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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

Recensioni Bibliografiche

 

  "PSICOANALISI E NEUROSCIENZE: UN DIALOGO POSSIBILE"

 

 

  Resoconto di Giuseppe Leo del Convegno organizzato a Napoli  il 17 aprile 2010 dalla S.I.Ps.I.A. (Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica dell'Infanzia, dell'Adolescenza e della Coppia)

  

 

 

Nella foto: un momento della tavola rotonda con (da sinistra) Emanuela Mundo, Tiziana Bastianini, Rosario Savino e Rossella Ferraro


 Si è svolto a Napoli il 17 aprile 2010 il convegno "Psicoanalisi e neuroscienze: un dialogo possibile", organizzato dalla sezione campana della S.I.Ps.I.A. (Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica dell'Infanzia, dell'Adolescenza e della Coppia). Il primo intervento ("Il dialogo tra Psicoanalisi e Neuroscienze: riflessi sul lavoro clinico in età evolutiva") è stato del neuropsichiatra infantile Rosario Savino che, attraverso l'illustrazione di un caso clinico ( un ragazzo con gravi disturbi del comportamento) e delle complesse reazioni transferali-controtransferali che egli suscitava, ha enunciato una serie di punti riguardanti sia la teoria che la tecnica psicoanalitica su cui il contributo delle attuali neuroscienze si fa sempre più ineludibile.

A seguire c'è stata la relazione di Emanuela Mundo (psichiatra, docente alla Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica all'Università "La Sapienza" di Roma) dal titolo "Le basi del dialogo fra Psicoanalisi e Neuroscienze". La relatrice ha evidenziato come il progredire della ricerca nell'ambito delle neuroscienze sembra indurre un superamento della dicotomia mente/cervello: in particolare, in seguito ai risultati degli studi sulla biologia molecolare della plasticità sinaptica in risposta a stimoli ambientali, <<la psicologia sembra aver ottenuto la possibilità di una maggiore validazione empirica ed essere diventata (...) una disciplina sempre più rigorosa e sperimentale, e, quindi, maggiormente accettata in alcuni ambiti scientifici>>. Tuttavia sono stati soprattutto gli aspetti cognitivi e comportamentali della psicologia ad aver avuto il beneficio del dialogo con le neuroscienze cognitive, mentre la psicoanalisi, che affronta contenuti di ordine complesso difficili, se non impossibili da descrivere con gli strumenti neuroscientifici, trova ancora arduo confrontarsi con le scoperte delle neuroscienze. In primis, poiché la psicoanalisi e le psicologie del profondo si confrontano con alcune dimensioni e contenuti ("l'inconscio") che non sono misurabili e che quindi non si prestano ad un'osservazione sistematica, quale quella richiesta dal metodo scientifico tradizionale. In secondo luogo, la dimensione soggettiva e intersoggettiva ha un peso insostituibile in psicoanalisi, anzi ne rappresenta la vera ricchezza, ma naturalmente sembra rappresentare anche un limite per un approccio scientifico alla teoria ed alla pratica analitica. Tuttavia, la Mundo aggiunge che <<sembra impossibile oggi ignorare le possibilità che le neuroscienze ci forniscono per la comprensione di come un individuo e il suo substrato neurobiologico possono cambiare in virtù di esperienze relazionali, inclusa quella terapeutica analitica>>. Si tratta di una sfida che oggi non può essere evitata, secondo la relatrice. Nella seconda parte del suo intervento, la relatrice si muove seguendo un'analogia illustrata da questa frase: <<La plasticità dell'individuo (e la sua possibilità di cambiamento) ha un luogo: la sinapsi (e la stanza d'analisi)>>. La sede della plasticità cerebrale (che permette all'individuo di cambiare) è la sinapsi. <<E' interessante, e fa riflettere>> secondo la Mundo <<il fatto che la sinapsi sia il luogo di un incontro, di una comunicazione tra cellule che, pur non "toccandosi" fisicamente, sono in un profondo rapporto tra loro, un rapporto finemente regolato, attraverso un mezzo (il neurotrasmettitore). L'analogia con l'incontro e il rapporto tra paziente e terapeuta che avviene nella stanza d'analisi è inevitabile e, per certi versi, sorprendente>>. Oltre ai modelli sperimentali di plasticità (come quelli di Kandel), ce ne sono di clinici. Tra questi il trauma, secondo Emanuela Mundo, rappresenta un "concetto ponte", paradigmatico della possibilità di intraprendere percorsi interdisciplinari tra psichiatria, biologia e psicoanalisi. Ma il trauma è anche un modello di come gli eventi ambientali possano modificare la struttura e le funzioni cerebrali <<al di là di quanto sia geneticamente determinato nell'individuo, determinando effetti a breve, medio e lungo termine anche in funzione dell'età in cui si verifica>> secondo le parole dell'autrice. Perciò Ansermet e Magistretti (nel libro "A ciascuno il suo cervello. Plasticità neurale e inconscio", 2004) chiamano il trauma "la malattia della plasticità" neuronale e dei meccanismi molecolari e cellulari ad essa sottesi. Si potrebbe pertanto pensare al trauma come al contrario dell'apprendimento, ad un impoverimento della connettività neuronale <<a vantaggio di circuiti attraverso cui il trauma continuamente si riattualizza divenendo tuttavia sempre più sfuggente rispetto a qualsiasi possibilità di mentalizzazione>> secondo le parole della relatrice. La ripetizione continua nel sintomo o nel sogno, paradossalmente in contraddizione con il principio di piacere, permettono l'illusione di un ruolo attivo nella ri-esposizione al trauma che ha la funzione di negare lo stato di passività, inermità e il rischio di uno stimolo che sorprende il soggetto evocando uno stato di allarme. Secondo la Prof.ssa Mundo, <<Questa tendenza alla ripetizione compulsiva (...)  sembra rispondere a un doloroso nonché impossibile desiderio di riparazione e, al tempo stesso, essere un tipo familiare di sollievo dal dolore, una sorta di analgesia indotta dalla ri-vittimizzazione>>. La relatrice espone interessanti acquisizioni neuroscientifiche (Van der Kolk, 1989; Orlandini, 2004) secondo cui la ri-traumatizzazione sembra produrre analgesia attraverso il rilascio di oppioidi endogeni e una dipendenza simile a quella che si verifica per gli oppiacei, compresa la sindrome astinenziale.

