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AA.VV.,
"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Cordoglio e pregiudizio
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 136
ISBN: 978-88-903710-7-3
Prezzo/Price: € 23,00
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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 382
ISBN: 978-88-903710-6-6
Prezzo/Price: € 39,00
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AA.VV., Psychoanalysis
and its Borders, a cura di
G. Leo (Editor)
Writings by: J. Altounian, P.
Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 348
ISBN: 978-88-974790-2-4
Prezzo/Price: € 19,00
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A.
Cusin e G. Leo
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2011
Pagine/Pages: 400
ISBN: 978-88-903710-4-2
Prezzo/Price: € 38,00
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"The Voyage Out" by Virginia
Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
Pages: 672
Prezzo/Price: € 25,00
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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
Prezzo/Price: € 18,00
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 41,00
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Edizione: 2a
ISBN: 978-88-903710-5-9
Anno/Year: 2011
Prezzo/Price: € 34,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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Una
coincidenza
Quel giorno e i precedenti avevo a lungo riflettuto su un
dipinto di Delacroix: La morte di Sardanapalo. A dire il vero è
questo un autore che non ho mai molto amato, ma ero stata
spinta a riconsiderarlo
dalla suggestiva interpretazione che ne offre J.André nel saggio Alle origini femminili della
sessualità
che, appunto, proprio in quei giorni stavo leggendo. Il saggio
contiene una ipotesi assai affascinante. Sviluppando la tesi della
seduzione originaria che dobbiamo a Laplanche,
André postula l'ipotesi del bambino sedotto come cavità originaria,
al di là del suo sesso biologico, all’interno della quale
l’inconscio dell’adulto penetra con la sua passione. La libido si
aprirebbe ad una prima articolazione di godimento dando luogo a una
semantica femminile entro cui quella maschile andrebbe successivamente
a disporsi. Per sostenere questa sua ipotesi André si serve
dell’analisi del quadro di Delacroix al quale sopra accennavo.
Svolgendo un’indagine finissima sui disegni che precedono la
realizzazione dell’opera definitiva, André mostra come la figura
femminile preceda sempre, nella composizione, quella maschile e come
quest’ultima vada a cadere, nello spazio compositivo, là dove la
prima le ha aperto, per così dire, la strada.
Ma c’é di più. Da questo femminile originario in cui libido
e godimento si articolano, André fa discendere un’altra suggestiva
ipotesi sulla scena primaria: il quadro di Delacroix non solo mostra
questa scena come tale, ma permette di vederla nel suo organizzarsi, nel
suo farsi strutturale fin nelle sue componenti minimali, dove il
femminile va a porsi come la figura fondamentale di un processo che il
quadro porta al suo termine, "generatrice potenziale dell’opera,
"maelstrom" selvaggio che precede la distribuzione delle
rappresentazioni e nello stesso tempo ne minaccia la dimensione
figurativa"(André, 1995, p.97 dell'edizione Borla).
Comincia la seduta e il mio paziente abitualmente tanto schivo
da non guardarmi neppure in faccia ed evitare di stringermi la mano al
suo ingresso, si ferma questa volta in mezzo alla stanza e mi guarda
dritto negli occhi. Tra le mani stringe ben fermo un volume che mi
porge.
"Dottoressa,
le dispiace dare un’occhiata a questo?" dice e subito dopo
si stende sul lettino.
Anch'io prendo posto sulla poltrona. Mi accorgo di avere tra le
mani, portata dal mio paziente... una raccolta di riproduzioni delle
opere di Delacroix.
"Voglio
raccontarle un sogno - sta dicendo il mio paziente - c’è un quadro di Delacroix che mi serve per spiegarle che tipo di
luce c’era nel mio sogno. Vede l’illustrazione a pag...?"
Apro il volume alla pagina indicata. Il quadro è... La
morte di Sardanapalo. I pensieri che seguono sono un tentativo di
elaborare il ‘troppo perturbante’, l’eccesso di questa
coincidenza, sulla scorta di alcune recenti formulazioni che indagano
nel testo come corpo, giungendo a rintracciare nel femminile (inteso
nella sua accezione più allargata di area semantica) il luogo
originario da cui trae matrice il senso.
