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"Eredità senza eredi"

 di Claudio Pogliano

 

 

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In attesa della riapertura del Museo Lombroso di antropologia criminale

 

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Rivista Frenis Zero

 

Questa recensione è apparsa su "L'Indice dei Libri del Mese" di luglio 2009 (n.7/8). Si ringrazia l'autore per aver accordato a Frenis Zero l'autorizzazione alla pubblicazione. Claudio Pogliano insegna storia del pensiero scientifico all'Università di Pisa.

    

   

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 Accanto ai fragorosi anniversari di questo 2009 (Galileo, Darwin), ce n'è uno molto più discretamente celebrato, che riguarda i cento anni trascorsi dalla morte di Cesare Lombroso. Senza dubbio le tracce da lui lasciate nella storia della scienza e della cultura non sono paragonabili per dimensione e profondità a quelle galileiane o darwiniane; eppure il suo singolare passaggio sulla scena fin de siècle merita d'essere ricordato. "Un altro libro su Lombroso? Su questo singolare autore si è scritto a profusione, fors'anche troppo (e, comunque, non di rado a sproposito)": così nel 2004 Daniele Velo Dalbrenta quasi si scusava aprendo il proprio (La scienza inquieta. Saggio sull'Antropologia criminale di Cesare Lombroso, Cedam). In effetti appare robusta la consistenza della letteratura che su di lui, sulla sua multiforme attività e sul suo lascito, si è prodotta a a partire dalla metà degli anni settanta, dopo un relativo oblio durato qualche decennio.

Una trentina di voci danno vita a questo nuovo libro su Lombroso (Cesare Lombroso cento anni dopo, a cura di Silvano Montaldo e Paolo Tappero, pp.XVI-410, € 22, Utet, Torino 2009), che Silvano Montaldo introduce menzionando subito sia la recente fioritura di studi lombrosiani, che risale alla metà degli anni settanta, sia le interpretazioni per nulla univoche che mano a mano si sono venute producendo e confrontando. Fra l'altro, il libro prelude all'annunciato catalogo che uscirà in occasione della riapertura del museo di antropologia criminale nell'edificio dove originariamente si trovava, grazie alla ben nota perizia filologica di Giacomo Giacobini e delle sue collaboratrici, Cristina Cilli e Giancarla Malerba. Va detto che questa raccolta di scritti è piuttosto utile, e che non potrà prescinderne chi di Lombroso - e di ciò che vi ruota intorno o ne discende - vorrà farsi un'idea generale ma non generica. Vi si trova un nucleo di autori ormai quasi "classici", ma ci sono altresì nuove reclute, oppure collaboratori che affrontano qualche aspetto particolare; si distinguono inoltre, per offrire un'interessante mappa geografica, gli otto saggi sulla ricezione dell'antropologia criminale all'estero.

Subito dopo la morte di Lombroso, Agostino Gemelli fece un giro di conferenze in varie sedi di associazioni universitarie e rapidamente le pubblicò con un titolo che lascia trasparire una certa soddisfazione: "I funerali di un uomo e di una dottrina". Ai suoi occhi la nefandezza di Lombroso consisteva nel non essersi accontentato di studiare il delinquente o il genio, e di aver voluto invece agire da "soldato del Monismo": una filosofia pericolosissima che avrebbe pervaso tutti i campi dello scibile, rovesciato la fede, sovvertito l'ordine sociale, messo il bruto a livello dell'individuo umano, tolto ogni concetto di responsabilità, cacciato Iddio tra i ferrivecchi, negato ogni diritto allo spirito. Una dottrina, quella che Gemelli era contento di dichiarare seppellita, "superlativamente semplicistica". E, più o meno nel medesimo periodo, sul rozzo semplicismo di quel "brav'uomo del Lombroso" si soffermò anche Giovanni Gentile, intento a narrare la favola della cultura filosofica italiana in modo da favorire la liquidazione di ogni residuo positivismo e il successo del neoidealismo. Un'operazione culturale e politica di grande respiro, la sua (e di Benedetto Croce), alla quale il successo non sarebbe certo mancato. rammento questi due episodi, fra i molti possibili, per sottolineare come da parti diverse si giudicasse ormai conclusa la parabola lombrosiana già dopo il primo decennio del Novecento.

