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INTERVISTA A BRUNO ORSINI DI ANNA VIACAVA

 

 

Recensioni bibliografiche

 Bruno Orsini fu relatore nel 1978 della legge di riforma psichiatrica (L. 180/79). Questa intervista è stata pubblicata su "L'indice dei Libri del Mese" del dicembre 2008 in occasione del 30° anniversario della Legge 180. Si ringrazia vivamente l'autrice dell'intervista per aver accordato l'autorizzazione alla pubblicazione sul sito dell'A.S.S.E.Psi..

 

 




 

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Rivista Frenis Zero

 

 

     Anna Viacava è psichiatra e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, membro del Centro Torinese di Psicoanalisi. Fa parte  anche del Centro di Psicologia Transculturale  di Torino, dove svolge attività di counseling. Ha inoltre curato l'edizione italiana del libro di A. Haynal "Freud, Ferenczi, Balint e la questione della tecnica" (Centro Scientifico Editore, 1987).

   

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1)    Quali sono state le ragioni per cui Lei nel 1978 è stato nominato relatore della legge 180 ?

 

 Forse perché esprimevo in Parlamento la cultura e le posizioni del riformismo psichiatrico. Da medico di un Ospedale Psichiatrico avevo partecipato attivamente alle battaglie dell’AMOPI, associazione di psichiatri, che aveva conquistato i suoi spazi e raggiunto rilevanti risultati con la riforma Mariotti del 68. Da deputato, eletto nel 1976, svolsi nel giugno 77 al Convegno organizzato dall’Ufficio Sanità della D.C. una relazione in cui esponevo le linee di riforma psichiatrica che costituirono poi l’impalcatura della Legge 180. Poco dopo mi fu affidato l’incarico di coordinare la legislazione psichiatrica sulle basi che avevo indicato. Nel dicembre del ’77, quando la Camera votò il disegno di legge istitutivo del Servizio Sanitario Nazionale (che poi passò al Senato per la seconda lettura), esposi nell’aula di Montecitorio la nostra posizione sulla salute mentale. Volevamo, in estrema sintesi,  una psichiatria inserita a pieno titolo nel Servizio Sanitario Nazionale, la fine della discriminazione nei confronti dei malati di mente, il superamento graduale dei manicomi e la contestuale istituzione di servizi per la salute mentale negli ambienti di lavoro e di vita.

Tuttavia, nel febbraio del 78 , fu ammesso un referendum proposto dai radicali sull’abrogazione della legge manicomiale del 1904. Ciò destò  profonda preoccupazione perché, se la proposta  referendaria, come era prevedibile, fosse stata respinta, la legge manicomiale avrebbe avuto una indiretta conferma dal corpo elettorale e sarebbe quindi diventata immodificabile. Per evitare tale rischio chiedemmo al Governo di stralciare le norme psichiatriche già approvate dalla Camera e di trasformarle in disegno di legge autonomo da sottoporre  rapidamente all’approvazione del Parlamento.

Questa nostra proposta fu accolta. Evidentemente, quando Maria Eletta Martini, presidente della Commissione Sanità della Camera, sentiti i gruppi politici e, presumo, anche il governo, mi nominò relatore di tale disegno di legge ( che , profondamente modificato, divenne poi la legge 180)  non compì una scelta soltanto tecnica, ma anche un’opzione politica in senso riformista.

 

2)    Perché la riforma si realizzò proprio allora?

 

Per il concomitante verificarsi di più situazioni favorevoli.

La prima fu costituita dalla decisione delle maggiori forze politiche italiane di riformare radicalmente l’assetto della sanità italiana istituendo con il Servizio Sanitario Nazionale, finanziato dalla fiscalità generale, un sistema capace di assicurare in condizioni di uguaglianza a tutti i cittadini la tutela della salute nelle fasi della prevenzione, della cura e della riabilitazione, in cui sarebbero confluite tutte le realtà sanitarie del Paese. Ciò costituì una grande occasione per realizzare l’inserimento della psichiatria nelle Unità Sanitarie Locali e cioè nel corpus della Sanità Italiana, liquidando così la secolare e stigmatizzante separatezza della psichiatria dalle altre discipline.