Per cercare di mostrare come questo eccesso, questo ‘troppo
perturbante’ della seduta nel mio caso ha lavorato, parlerò
dei suoi effetti di senso.
Innanzitutto, impigliata con il mio paziente - così come ho
mostrato - in una relazione dove l’identico rimandava
di colpo all’estraneo, mi é accaduto che, per sciogliere una
coincidenza che metteva a rischio il senso schiacciandolo o
nell’indifferenziato o nell’indicibile, mi venissero incontro
‘figure’ antiche formalizzate dalla tradizione psicoanalitica e
che io le riscoprissi come nel loro sorgere, donatrici di un senso che
mi convocava però con forza all’abbandono tanto della teoria nel
suo assetto reificato di dottrina, quanto dell’ideologia, nel suo
assetto di illusione.
Queste figure, cercherò di mostrare, andavano ad organizzare
l’esperienza eccessiva della seduta trascinando con sé, oltre alla
sua complessità, anche quella dell’accadere storico. Apparentemente
senza un senso coglibile da uno dei tanti saperi specifici, riconfusi
oggi nei vari approcci interdisciplinari infatti, il tempo in cui vivo si riordinava e la sua complessità mi appariva non solo
tautologicamente come il portato generico di se stessa, ma via via che
le figure originarie del pensiero psicoanalitico
mi riproponevano la loro traccia, essa si disponeva
all’interno di un campo, quello
dell’"unheimliche"
e del "deinon",
per essere, al suo interno, se non compresa, almeno
pensata come lo sfondo dal quale la sofferenza del mio
paziente, anche se solo sua e quindi unica e irripetibile, tuttavia si
stagliava.
Utilizzando due livelli di riflessione, quindi, uno riguardante
l’accadere storico, l’altro più strettamente legato all’evento
clinico, tratterò dell’incontro con la produttività di certi
testi, di certe figure della psicoanalisi che attirano con una forza
particolare l’analista, come vincolandolo a una specifica riscoperta
di senso in quel momento cruciale in cui il reale, irrompendo
nello spazio della seduta,
sembra frantumarlo.
Accennerò in
specie al caso del presidente Schreber,
così come Freud ce l’ha presentato e alla forza di attrazione che
esso ha esercitato su di me inducendomi a ripensare, alla luce delle
sue suggestioni, oltre che certi momenti del mio lavoro clinico, due
dei dibattiti più accesi a cui partecipano oggi senza nessuna
esclusione tutti i saperi contemporanei. Mi riferisco al dibattito
intorno alle “patologie” gravi, e alla "vexata quaestio" della loro
“trattabilità” da parte dalla cura ”classica”, e in secondo
luogo a quello più recente aperto dalle nuove pratiche di ingegneria
genetica intorno ai limiti etici della tecnica
(sottolineo tecnica, intendendo con questo termine un momento del fare umano che é
separato dalla scienza, come mostrerò più avanti).
In entrambi i casi quello che viene messo in gioco rispetto ai
“trattamenti possibili” è il corpo, chiamato alla ribalta per
essere rimaneggiato, vuoi dal farmaco, vuoi dalle varie tecnologie di
riproduzione. Ma quale corpo? Il corpo, infatti, per la sua natura
polisemica, risponde all’assolutezza di certe procedure
interpretative, sempre sottraendosi alle iscrizioni con cui queste lo
articolano nel loro specifico immaginario. Esso si rifiuta di offrirsi
all’economia medica come corpo da sanare, all’economia religiosa
come carne da redimere, all’economia politica come forza lavoro nel
momento in cui, al di là della sua frantumazione in vari saperi,
ripropone la sfida di un resto, la sfida
del suo essere significante al di là delle singole e
specifiche significazioni. Questo
resto, questo fondo oscuro che si dà come “ciò che permane ma che
sempre si sottrae”, è il corpo, così come la psicoanalisi lo ha
offerto al nostro secolo: non il corpo-cosa della tecnica, ma il corpo
umano, un corpo desiderante. Di questo corpo“psicoanalitico”,
aggettivabile come "unheimlich", Schreber
ha reso una sua specifica testimonianza e la sua fantasia può
esemplarmente essere assunta come un motivo conduttore che orchestra
segretamente alcuni aspetti del fare umano.