La relatrice si sofferma poi a trattare delle memorie traumatiche, che non rientrano nel dominio della memoria dichiarativa: la capacità di codificazione e di richiamo di tali ricordi è tanto più compromessa quanto più precoce è stata l'esperienza stressante. Nei traumi infantili l'inaccessibilità alla coscienza di tali ricordi si spiega con la loro precocità, ossia prima dello sviluppo adeguato della memoria autobiografica. Da un punto di vista neurobiologico, le due strutture cerebrali maggiormente coinvolte nella formazione delle memorie traumatiche sono l'ippocampo e l'amigdala, rispettivamente importanti per la regolazione della memoria esplicita e di quella implicita. Le due strutture sono interconnesse, e pertanto un iperfunzionamento di una incide sull'altra. E' per questo che un'iperattivazione dell'amigdala, come si verifica nella processazione di un ricordo traumatico, si riverbera in una compromissione di rappresentazione simbolica e di coscienza dell'esperienza stessa, funzione questa svolta dall'ippocampo, dando luogo al flashback. Nei soggetti traumatizzati è stato rilevata una diminuzione del volume e della funzione dell'ippocampo, un'alterazione della funzione di controllo inibitorio da parte di alcune aree della corteccia pre-frontale e un'iperattività (più o meno associata ad un aumento di volume) dell'amigdala.