Ma si verificarono in quel tempo altre due circostanze favorevoli : una specifica ed una generalissima. La prima riguardava la rapidità con cui si sviluppavano le conoscenze. le tecniche terapeutiche ed i  mezzi farmacologici idonei a curare efficacemente e spesso a guarire le manifestazioni psicopatologiche. Ciò attenuava paure e reazioni dell’opinione pubblica nei confronti dei malati di mente e rendeva sempre meno credibile lo stereotipo del “pazzo incurabile” da segregarsi a vita perché inguaribile e pericoloso. Sul piano generale si registrava la migliore coesistenza, talvolta anche collaborativa, tra le maggiori forze politiche: ciò favoriva , anche in ambito sanitario, la sintesi legislativa tra posizioni originariamente dissimili.

 

 

3)    Quale ruolo giocò il quadro culturale internazionale e la cosiddetta “antipsichiatria” ( Goffman, Laing, Kooper ecc)sul pensiero psichiatrico italiano? Quali collegamenti ebbe con il movimento di psichiatria democratica guidato da Franco Basaglia?

 

 

La controcultura degli anni 60 – 70, che ebbe dimensione internazionale, affrontò il problema della devianza valorizzando la soggettività e contestando le discipline oggettivanti e normalizzatrici. Contribuì alla revisione critica del concetto di malattia mentale, di normalità psichica e di follia e contestò pesantemente le teorie e le pratiche cliniche della psichiatria classica. Tutto ciò influì sulla cultura psichiatrica del nostro Paese. In partico9lare i contributi di Erving Goffman e di Ronald Laing ebbero larga risonanza in Italia. Goffman nel suo libro ”Asilums” (1956), indicando il manicomio come tipica “istituzione totale” capace di annullare l’identità del ricoverato e quindi come realtà non solo antiterapeutica ma patologizzante, diede forza alle posizioni antimanicomiali. Anche Laing influì sulla nostra cultura psichiatrica negando sostanzialmente la base biologica della cosiddetta pazzia intesa “come strategia speciale che una persona inventa per vivere in una condizione in cui non può vivere”. Sottolineando massicciamente il carattere  patologizzante della cultura, del costume, e, in genere, della società contemporanea, anche Laing contribuì ad interpretare in chiave sociogenetica la sofferenza psichica.

Un qualche collegamento tra tali posizioni e l’iter teorico pratico del movimento basagliano può essere colto ma il pensiero-azione che lo caratterizzò ebbe una sua autonomia ed originalità.

Il primo Basaglia, quello di Gorizia e della “lotta al manicomio”, fu certamente influenzato dagli scritti di Goffman, ma , assai più , dalla diretta esperienza della vergognosa realtà dei nostri manicomi. La demanicomializzazione realizzata da Basaglia in quegli anni fu esemplare e dimostrò , con i fatti, che la deistituzionalizzazione era possibile. “L’Istituzione negata” non fu solo un libro, ma divenne un riferimento importante per il superamento del manicomio che molti auspicavano , ma pochi sino ad allora avevano tentato di realizzare. Non a caso l’esperienza goriziana ebbe una così vasta risonanza da favorire la formalizzazione legislativa di alcune tesi riformiste prima giudicate impraticabili.

Nel secondo Basaglia, quello che, anche dopo il superamento del manicomio, metteva “tra parentesi”il tema della malattia mentale, restava critico sulla stessa idea di riformismo e diffidente sino all’ostilità, sul rapporto tra psichiatria e medicina, potevano forse sentirsi gli echi delle posizioni antiche che davano validità prevalente agli interventi collettivi e politici e all’autonoma soggettività del paziente.