Una
coincidenza o uno svelamento?
Torniamo indietro, al momento in cui il mio paziente comincia a
raccontare il suo sogno e io sono di fronte al perturbante che mi
viene incontro. Questo è il sogno:
Sono
disteso su un grande letto in una grande stanza con un soffitto a
volta sostenuto da colonne. Mi accorgo che il mio corpo è come aperto
e dal mio fianco forse, ma forse dal mio sesso, esce
un grumo di materia o forse un
figlio. Ai bordi del letto c’è una figura femminile,
nuda,
di spalle, con una parte della testa come fracassata. La luce è
quella che vede nel quadro, un nero rossastro che mi fa pensare al
sangue. Lentamente la donna si volta verso di me e vedo che,
sotto il
suo cranio maciullato, ha il mio stesso viso.
Mentre M. racconta mi si affollano nella mente frammenti
dell’analisi, come un puzzle che il sogno
permette di ricomporre.
a)
M. che mi porta raccolte in una cartellina blu, le sue poesie;
b)
M.che
me ne parla, mantenendo il discorso sempre su toni fortemente ambigui,
come se avesse nei confronti della sua scrittura una perplessità
relativa non alla sua qualità, ma alla sua funzione.
Dentro la cartellina blu mi aspettavo di vedere,- vado
ricordando - e tale è anche M
nel suo aspetto esteriore) - un testo graficamente composto e
“pulito”.
Sono
sorpresa
dunque nel ritrovarmi di fronte a cinque composizioni scritte e
riscritte numerose volte a mano, sempre le stesse, ognuna piena di
cancellature e trasformazioni di nuovo cancellate.
Questo lavoro di cancellazione, veri e propri sfregi sul corpo
del testo, mi aveva dato da pensare: mi era parso
da una parte come il segno vivo di una rimozione, dall’altra
come uno sbarramento che, proprio come quello dei cartelli stradali
che vietano l’accesso, indica contemporaneamente
la presenza di una strada, soprattutto mettendo questo lavoro
di sfregio e cancellatura in connessione con certi suoi ricordi che
andavano faticosamente emergendo.
Un ricordo in particolare, ricorrente con una certa frequenza,
dove M. si vede piccolissimo intento a succhiare il suo piccolo pene,
mi era parso un ricordo di copertura volto a nascondere un piacere
scotomizzato e inammissibile: un ricordo levato contro la possibilità
di ammettere di avere goduto dell’Altro. Il piccolo pene si
sostituisce, in una fantasia di autogenerazione
al corpo materno e al seno: godimento e presenza altre
e negate).
Penso
a M. e alla sua prima giovinezza: una crisi maniacale, un ricovero
breve, di cui mi ha informato, ma di cui non parla.
c) M. che ha studiato musica e suonato a lungo uno strumento, il
sassofono, e l’ha ormai da tempo abbandonato e quando
parla della musica è come di un morto di cui non si può
ancora nemmeno fare il nome.
d)
Io che spesso, pensando a M, sento che il
suo non riuscire ad essere folle completamente né artista completamente (ovviamente
uso queste espressioni in senso lato e figurato) va ad incistare,
rendendolo irrisolvibile, un tessuto fantasmatico il cui ordito non
riesco però nemmeno ad intravedere.
e)
M. che non tollera che io parli e conduce per la prima mezz'ora
una specie di autoanalisi che distrugge però nel giro di pochi
secondi cancellando quanto ha detto con un “Non significa niente. Non ci
faccia caso. Sono Confuso”.
f) M. che quando io parlo (io stessa avverto, nel farlo, un
sentimento di confusione e di incertezza) mi risponde spesso così:
”Adesso vorrei morderla”.
Lo sfregio del testo, le cancellature e il clima di crudeltà
spesso aleggiante nel corso delle sedute, questi e tutti gli
altri frammenti emersi fin qui diventavano indizi e
andavano a comporre quell’ordito che, prima del sogno di M.,
non riuscivo nemmeno ad intravedere.