Le considerazioni seguenti svolte dalla Mundo hanno attinenza coi cambiamenti a cui si può sottoporre il setting alla luce sia del modello clinico del trauma che dei dati che le neuroscienze ci forniscono. I processi dissociativi nelle vittime di trauma, come anche quei processi di sensibilizzazione o 'kindling' possono andare incontro a un potenziamento nel corso di una terapia analitica. E' importante, di conseguenza, che il terapeuta moduli gli interventi ed i parametri del setting.  Ad es., il terapeuta dovrebbe evitare situazioni di stimolazione emotiva anche minima, secondo Emanuela Mundo, che potrebbero, nelle prime fasi del trattamento, sviluppare stati di attivazione emotiva con rilascio di neurotrasmettitori o ormoni "tossici" per il cervello (ad es. i glucocorticoidi che agiscono sull'ippocampo). <<Da un punto di vista pratico>> afferma testualmente la relatrice <<è importante che il terapeuta, di fronte al paziente traumatizzato, sia in grado di modulare la velocità e l'intensità degli interventi, di abbassare il tono di voce, utilizzando (...) "colori pastello e non colori primari" (Wilkinson, 2006), che sappia utilizzare il contatto visivo come "holding" (simbolico, perché quello reale di fatto può portarea a una ri-traumatizzazione), che utilizzi frasi semplici, e che tenga a mente che la comunicazione verbale e lo strumento interpretativo in questi pazienti non è sufficiente per limitare o curare gli stati dissociativi che possono verificarsi anche durante la seduta e che dipendono da un'alterazione neurobiologica a carico prevalentemente dell'emisfero destro>>.

Riguardo ad una sezione successive della relazione, quella riguardante gli effetti della psicoterapia sulla struttura e sulle funzioni cerebrali, la Mundo afferma che, in base all'ipotesi generale che la psicoterapia rappresenti una forma controllata di apprendimento, la ricerca si è occupata, finora, principalmente delle psicoterapie cognitivo-comportamentali. <<Il principale limite di questi studi>> esplicita la relatrice <<(...) è rappresentato dal fatto che i disegni sperimentali controllati escludono spesso le variabili soggettive che possono influenzare, se non determinare, il cambiamento clinico>>. Ora, ci aspetteremmo che l'effetto dell'intervento psicoterapeutico sul cervello si riveli primariamente a livello delle aree cerebrali maggiormente implicate col processamento della memoria implicita, ossia neocorteccia e amigdala. Tuttavia, davvero pochi sono a tutt'oggi gli studi di 'neuroimaging' che hanno valutato l'effetto della psicoterapia dinamica e della psicoanalisi sull'attività cerebrale. Da un lato, perché studiare gli effetti di una psicoterapia che si rendono evidenti dopo mesi o anni richiede tempi di follow-up molto lunghi.  Dall'altro, è praticamente impossibile stabilire a priori quali caratteristiche il cambiamento deve avere per essere clinicamente significativo. Infine, la maggior parte della nostra vita mentale si svolge a livello inconscio per cui oggi non disponiamo ancora di <<una precisa localizzazione neurobiologica che possa rappresentare il punto di riferimento per le indagini di 'neuroimaging'.

Sorvolerei in questo resoconto, per motivi di spazio, sulla pur interessante sezione della relazione di Emanuela Mundo sull'intersoggettività e la "sfida" dei neuroni specchio, per soffermarmi su quella conclusiva che tratta di  inconscio, inconsci e neuroscienze. La distinzione tra memoria implicita ed implicita, e tra inconscio dinamico (basato sulla rimozione) e non dinamico è oramai risaputa per soffermarcisi. A proposito dell'inconscio dinamico alcuni studi di 'neuroimaging' hanno mostrato che meccanismi di soppressione volontaria di ricordi sgradevoli che, se ripetuti nel tempo, potrebbero dar luogo a meccanismi di rimozione, inducono una riduzione dell'attività dell'ippocampo e un aumento dell'attività della corteccia prefrontale dorsolaterale. Ciò ha portato a ipotizzare che l'ippocampo possa essere il luogo dove vengono immagazzinate le tracce rimosse, che sarebbero sotto un controllo corticale.