 

 

4)    Quale fu la posizione di Basaglia e di psichiatria democratica  sulla legge 180?

 

L’elaborazione di proposte legislative non sembra essere mai stata al centro degli interessi dell’area basagliana. Recentemente il “gruppo dei goriziani” ha sostenuto che le leggi vanno presentate in Parlamento dai politici. A sua volta Jervis ha scritto di Basaglia che “né lui, né i suoi collaboratori descrivono come avrebbero dovuto essere i nuovo servizi, non ho reperito un solo scritto da parte loro che fosse somigliante a un piano o a un programma per l’assistenza psichiatrica in Italia”.

Personalmente, avendo lavorato sulla legislazione di riforma psichiatrica nel 1977 – e nel 1978, non ho mai avuto in Parlamento interlocutori autorizzati a parlare a nome di Psichiatria Democratica né ricevuto documenti da essa sottoscritti. Naturalmente percepivo dalla stampa, da incontri personali e informali, da rapporti di varia natura, la posizione di tutti gli interlocutori significativi sulle scelte di fondo che andavamo definendo.

Ne trassi la convinzione che sull’inserimento a pieno titolo dei servizi per la salute mentale nel nascente Servizio Sanitario Nazionale, sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Pubblici mediante il blocco immediato dei nuovi ricoveri, sull’organizzazione territoriale dell’assistenza fosse possibile aggregare  un largo consenso.

I nodi più aggrovigliati erano due: l’ammissibilità e le modalità di trattamenti sanitari non consensuali per crisi psicotiche acute e il ricovero di tali pazienti, ove indispensabile e per breve termine, in appositi servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura. Su tali punti colsi il dissenso , seppur non formalizzato, di psichiatria democratica e, credo, dello stesso Basaglia. Tale dissenso fu superato con la necessaria fermezza ed entrambi i punti controversi furono infine approvati all’unanimità dopo alcuni aggiustamenti. Certamente anche da tale vicenda emerse una generale differenza di approccio che credo permanga tuttora: quella di chi considera la psichiatria come cosa altra rispetto alla medicina e quella di chi , come me,  pur rifiutando la medicalizzazione pura e semplice della sofferenza psichica, non rinuncia alla dimensione sanitaria e quindi anche medica della psicopatologia.

 

 

 

 

 

5)    Come valuta i risultati concreti dell’applicazione della riforma del 78 nell’ormai lungo arco temporale da allora trascorso?

 

L’avvio della riforma fu tormentato e difficile per problemi tecnici oggettivi e per radicalizzazioni culturali e politiche. L’istituzione dei contestati servizi ospedalieri di diagnosi e cura fu lenta e numericamente inadeguata con difficoltà nel ricovero dei pazienti acuti e comprensibili reazioni delle famiglie. La mobilità del personale ( una specie di esodo dai manicomi al territorio)  fu laboriosa. Le singole Regioni, titolari della programmazione, assunsero posizioni formalmente e sostanzialmente assai diverse, determinando disparità e talvolta confusione persino lessicale. Le dimissioni dai manicomi non furono sempre prudenti e oculate. Conclusasi la fase dell’unità nazionale, il clima politico tornò ad essere conflittuale ed anche la riforma psichiatrica divenne occasione di contrapposizioni talvolta aggressive e strumentali.

Tutto ciò diede luogo ad innumerevoli iniziative parlamentari di revisione legislativa, nessuna delle quali, però, ebbe successo.

Il quadro successivo registrò un progressivo miglioramento per il crescente dispiegarsi e radicarsi dei servizi territoriali, per il loro coordinamento con quelli ospedalieri, per l’attenuarsi delle contrapposizioni politiche e sindacali. Negli anni 90 un’incisiva programmazione nazionale diede al sistema omogeneità e chiarezza e le leggi finanziarie determinarono le condizioni per la definitiva chiusura dei residui manicomiali.