Forse Green collocherebbe il
dolore di M. all’interno di un contesto di
psicosi bianca, figura che egli usa per indicare quelle forme
di sofferenza in bilico tra un delirio che non si dà e una creatività
altrettanto impossibile Quello
che c’è dietro questa sofferenza, dice, Green, è una madre morta.
Io, per M., direi
invece che si tratta di un femminile
inutilizzabile, un corpo semiotico attaccato dall’interno tanto da
non potere godere del suo ritmo se non attraverso un’appropriazione
subito ricusata il cui esito é lo sfregio del testo, le sue
cancellature.
La
nostra seduta, quella di cui sto raccontando, intanto scorre. Nel
silenzio penso di nuovo alla morte di Sardanapalo, al corpo maschile
disteso sul grande letto a cui Delacroix ha impresso tratti morbidi e
femminili. Il corpo di
Schreber, incinto di Dio, si sovrappone
alla voluttuosa forma del quadro, ed è come se M., con il suo
sogno, sognando se stesso avesse sognato, condensandolo in questa
scena di parto, un anno di lavoro analitico, dal quale emerge una
scena primaria in cui egli ha preso, negandolo, il posto della madre.
La seduta
si pone come quello spazio in cui la coppia analizzante incontra
l’esperienza "unheimliche" di eventi che si trasformano da
effettivi in significativi. Questa trasformazione dall’effettivo in
significativo, che irrompe nella seduta come un terzo, un estraneo o,
per dirla con Green, come terzeità, non sarebbe possibile senza il
confronto con lo spaesamento originario che comporta
l’essere "hic et nunc" con l’Altro.
Sento che di tutto ciò non posso parlare con il mio paziente:
non ora, almeno, in cui è il processo analitico come tale che sta
parlando.
Lui ha sognato: questo sogno sta tra lui e me, e qualche cosa é
passato dall’irrappresentabile al rappresentabile. Forse c’é
qualche cancellatura in meno nel testo segreto di M..
Per
il momento, questo deve bastarci.
La
psicosi: una forma particolare di "creatività"?
Il
testo sfregiato del mio paziente é stato l’elemento che, insieme al
suo sogno, mi ha risospinto verso il mondo di Schreber. E sempre lui,
il testo del mio paziente, mi ha suggerito
i pensieri che seguono.
In tedesco il cognome Schreber e il sostantivo "Schreiber" (scrittore), ha fatto notare Mannoni,
sono quasi identici. Singolare coincidenza per uno che, come Schreber,
affidò alla scrittura la possibilità della sua sopravvivenza nel
mondo civile e ne fece, sorta di Santa Teresa d’Avila della
paranoia, il luogo di ritrascrizione della sua copula con Dio.
Nel 1893, a cinquantuno anni, Daniel Paul Schreber, presidente
della corte d’appello di Dresda, entrava nella clinica psichiatrica
di Lipsia, diretta da P. E. Flechsig. Ne usciva dopo nove anni.
Causa scatenante della crisi che rese necessario il ricovero
fu, come Schreber stesso sottolinea nelle sue Memorie, la seguente
fantasia:
Una
volta, mentre ero a letto, di mattina (non so più se addormentato o
mezzo sveglio), ebbi una sensazione che mi fece un effetto assai
singolare quando ci ripensai dopo, in completo stato di veglia. Era la
rappresentazione che dovesse essere davvero bello essere una donna e
soggiacere alla copula.
