Home page 

Biblioteca on-line

Chronology

 
"IL MUSEO DI ANTROPOLOGIA CRIMINALE <<CESARE LOMBROSO>>"

 di S. Montaldo e P. Tappero (a cura di)

 

 

Recensioni bibliografiche

 

   Recensione di Francesco Cassata

 

 




 

Novità - News

Rivista Frenis Zero

 

                                                                                                                                                      

    

   

Maitres à dispenser

 

Il testo riprodotto in questa pagina è la riproduzione dell'articolo apparso  su "L'Indice dei Libri del Mese" del febbraio 2010 per gentile concessione dell'autore.
 

 

 

 

 

 

 

                

Aveva appena ventiquattro anni, Cesare Lombroso, quando, nel 1859, iniziò a raccogliere crani e cervelli umani, durante il servizio come medico dell’esercito piemontese, e poi italiano. Era «un raccoglitore nato – scriverà la figlia Gina – Mentre camminava, mentre discorreva, in città, in campagna, nei tribunali, in carcere, in viaggio, stava sempre osservando qualcosa che nessuno vedeva, raccogliendo così un cumulo di curiosità di cui lì per lì nessuno, e neanche egli stesso qualche volta, avrebbe potuto dire il valore, ma che si riannodavano nel suo incosciente a qualche studio passato o presente». Con il trasferimento di Lombroso alla cattedra di Igiene e Medicina legale di Torino, nel 1876, la raccolta - nel frattempo arricchitasi di ritratti e calchi in gesso o cera di cadaveri sottoposti ad autopsia - finisce per affollare le stanze dell’appartamento in Via della Zecca n. 33. Il piccolo ambiente, «ingombro di scheletri e di casse del Museo», contribuisce a rendere ancora più difficile la vita familiare, già provata dall’iniziale, difficile ambientamento dello scienziato veronese nel sistema di relazioni dell’accademia subalpina. La situazione migliora l’anno successivo, quando la collezione viene trasferita in due locali dell’antico convento di San Francesco da Paola, in via Po, ove ha sede il nuovo Laboratorio di Medicina legale e di Psichiatria sperimentale. Nonostante la sede pubblica e l’uso didattico, la raccolta oscilla ancora fra la dimensione tipica della collezione privata e quella del deposito di materiale antropologico, di volta in volta prelevato e utilizzato per la lezione accademica, l’esperimento, la ricerca finalizzata alla pubblicazione. Dopo le mostre temporanee realizzate tra il 1884 e il 1889, a partire dal 1899, grazie all’occasione rappresentata dall’apertura del Palazzo degli Istituti anatomici dell’Università di Torino, la raccolta diviene accessibile ai visitatori. A curare il trasloco della collezione - nel frattempo notevolmente accresciuta grazie ai reperti inviati in dono da paesi lontani e ai corpi di reato trasmessi dalle questure e dalle carceri - è Mario Carrara, allievo diretto di Lombroso e marito della figlia Paola. Bisogna aspettare però il 1906, anno del quinto congresso internazionale di Antropologia criminale, per leggere il primo intervento di Lombroso dedicato al proprio museo. L’articolo – dal titolo Il mio museo criminale – esce sull’“Illustrazione Italiana” e viene tradotto in inglese e pubblicato, l’anno successivo, su “The New York Times”. In un momento in cui le tesi criminologiche lombrosiane attirano non poche critiche sul piano internazionale, lo scienziato veronese presenta il “suo Museo” come un complesso di “oggetti parlanti”, a suffragio della propria concezione teorica: «Come il veterano ricorda, accanto al caminetto, il rumor della battaglia, le grida dei feriti, le convulsioni degli agonizzanti, così io ora al declinar della vita ripasso qui in rivista con calmo piacere quelle battaglie non men faticose per la vittoria della mia scuola, e quei poveri trofei raccolti dal ’59 in poi, pezzo per pezzo, prima in una camera da studente, spauracchio continuo delle padrone di casa, poi in una specie di granaio che fungeva da laboratorio nella via Po di Torino, finalmente nel ’99 nelle ampie sale del Museo psichiatrico criminale, nei nuovi laboratori biologici della Università di Torino».

Quel Museo, chiamato a difendere visivamente la scientificità della teoria lombrosiana e a rivendicare, nello stesso tempo, il primato torinese nel campo dell’antropologia criminale, è oggi risorto – dopo la lunga crisi che lo colpì a partire dagli anni trenta – nel cuore stesso della “Città della Scienza” del Valentino. E proprio i luoghi della Torino positivista – gli edifici progettati da Leopoldo Mansueti, ma anche lo stesso “salotto” Lombroso di via Legnano – sono i primi protagonisti di questo allestimento, e del ricco catalogo - curato da Silvano Montaldo e Paolo Tappero - che lo descrive e analizza dal punto di vista storiografico. Il secondo, fondamentale attore in scena è il materiale documentario esposto. La sua varietà e ricchezza rappresentano, in primo luogo, una celebrazione della cultura positivista e della sua capacità di trasformare in “oggetti” scientifici i differenti aspetti del senso comune, cancellando i confini tra scienza e non scienza: arte, poesia, filosofia, tradizioni popolari, comportamenti sessuali, esperienze spiritiche si trasformano tutti in materia di misurazione e di investigazione scientifica. In secondo luogo, lo stesso procedere accumulativo delle ricerche lombrosiane e della collezione museale finisce per immergere il lettore e il visitatore nel “paradigma indiziario” del criminologo: tatuaggi, amuleti, grafie, linguaggi, manufatti, maschere mortuarie definiscono un paesaggio semiologico finalizzato all’individuazione della patologia e allo sviluppo di una scienza delle varietà devianti del mondo umano. Un campionario di segni, intriso di positivismo e di immaginario romantico, che non a caso affascinerà, tra gli altri, anche il creatore di Sherlock Holmes, ben noto maestro del metodo “indiziario” teorizzato da Carlo Ginzburg.