 

 

Foto: Freud S. 1895, Progetto di una psicologia : "una rete di neuroni" Elaborazione grafica


Tiziana Bastianini, psicoanalista (membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana), ha intitolato il suo intervento "Comunicazione inconscia, conoscenza mimetica e fenomeno del mirroring: alcuni quesiti". La relatrice parte da una affermazione di Ogden (in Conversazioni al confine del sogno, 2003): <<E' necessario che gli psicoanalisti continuino a sviluppare metodi indiretti per "afferrare la dinamica" (Freud, 1922) delle dimensioni inconsce della relazione analitica". Per la Bastianini, un possibile uso indiretto delle acquisizioni neuroscientifiche potrebbe risiedere nel continuare ad interrogare la psicoanalisi "per afferrare la dinamica", mai data una volta per tutte. Per la relatrice sarebbe utile interrogare le questioni relative al mirroring,<<all'interno di quella polarità dialettica>> afferma testualmente <<costituita da memoria e affetti che sostengono l'articolazione di base della formazione della nostra struttura psichica, ma anche del pensiero psicoanalitico>>. La relatrice introduce a questo punto il problema della conoscenza mimetica attraverso alcune riflessioni provenienti dall'arte (riferimenti a "La lettera rubata" di Poe), ed in particolare dal teatro (Shakespeare). La Bastianini passa quindi a richiamare come all'origine della vita psichica Meltzoff abbia dimostrato l'esistenza di un'attività imitativa presente sin dalle prime ore di vita.

Ai rapporti tra identificazione e imitazione è dedicata la successiva sezione della relazione. Per Gaddini (in "Sull'imitazione" [1969] in Scritti, 1989) <<l'imitazione risulta connessa, in origine, con la percezione, nel senso che la percezione primitiva è fisicamente imitativa. Nelle prime settimane di vita, il bambino percepisce modificando il proprio corpo in relazione allo stimolo. In questo modo il bambino non percepisce lo stimolo reale, ma la modificazione avvenuta nel proprio corpo. Da questa comunanza di percezione e di imitazione fisica, prende forse avvio la differenziazione dei sistemi di percezione e di memoria. Sul destino ulteriore di queste percezioni imitative e delle loro tracce mnestiche, ha un'influenza determinante, nel senso di una evoluzione normale o patogena, il regime di gratificazioni e frustrazione dei bisogni a cui il bambino viene sottoposto>>. Gaddini ha anche introdotto il concetto di "immagine allucinatoria": egli fa riferimento a quella condizione in cui l'assenza dell'oggetto gratificante innesca una rappresentazione dell'oggetto in immagine che viene vissuta dal bambino come realtà, tutto ciò al fine di porre fine alla condizione penosa dell'assenza. Per Gaddini,   l'immagine allucinatoria non è solo il prototipo del pensiero (Rapaport), ma anche il prototipo psichico dell'imitazione. Quindi il modello fisico "imitare per percepire" si tramuta nel modello psichico parallelo "imitare per essere" (Gaddini, 1969, op. cit.). Per Bastianini, <<ci troviamo di fronte, in questa prospettiva, ad una prima articolazione del concetto di conoscenza mimetica, in cui l'imitazione comincia a delinearsi secondo una traiettoria che prefigura una organizzazione psicopatologica che evolverà successivamente nella concettualizzazione del funzionamento "come se">>. 

 

  Foto: Sandor Ferenczi

Ferenczi ("Stages in the development of the sense of reality", in First contribution, Hogarth, London, 1952) parla di 'duplicazione autoplastica' per descrivere <<quei processi che rendono capace un organismo di acquisire e di modificare la propria forma e le proprie parti funzionali>>.  Per Gaddini (1969, op. cit.) <<la primitiva percezione imitativa sembra condurre all'immagine allucinatoria, alle ansie di fusione mediante modificazione del proprio corpo e alle imitazioni, nella direzione del desiderio di essere l'oggetto (...) la rivalità diventa infatti più comprensibile, se si tiene conto di come essa sia vicina al modello percettivo-imitativo (l'oggetto come ciò che si vorrebbe essere)>>. Per Gaddini le imitazioni non sono solamente precursori delle identificazioni. <<Le imitazioni si possono distinguere dalle identificazioni, in primis perché le precedono, inoltre hanno a che fare con la fantasia inconscia e non ancora con la realtà, da ultimo perché perseguono un loro processo di sviluppo, che sembra avere una parte distinta nella struttura dell'io. In alcune condizioni psicopatologiche dobbiamo aspettarci una regressione all'imitazione, che comporta un rapporto oggettuale di tipo primitivo, con fantasie inconsce connesse a sentimenti di onnipotenza>>(Gaddini, 1969, op. cit.).