Intorno a questa fantasia si articola tutta la costruzione
delle Memorie. Lette alla luce della distinzione che dobbiamo a
Irigaray tra rappresentazione inconscia del femminile come corpo, natura originale, pieno e non castrato, e rappresentazione inconscia
del maschile, luogo dove il desiderio si tramuta in legge, ordinandosi
alla coppia simbolica divieto-castrazione, le
Memorie si pongono come un tentativo di riparazione dei vuoti
aperti nella storia soggettiva di Schreber. Si tratta, nel discorso psicotico
che è quello delle Memorie, di un’aderenza tutta particolare al
semiotico. Dobbiamo a Kristeva la formulazione della nozione di
semiotico per quello che riguarda il linguaggio: luogo presimbolico
originario, luogo presintattico dove dominano l’intonazione e il
ritmo, prima iscrizione di un corpo-testo originario - il materno -
senza il quale il simbolico sarebbe una forma vuota. La scrittura di
Schreber, costruita secondo le leggi della "Nervensprache",
permette di operare, come mostra Mannoni nel suo studio specifico su
questa scrittura, una sintesi tra due ordini, quello femminile
semiotico e quello maschile simbolico, ponendosi come corpo-testo da
una parte e legge di questo corpo dall’altra. Il risultato è un
discorso comprensibile. Ma,
come ancora mostra Mannoni, il lavoro della psicosi si limita a dire
il desiderio di essere una donna, si limita a mostrare
l’angoscia di castrazione, e pur rientrando nell’ordine del
comprensibile e del rappresentabile, non organizza quel salto
vertiginoso che nell’opera d’arte svela, pur partendo dalle
stesse radici fantasmatiche ma con una diversa aderenza al semiotico,
il nuovo e l’inaudito con cui essa spiazza entrambi e ne evita la
sovradeterminazione.
Uno studio psicoanalitico ancora attualissimo, Il
taglio femminile,
considera la gravidanza fantasticata di Schreber come il punto di
travaso dell’un sesso nell’altro, luogo dell’anamorfosi per
eccellenza della differenza sessuale, potente antidoto contro la legge
del padre e la castrazione che essa comporta.
E’ per sfuggire alla legge del padre, e dunque alla
castrazione, che Schreber prende a prestito un corpo di donna.
Con un corpo di donna - anche immaginario - infatti, egli
sembra intuire che si è soggetti alla legge del padre quel tanto che
basta per “farsi fare un figlio”.
Ed è curioso rilevare come la scrittura psicoanalitica stessa
spesso si muova intorno alle figure del parto e della gravidanza con
le stesse cadenze del discorso psicotico: basti pensare a Ferenczi,
secondo cui la tensione accumulata nell’organo genitale maschile
determina la propulsione del glande e in qualche modo “lo
partorisce”.
Il rapporto tra la creatività, il delirio e quella figura del
narcisismo - lo stadio dello specchio - che vede il soggetto
costituirsi e fondarsi esclusivamente grazie alla sua alienante
identificazione con l’altro è stato segnalato dalla psicoanalisi
incessantemente. A partire
da Freud, che ne fa il tema centrale del suo studio su Leonardo,
arrivando a Laplanche e al suo studio su Hölderlin, il femminile -
nella sua doppia accezione di originario-corpo materno - rappresenta
quel magnete costante che attrae a sé il lavoro del discorso
psicotico, come quello artistico, e lo fonda. Ma se questa è la
traccia che entrambi i discorsi seguono per costruirsi, che cos'è che,
di fatto, li differenzia? Il lavoro dell’arte e il suo discorso si
fanno riconoscere per un tratto distintivo preciso: essi costruiscono
un mondo abitabile non per uno solo di noi, ma per tutti. L’artista
trova sempre un modo (lo stile?) di dipendere dalla alienante
identificazione con l’Altro e contemporaneamente, in un sol colpo,
liberarsene.
A proposito della monumentale opera di Schreber, invece,
notevole non fosse altro in quanto testo comprensibile a dispetto del
delirio e in quanto testo “costellato di verità” che illuminano
sulla struttura del delirio stesso, occorre dire che la specificità
del suo assetto creativo non è estetica e non è scientifica, o per
lo meno è insufficiente per attingere a uno statuto di legalità
estetica o scientifica, e tuttavia non si può non parlare di una
qualche forma di creatività che lo rende comprensibile ma non
condividibile.
Possiamo rintracciarne lo statuto in una sorta di
“coerenza” (Lacan) che organizza il discorso della psicosi ed è
dovuta a quel lavoro con il quale il paranoico “ricostruisce un
mondo”(Freud) abitabile, un mondo però, come
mostra Chasseguet
Smirgel
nel suo bel lavoro su Strindberg, ricostruito con un materiale del
tutto particolare che consiste nel mettere in evidenza ciò che i
nevrotici tengono celato come segreto. Giova a questo punto
mettere in gioco anche la trasposizione concettuale del termine
"unheimliche" data da Schelling e riportata da Freud: "Unheimliche" è per
Schelling tutto ciò che doveva rimanere nascosto e invece è
affiorato.