Credo  si possa affermare che la situazione attuale è incomparabilmente migliore di quella di trent’anni fa’ proprio perché la legge 180 ha mutato radicalmente e positivamente  il rapporto tra la società italiana e i malati di mente, sostituendo alla logica della reclusione e della espulsione quella della cura e del reinserimento. I sofferenti psichici fruiscono oggi degli stessi diritti di tutti gli altri malati e gli strumenti organizzativi e terapeutici a difesa della salute mentale sono qualitativamente e quantitativamente assai più efficaci. Mi sembra ci siano buone ragioni per ritenere che la nostra determinazione nel costruire una psichiatria senza manicomi abbia avuto successo.

 

 

6)    Quali ritiene siano oggi le esigenze di aggiornamento gestionale e legislativo in materia di salute mentale? Cose pensa delle linee di indirizzo in tal senso predisposte dal precedente governo e degli intenti revisionisti preannunciati dai parlamentari dell’attuale maggioranza?

 

Le rilevanti trasformazioni demografiche, sociali, culturali, economiche del Paese negli ultimi decenni sono evidenti. Siamo di fronte a nuovi bisogni e a nuove domande, che investono anche l’ambito della salute mentale. Basti pensare agli imponenti fenomeni migratori e, sul piano più direttamente connesso alla salute mentale, al disadattamento giovanile, al crescente abuso di sostanze, ai disturbi alimentari, all’esplosione delle malattie psico-degenerative dell’età avanzata, alla psicopatologia carceraria.

Le linee di indirizzo del precedente governo analizzano correttamente tali emergenze.

“Dall’esclusione all’integrazione” : questa fu una delle generali linee guida della riforma del 78 e ad essa le “linee di indirizzo” del precedente governo fanno riferimento. Tuttavia il progetto Turco sembra voler affidare ai servizi di salute mentale non solo il compito di una risposta integrata alle sopra indicate emergenze psicopatologiche, ma anche l’onere di un’azione di contrasto a tutte le forme di emarginazione, abbandono, stigmatizzazione. Tale ampiezza di compiti va, come si è detto, “oltre la psichiatria”. E’ certamente affascinante, ma carica i servizi di salute mentale di compiti che travalicano le loro oggettive potenzialità. Non dobbiamo quindi  indulgere ad una  concezione  olistica e perciò illusoria dei servizi di salute mentale e ricordare che il loro primo compito è pur sempre quello di svolgere corrette e personalizzate attività di diagnosi e cura dei sofferenti che ad essi si rivolgono.

Certo i Servizi devono “ farsi carico” della necessità che tutti gli esclusi possano fruire dei diritti di cittadinanza. Ma tale compito, essenziale e generalissimo, non può essere affidato né esclusivamente e neppure prevalentemente a servizi con l’identità sanitaria propria dei nostri dipartimenti.

Per quanto concerne possibili revisioni di segno involutivo della 180 credo sia opportuno stabilire quali sono i punti fermi non negoziabili.

Il primo di essi è costituito dal rifiuto di ritornare ad una legislazione speciale delle malattie mentali che sarebbe di per sé discriminante.

Occorre inoltre rifiutare l’antica sovrapposizione del concetto di pericolosità a quello di malattia mentale e quindi evitare che il ricovero coatto abbia motivazioni non sanitarie. La tutela della sicurezza pubblica conosce infatti strumenti operativi efficaci applicabili a tutti i cittadini siano o no malati di mente.

Inoltre i trattamenti sanitari obbligatori per malattie mentali devono avere tempi e sedi tali da non ripristinare sotto alcuna forma le antiche soluzioni manicomiali.

Salvaguardati tali principi,  tutte le innovazioni possono essere esaminate, tenuto conto  peraltro che ormai in tutta l’Europa gli strumenti coattivamente custodialistici sono in via di eliminazione.