 

Foto: Aby  Warburg

Warburg aveva parlato di "pathosformel", concetto che, secondo Bastianini, rinvia al rapporto tra movimento corporeo ed espressione dell'emozione alla cui base c'è l'assunto che in ogni impressione visiva c'è un contenuto emotivo. Tiziana Bastianini parla di "percezione patica", di una percezione embricata con le dinamiche affettive. E aggiunge: <<Dunque, dobbiamo ritenere che le circostanze nelle quali una percezione può diventare conscia, rappresenti un aspetto attivo del funzionamento psichico, probabilmente in relazione alle funzioni protettive nei confronti degli stimoli, ipotesi che ci conduce immediatamente nell'area delle funzioni difensive ancorché precoci e rudimentali, così come sosterrò successivamente nel lavoro, a proposito di neuroni specchio e difese percettive>>.

Il campo che la relatrice ha inteso esplorare è quello compreso tra le due sponde dell'affetto e delle memorie affettive, che vengono comunicate in forme preverbali. E propone una riflessione di Riolo ("L''agire' come linguaggio e rappresentazione", in Rivista di Psicoanalisi, 3, 1978): <<Il tentativo di comporre un simile iato comporta lo sviluppo di una capacità della mente di funzionare come recettore di messaggi sensorio-motori diversi da quelli che siamo soliti adoperare nella comunicazione verbale: al di là delle informazioni macroscopiche e quindi ingannevoli fornite dal linguaggio v'è la necessità di fare "esperienza" dei "fatti psichici" attraverso un contatto che deve essere effettivo e impressivo tanto quanto può esserlo un atto fisico. La gamma dei fenomeni comunicabili attraverso il linguaggio verbale è estremamente povera, limitata agli aspetti filogeneticamente più recenti, quelli legati alla parola; e inoltre soggetta all'ossificazione e all'usura, alla corruzione e al fraintendimento>> (Riolo, 1978).

Il mirroring permette la creazione di un campo affettivo condiviso, di un'esperienza interaffettiva. Winnicott in Gioco e realtà (1971) nell'articolo "La funzione di specchio della madre" scriveva: <<Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge>>. Se la madre non può più guardare, i bambini <<guardano e non si vedono>>(Winnicott, 1971, op. cit.). Tale esperienza è alla base, secondo la Bastianini, anche di altre esperienze come l'esser catturati da un dipinto o da una rappresentazione teatrale: nel legame che l'artista crea col suo fruitore c'è <<una preliminare condivisione sensomotorio-emotiva che rappresenta la prima forma di attribuzione di significato>> (Boncinelli & Giorello, "Spettatori attivi", in Immagini della mente, a cura di Lucignani e Pinotti, Cortina, 2007).

  Foto: D. W. Winnicott

Se la conoscenza "come se" sta diventando un paradigma centrale nelle neuroscienze e se tali meccanismi specchio consentono <<di comprendere direttamente il significato delle azioni e delle emozioni altrui, replicandole internamente o simulandole senza alcuna esplicita mediazione riflessiva>>(Gallese et al., "Intentional attunement, mirror neurons and the neural underpinnings of interpersonal relations", in J. of the American Psychoanalytic Association, 2007), la Bastianini ritiene che come psicoanalisti ci si debba interessare a quei fraintendimenti o "falsi nessi" che specie in alcune condizioni psicopatologiche gravi e pervasive si possono osservare.