Vedremo allora affiorare nella costruzione psicotica questa
semicreatività con cui il mondo ritorna vivibile, un padre
caricaturale, incestuoso che rende gravidi i suoi figli, o se
vogliamo, un assetto simbolico dove il suo nome manca. Potranno i
farmaci reintrodurre questo significante assente?
Nei testi di Artaud, di Céline, di Beckett affiora uno
smarrimento che non possiamo non cogliere come epocale: lo stesso che
io colgo nel discorso del mio
paziente. I primi sono riusciti a rappresentarlo. Il mio
paziente lo patisce semplicemente e, se io liquidassi il suo
smarrimento imbavagliandolo con un farmaco pacificatore, gli avrei
tolto la possibilità di far parlare, almeno nella stanza d’analisi,
quel delirio che, in definitiva, è stato la salvezza di Schreber.
Scrive
Foucault (Foucault, in "Storia della follia nell'età
classica, 1972, Rizzoli 1996, pp. 475-476):
Una
cosa sopravviverà ai progressi della scienza che cancellano la follia
: il rapporto dell’uomo con i suoi fantasmi. Il suo impossibile, il
suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte.
Le tecniche riproduttive: un passaggio all’atto?
M., il mio paziente, che oggi ha cinquant’anni, non può
generare. Dice di non provare dolore per la sua sterilità. “Un
figlio mio - mi disse una volta - farebbe la fine del figlio della
moglie di Gogol”.
Non si riferiva, appresi in seguito, a niente che riguardasse
Gogol e la sua biografia, ma a un racconto fantastico di Landolfi
intitolato appunto "La moglie di Gogol".
"Questa moglie" -
racconta Landolfi - “non
era una donna, né un essere umano purchessia, neppure un
essere comunque vivente,
animale o pianta: essa era semplicemente un fantoccio....si presentava
come un comune fantoccio di spessa gomma, nudo in qualsiasi stagione e
di color carnicino o, secondo come
si usa chiamarlo, color pelle...conviene
dire subito che era altresì mutevole nei suoi attributi, senza però
giungere, come é ovvio, a mutare addirittura di sesso... La ragione
di questi mutamenti stava nient’altro che nella volontà di Nikolaj
Vasilevic' il quale la gonfiava più o meno, le cambiava capelli ed
altri velli, la ungeva con i suoi unguenti in varie maniere, di modo
da ottenere press’a poco il tipo di donna che gli si confaceva in
quel giorno o in quel momento”.
Il nome della moglie di Gogol è Caracas. Il racconto si
conclude con un raccapricciante duplice ’assassinio’. Gogol gonfia
il corpo della moglie fino a farlo esplodere in mille frammenti. Il
figlio di Caracas ”non un bambino in carne ed ossa...alcunché come
una pupattola, un bamberlottolo di gomma...” viene gettato nel fuoco
del camino e bruciato.
La figura di Caracas ritorna nelle associazioni di M. insieme ad
oscure allusioni alla inseminazione artificiale che la sua compagna,
più giovane di lui di molti anni, vorrebbe imporgli, dando luogo a
scenari spettrali.
“Lo partorirei io"
- dice M.
a proposito di un ipotetico figlio
- "ma sarebbe il figlio di Caracas”.
Questo figlio inconcepibile nascerebbe comunque, come il figlio
di Caracas, da un corpo di donna finto (il corpo allucinato dello
stesso M.) e la sua nascita coinciderebbe con il momento del prelievo
del seme.
C’è una
consonanza, non si può non coglierla tra lo scenario
in cui si articola la fantasia di gravidanza di M. e la figura
di Schreber, il suo delirio e tutto quello che ne ho detto fin qui ma,
rispetto a quella di Schreber, nella fantasia di M. c’è un resto su
cui vorrei brevemente soffermarmi e che riguarda il suo e il mio tempo
storico.
Il nostro tempo è stato da più parti definito come quello del
trionfo della tecnica e, se per un analista la fantasia di gravidanza
maschile non è nuova, quello che è nuovo e si pone
insieme come resto è il suo tradursi, con le tecniche di
riproduzione, in un passaggio all’atto.
