delle "cose" ad un paziente che
rimane nel suo statuto di ottenerle passivamente senza
riuscire ad entrare nella "capacità di procurarsele"
significa adeguarsi alla sua passività e sostituire
all'autonomia la dipendenza, alla crescita l'invasività,
all'emancipazione il puro assistenzialismo. Significa perpetuare
una dimensione di tutela che non consentirà mai la possibilità
di un recupero di contrattualità, del possesso effettivo di
risorse per gli scambi sociali e per la conseguente cittadinanza
sociale, dell'acquisizione dei diritti di cittadinanza che sono
uguali a quelli di tutti gli altri cittadini (Rotelli, 1994).
I
pazienti che gradualmente riescono a compiere il difficile
processo che va dall'ottenere al procurarsi determinano
nell'operatore una sempre minore necessità di sostituirsi a lui
e alle sue potenzialità e solo a queste condizioni le
"facilitazioni sociali", come "cose che il
servizio può offrire" possono introdurre una
relazione che si realizza nella condivisione del fare insieme.
Non
è tanto rilevante, allora, quali siano le "cose" che
si danno al paziente, cioè le attività che si fanno e che
comunque devono avere le caratteristiche esposte prima
(essere attività "con senso" che al tempo stesso
costruiscano "singolarità nei soggetti, cambiamento di
valori, autonomie di identità"), quanto l'aspetto
funzionale del dare e del fare insieme, il come e il
perché delle attività che si intraprendono.
Dovremmo
a questo punto fare una notazione critica su come funzionano
alcuni progetti, o finanziamenti o varie iniziative in ambito
riabilitativo, o su quali siano le finalità e gli scopi che si
prefiggono, o, ancora peggio, quale sia la visione e la
conoscenza effettiva dei pazienti che sottende e
sostanzia iniziative, progetti, finanziamenti e quanto
altro cui quotidianamente assistiamo. Infatti "ci sono
risorse che vengono destinate a proteggere e perpetuare
l'invalidazione delle persone, invece di valorizzare, attivare,
animare, interpretare, fare" (Rotelli, 1994).
Sappiamo,
perché lo abbiamo imparato insieme a loro, che solo all'interno
di una relazione che condivida gli affetti più elementari, ogni
paziente può permettersi l'esperienza di reinventarsi
gradualmente capace di fare delle cose e di stare nella vita, di
essere consapevole dei suoi diritti e di esercitarli. Se
questo non avviene il rischio sempre in agguato è quello
di "rifare manicomio" appiattendosi su cose già
fatte e parole già dette, da offrire a persone che altro
chiedono e che di altro hanno bisogno.
Allo
stato delle nostre esperienze un paziente grave con
disturbi ormai cronici necessita di un progetto stabile e
protratto nel tempo. Questa necessità non deve
essere confusa con l'invariabilità delle modalità di
intervento, ma con l'offerta di un ambiente stabile e
accogliente che consenta di riattualizzare fasi di sviluppo
evolutivo, in relazione a persone capaci di recepire il suo
bisogno di accoglimento. Il rischio è che nei progetti
riabilitativi il fluire del tempo venga cristallizzato, fissato
e congelato in una relazione statica e reciprocamente
logorante, autoperpetuantesi e non più in grado di proporre
percorsi trasformativi.
Per
gli operatori questo significa non solo prevedere punti di
arrivo, ma anche considerare l'indispensabilità di organizzarsi
per un progetto di lavoro continuo, secondo tappe evolutive che,
a volte, non possono che limitarsi a rallentare il severo
andamento della malattia. Spesso lavoriamo
solo sulla limitazione del danno di cui parla Segio Piro,
sapendo anche che la malattia mentale è "il caso
particolare" di un malessere ben più ampio.
E
allora, anche se per alcuni pazienti cronici i progetti
terapeutici dovessero diventare interminabili, e questo è
realisticamente possibile, ciò non significa che le
modalità della relazione terapeutico-riabilitativa
debbano mantenersi costanti e invariabili (Maone, Ducci,
1998).
Al
contrario, nel processo terapeutico riabilitativo bisogna
prevedere delle fasi, dei contesti differenti che reintroducano
il senso del fluire del tempo e l'avvicendarsi del finire e,
ogni volta, dell'iniziare.
A
questo nostro lavoro ben si addice, dunque, la metafora
dell'infinito viaggiare... "un continuo preambolo, un
preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta
sempre ancora dietro l'angolo; partire, fermarsi, tornare
indietro, fare e disfare le valigie, annotare sul taccuino
il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si
sfalda e si ricompone come una sequenza
cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come
un volto che muta nel tempo" (Magris, 2005).
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