<<Il ricordo è possibile soltanto se l'Io, sufficientemente consolidato (integrato o divenuto tale), resiste alle influenze esterne, ne subisce l'effetto che però non determina spaccature>> scriveva Ferenczi (Ferenczi, "The language of the unconscious. Notes and fragments", in Final contributions, Hogarth, London, 1955). Riferendosi allo sviluppo maturativo delle funzioni percettive e di quelle mnestiche affettive, se per Freud <<la sovrapposizione dei poli percezione-coscienza rimane un ancoraggio di base, dal nostro punto di vista è necessaria una transizione teorica per dar conto della possibilità che i due poli si divarichino>> dice testualmente la relatrice. Occorre supporre una oscillazione della <<capacità del pensiero di arrivare perfino nello stato di veglia, all'identità di percezione, all'apertura del polo percezione sull'allucinatorio>>(Botella  & Botella, La raffigurabilità psichica [2001], Borla, 2004). Rappresentazione e percezione non sono in un rapporto di semplice riproduzione. Ancora con le parole dei Botella:<<Durante il lavoro dell'analista in seduta, si produce una raffigurabilità spesso rivelatrice di qualcosa di irrapresentabile che esiste nell'analizzato; irrapresentabile  in quanto esistenza di una sorta di traccia di ordine percettivo, che non ha mai avuto accesso a una rappresentazione e che può infine presentarsi, diventare comprensibile, grazie alla sua integrazione in un lavoro di raffigurabilità>>(Botella & Botella, op. cit.). Per la Bastianini, l'analista crea, trova ciò che non è stato mai rappresentato, egli rende comprensibile una traccia intraducibile in parole.

 

L'ultima parte della relazione di Tiziana Bastianini è dedicata al rapporto tra memorie traumatiche e neuroni specchio. La relatrice introduce alcune nozioni sulla neurobiologia dell'ambiguità tratte dal neurofisiologo Semir Zeki. Secondo questo autore, quando il cervello si confronta con una situazione suscettibile di aprirsi ad una molteplicità di interpretazioni, esso deve prima accertarsi di quali siano le possibili accoppiate percezione-mondo per poter scegliere quale ritenga più plausibile. In questo senso, la definizione di ambiguità risulta essere collegabile non ad un'incertezza, bensì ad una certezza, ossia la certezza di diverse interpretazioni tutte ugualmente plausibili. Tuttavia, la Bastianini avverte la limitazione dell'argomentazione di Zeki, dato che  questa si basa su una concezione cognitiva e non prende in considerazione l'affetto. Ciò che determina la scelta all'interno di una condizione di ambiguità è un processo inconscio in cui si dispiega la memoria affettiva.

A questo punto la relatrice introduce alcune questioni: cosa accade quando la percezione incontra la memoria, una memoria emotiva ed, in particolare, una memoria traumatica? Ed ancora: quale tipo di comunicazione inconscia si realizza e qual è la funzione del mirroring nella percezione di quel dato evento?