Nelle Memorie il
femminile emerge come altra scena in senso stretto, versante da cui
Schreber è costretto a confrontarsi con un Edipo rovesciato: questo
testo ci mostra come sia la cattura
del soggetto in un meccanismo di "forclusione" a organizzare il
delirio. Qualcosa è rifiutato, non può essere riconosciuto dal
soggetto, ma “ciò che è forcluso nel simbolico ritorna nel
reale”, secondo la ormai
celebre formula.
Con il corpo-cosa dell’ingegneria genetica manipolato secondo
i dettati del desiderio inconscio non ci sono più parole, (forse
siamo al di là della "forclusione"?), ci sono cose e azioni che
celebrando la scissione tra erotismo e concepimento danno luogo a
quelli che Bion definirebbe oggetti bizzarri, o in altro modo detto,
inconcepibili.
Dice Heidegger l’uomo è "to deinotaton", ciò che vi è di più inquietante tra tutto
l’inquietante, e prosegue a proposito della tecnica:
La
parola "deinon" è ambigua, di quella inquietante ambiguità del dire
dei greci che pervade le contrastanti contrapposizioni dell’essere.
Da un lato il "deinon" designa il terribile, lo spaventoso nel senso
dell’imporsi predominante (überwaltigendes Walten) che provoca
ugualmente il timor panico, la vera angoscia, così come il timore
discreto, meditato, raccolto (...) ma, per altro verso,
"deinon" significa
il violento, nel senso di colui che esercita la violenza, che non solo
ne dispone, ma che è violento, in quanto
che l’uso della violenza
è il carattere fondamentale non solo del suo agire, ma del suo essere
(...).
La violenza, il
violento, nel quale si muove l’agire del violentante, costituisce
l’intero campo della macchinazione (to makanoen) affidatagli. Non
intendiamo assumere la parola macchinazione in senso peggiorativo.
Intendiamo invece riferirci a qualche cosa di essenziale che ci si
palesa nella parola "techne"
greca.
Questo essenziale a cui Heidegger si riferisce è, per
l’appunto, il carattere necessariamente violentante del fare umano.
L’uomo, questo incidente dell’essere, tra l’inquietante è il più
inquietante ("to deinotaton") perché segnato dalla contrapposizione
interna tra una "techne", un porre in opera, il suo essere presente come storia, e una "dike",
che rimanda al suo essere presente come essere. L’ordine della "dike"
e quello della "techne" si
contrappongono e si scontrano. In ciò consiste la radicale ambiguità
del "deinon".
Il concepimento, come indica la parola stessa, è una questione
psichica e, insieme alla procreazione, costituisce uno dei grandi
enigmi che ci attraversano. L’alleanza tra la tecnica e le leggi del
chimismo biologico, “a fin di bene” ignorano o fingono di ignorare
le implicazioni simboliche del proprio operato: danno per risolto
l’enigma, con esiti spesso allarmanti. L’allarme non è di parte:
non è dovuto a un pregiudizio ideologico o antiscientifico, ma alla
constatazione che l’enfatizzazione dell’elemento biologico
rispetto ai legami simbolici va a colpire la sessualità umana in
quanto tale, come elemento significativo: la riproduzione diventa un
fatto, separato dal desiderio e dal godimento. Un fatto del
corpo-cosa.
Non é facile parlare con M. della sterilità, avvicinarla con
lui nel suo valore di sintomo che si esprime forse da ultimo sul
corpo, ma si dice innanzitutto nella sua scrittura cancellata.
La distanza in cui M. mi tiene è direttamente proporzionale
alla terra desolata dove la sua mente si aggira, assediata dal terrore
di un contatto che potrebbe scardinarne l’illusione di
autosufficienza.
A differenza di Schreber, M. non è incinto di Dio e nessuna
metafora solare potrebbe comparire, nessuna lingua fondamentale
potrebbe articolarsi in una sofferenza che si muove nel mondo senza
colore della psicosi bianca dove, potremmo dire con Nietzsche, Dio è
morto e la fantasia di gravidanza, che pure la sottende, rimanda a un
Altro che è una bambola muta. Ci muoviamo
a ridosso di un "fantôme" più che di un fantasma, in stretto
contatto con una violenza simile a quella che pervade certi aspetti
della tecnica, là dove i corpi costruiti come macchine rimandano a un
lutto impossibile da elaborare, a una cancellazione dell’elemento
della mancanza che impedisce l’articolazione della differenza,
"forclude" zone vaste del simbolico, impedendo l’accesso alla
finitezza e al tempo.