Si potrebbe forse parlare, per Lombroso, di una "fortunata sfortuna". Il suo caso resta unico nella storia della cultura italiana postunitaria: si tratta senz'altro della nostra merce "più esportata" all'estero verso la fine dell'Ottocento (come sottolinea Delia Frigessi in "Cesare Lombroso", pp.XV-426, € 34, Einaudi, Torino 2003), ossia di idee circolate e discusse ovunque in Europa e oltreoceano; idee  che spaziano dalla medicina al diritto, dalla sociologia alla politica. Eppure l'antropologia criminale, principale creatura di Lombroso, sembra lasciare un'"eredità senza eredi", come suona il titolo del saggio di Pierpaolo Martucci. Al di là di una precaria sopravvivenza nella nomenclatura accademica, quella creatura tramonta quasi insieme al suo creatore. Mi pare significativo, in proposito, che l'ultimo congresso internazionale di antropologia criminale, convocato a Budapest nel 1914, non si tenesse per lo scoppio della guerra: dopodiché non ve ne sarebbero stati altri. E il centinaio di pagine che in questo volume ricostruiscono le sorti del lombrosismo in alcuni paesi europei, America latina e Stati Uniti confermano a mio parere la formula della "fortunata sfortuna": in svariati modi Lombroso ammaliò un pubblico vario, ma suscitando anche forti reazioni polemiche e strenue opposizioni. Già in vita, d'altronde, gli accadde d'essere bersaglio di frequenti attacchi, e di differente provenienza; una grande popolarità si accompagnò alla crescente demolizione e ridicolizzazione delle sue teorie e pratiche. E' comprensibile che i cattolici volessero esorcizzare quel "professore ebreo che beffardamente va tutto minando"(così un fascicolo di "L'Italia Reale" nel 1899); ma anche un vecchio amico come Paolo Mantegazza se la prese sovente con la "cabala da negromanti" tipica dei lombrosiani. A cogliere i numerosi distinguo di chi pure gli fu vicino, varrebbe la pena rileggere il volume giubilare che amici, allievi e colleghi composero nel 1906 per il trentesimo anniversario dell'ascesa alla cattedra torinese.

Per grandi linee quella curiosa vicenda appartiene al percorso compiuto dal positivismo di matrice lombardo-veneta, tra Marzolo e Cattaneo, che presto diventò materialistico grazie a germi esterni: valga la passione giovanile di Lombroso per la buona novella predicata in Italia dall'olandese Jakob Moleschott. Tutta quanta una retorica o un feticismo del "fatto" - il fatto palpabile, misurabile, archiviabile - raggiunge la sua acmé in lui, che si vanta di "essere schiavo" dei fatti e di seguirli "ciecamente". Un'acmé nondimeno paradossale, se si pensa a quanto inventati, costruiti, sollecitati siano quei fatti. Come una trasparente boite à musique, il positivismo materialistico lombrosiano svela a ogni passo, senza volerlo e senza accorgersene, i propri ingranaggi costitutivi, gli eccessi di disinvoltura, i trucchi di lavorazione.

Insomma, il "caso" Lombroso merita ancora la giusta attenzione - questo libro lo dimostra - per più di un motivo. Tutto sommato ci si trova di fronte a qualcosa che concerne la peculiarità dei processi di modernizzazione vissuti dalla "nuova" Italia nel suo primo mezzo secolo d'esistenza. E per inciso va rilevato che quell'arco di tempo registra anche un mutamento sensibile nell'agire di Lombroso e nel suo stile di pensiero: una parabola che segue il mutare degli eventi e si modifica non poco. Non c'è un unico Lombroso; semmai numerose sue varianti si susseguono oppure sovrappongono non senza visibili tensioni e contraddizioni, che alcuni autori del volume evidenziano. Basti pensare che in vent'anni - dal 1876 al 1896 - "L'Uomo delinquente" passò da un singolo volume di appena 250 pagine a tre tomi più atlante, sfiorando le duemila pagine:"curioso zibaldone" lo definisce Renzo Villa, dove si stratificano e teatralizzano le esperienze da cui trae alimento la disciplina in via di edificazione.

Ultima, breve notazione critica: credo inutile supporre in atto una "riabilitazione" di Lombroso - come pare a Nicole Rafter e a Marcello Costa - da parte di un'epoca presente che apprezza le spiegazioni biologiche del comportamento umano. Né mi convince quel ruolo, che gli viene assegnato, di "pioniere" o "anticipatore" il cui lavoro prefigurerebbe addirittura l'odierna ricerca neurologica e genetica. Già trent'anni fa un autorevole storico, George Mosse, aveva voluto inserire Lombroso nella lunga galleria di "premonizioni" del nazismo: nel suo saggio Francesco Cassata opportunamente respinge quell'approccio come "anacronistico e riduzionistico". Forse sarebbe preferibile limitarsi a esplorare un caso di estremo interesse storiografico iuxta propria principia, evitando superflue tentazioni attualizzanti.