Una volta, forzando il muro di cinta
del sistema di pensiero del mio paziente che non sopporta
interventi analogici, ho fatto notare che, nel racconto fantastico di
Landolfi, Gogol uccide Caracas quando questa, in contraddizione con la
sua natura di bambola meccanica, parla.
Un’unica volta. Ma parla.
”Che altro poteva fare se non ucciderla”?
Questa la sua
risposta.
Il tempo storico di Schreber non è il tempo storico di M.,
anche se la fantasia di gravidanza è la stessa, la stessa che, del
resto, incontriamo nei miti di autofecondazione e partenogenesi dei
greci, nello scenario di molti riti e religioni tribali, nella ricerca
di Lévi-Srauss che, in "L’homme nu", mostra come in aree vastissime
dell’America, l’uomo, quasi sempre uno stregone che non ha moglie,
”nasconde” il figlio nel proprio ginocchio o nel gomito sotto
forme svariate, di cui la più comune è l’ascesso, oppure si
autofeconda, si “fa” un figlio conficcandosi il pene nel gomito.
Questo identico, per così dire strutturale, della fantasia di
gravidanza maschile si incontra però con un mondo, direbbe Rilke, che
lo flette e lo incurva costringendolo a significare. Così accade che
esso assuma un diverso valore semantico a seconda del desiderio che
emerge in una particolare temperie storica.
Il nostro tempo non è solo quello del trionfo della tecnica.
E’ anche quello del teatro di Beckett. Il
teatro della crudeltà. Forse è possibile rintracciare, tra questi due
aspetti del nostro tempo, un nesso.
Spesso il lavoro analitico con M,
mi ha fatto pensare allo scenario di "Aspettando Godot": ma per
un momento, con l’evento sorprendente e spiazzante del suo
coincidere con me e io con lui, nel modo singolare che ho cercato di
mostrare, le quinte di questo scenario si sono squarciate lasciando
intravedere una coppia al lavoro all’interno di una relazione
analitica che coinvolge entrambi in una qualità di sofferenza che
potremmo definire con, Jean-Luc Nancy, il tremore dell’anima.
E qui, in questo tremore, una volta di più la psicoanalisi, e
la sua genealogia, mi si è offerta in tutto il suo valore di
esperienza "exsistenzträgend": un sapere, come suggerisce con questo neologismo
Wolfgang Loch, in grado di ‘portare’ ("tragen") l’esistenza.
Bibliografia
André
J. (1995), Alle origini femminili della sessualità, Borla, Roma,
1996.
W. R. Bion in "Cogitations":
”Il
sogno è un evento emotivo di cui solitamente possiamo soltanto
sentire un resoconto o avere un ricordo, anche se, come vedremo,
che cosa significhi pensare o dire che ci ricordiamo di un sogno
è una faccenda che solleva molti dubbi.
Vorrei ora estendere il termine sogno in maniera da
comprendervi anche una serie di eventi che a me sembrano meritare
la descrizione di ‘sogni’.
Uno dei punti che vorrei discutere è in rapporto
al fatto che gli eventi effettivi della seduta, per come appaiono
all’analista, vengono sognati dal paziente, ma non nel senso che
egli pensi che gli eventi da lui osservati sono gli stessi di
quelli osservati dall’analista (salvo il fatto che il paziente
li crede parte di un sogno e l’analista li crede parte della
realtà) ma nel senso che gli stessi eventi che vengono percepiti
dall’analista, vengono percepiti dal paziente e sottoposti al
processo di venire sognati da quest’ultimo. Cioé a questi
eventi viene fatto qualcosa mentalmente e ciò che viene fatto
loro è venire sognati" (Bion,1996, p. 59).
Mannoni,
O. [1963]
"Je sais bien, mais quand même", in Clefs pour l’imaginaire, ou l’autre scène,
Éd. du Seuil, Paris 1969.
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