La nostra memoria è categoriale e ritrascrittiva, come aveva intuito Freud. L'area inaugurale di indagine del fondatore della psicoanalisi fu il trauma, il cui effetto - questa la scoperta di Freud - è determinato da un successivo processo di traduzione - Nachtraeglichkeit, a sottolineare un tempo che non è mai lineare. Oggigiorno, Edelman afferma che ciò che è immagazzinato non è una traccia isomorfa rispetto all'esperienza originaria, ma una potenzialità in attesa di un'attivazione. E' il concetto di "valore" (assimilabile a quello di motivazione) ad essere cruciale, secondo la relatrice, nel rendere significative le percezioni attuali. Le memorie affettive inconsce danno al passato un significato ed esercitano un'influenza selettiva sul presente.  Il "valore" è rintracciabile in quel senso soggettivo di continuità tra esistenza interna ed esterna. Sin dalle esperienze precoci madre-bambino (proto-conversazioni), esistono delle esperienze che sono procedurali e preriflessive e che, essendo preverbali, vengono registrate nei registri fisici ed affettivi piuttosto che in forme verbali narrativamente coerenti. <<Il fallimento di questa area>> cito la Bastianini <<e il venir meno di condizioni "sufficientemente buone" possono costituire a vari gradi di intensità, esperienze di tipo traumatico caratterizzate da un forte senso di impotenza da parte del bambino>>. Queste esperienze traumatiche vengono trascritte in un sistema di memoria sotto forma di aspetti negativi di sé, insieme alla presenza di un 'altro' che viene vissuto come critico, controllante e svalutante. In seduta tali memorie possono dare origine a delle forme di comunicazione inconscia in cui può apparire il volto di un analista adirato o spaventoso. Questa espressione del viso è stata codificata nella mente del paziente come il rappresentante di una sua esperienza emotiva. Ma come 'leggere' ciò avvalendosi della neurofisiologia? L'osservazione dell'emozione del volto dell'analista determinerebbe un'attivazione dei neuroni specchio (area dell'insula), ma si verificherebbe al contempo un fraintendimento nell'area di attribuzione del significato, area governata dalle "memorie affettive". Ne deriva una questione: <<che tipo di relazione possiamo assumere esista o possiamo provare a immaginare tra il repertorio di funzionamento per così dire normale del neurone specchio e alcune modalità in cui l'espressione psicopatologica conduce ad affrontare la dimensione della "coazione a ripetere"?>> secondo le testuali parole della relatrice.

Un nuovo livello di complessità viene raggiunto quando si esamina la trasmissione psichica tra le generazioni di esperienze traumatiche: se il bambino assume alcuni aspetti del genitore come parti del sé, compreso il senso di impotenza che il genitore ha allontanato dalla propria consapevolezza, il bambino opera un tentativo disperato di mantenere un legame. In ogni esperienza traumatica c'è un duplice versante: il bambino si identifica con un oggetto che travalica i confini ma anche con la percezione della propria impotenza.  E nella relazione analitica, il paziente traumatizzato porterà sia l'abusante che l'abusato, riattivando scenari in cui l'analista finisce per divenire prigioniero di forme di intrusione psichica.

A questo punto, la relatrice pone una serie di nuove questioni: tali forme di conoscenza  del sé e dell'altro possono essere definite forme di conoscenza mimetica inscritte in ciò  che la relatrice ha definito come affettività mimetica? E se la risposta fosse affermativa, che ruolo avrebbero i neuroni specchio in tali forme di apprendimento? Cosa può accadere ai neuroni specchio quando l'esperienza traumatica non consente o altera le modalità di costruzione delle funzioni di rispecchiamento? Ossia, quando lo "specchio va in pezzi", come possono le difese tentare di ripararlo? E quali segni porterà la funzione di mirroring dei tentativi di riparazione? E ancora: le difese precoci di fronte ad esperienze dolorose intollerabili che tipo di esito possono produrre a livello del funzionamento del mirroring? E, su un versante più attinente alla relazione analitica, in che modo nella comprensione dei fattori terapeutici potremmo immaginare di poter ulteriormente utilizzare i neuroni specchio?

Quello che questo dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze ha innescato è, secondo Tiziana Bastianini, uno sforzo di tutta la comunità psicoanalitica di interrogare e far lavorare il pensiero in modo da dilatare le concettualizzazioni, <<per ospitare temporaneamente forme di ricerca e indagine sul vivente, che senz'altro ci appartengono, in primo luogo nell'essere partecipi di uno sforzo collettivo del pensiero umano che va nella direzione di guadagnare sempre più aree al "senso" e alla condivisione di senso fra gli esseri umani>>.

 

 

                                                      Foto: da sinistra Gemma Zontini e Franco Scalzone in un momento del convegno.

 

 

Franco Scalzone nella sua relazione dal titolo "La Virtualità tra psicoanalisi e informatica" esordisce con una citazione di Friedman: <<Fare in modo che i neuroni rivelino i loro aspetti pregnanti resta un’impresa che fa tremare i polsi. Avventurarsi in questo compito rischioso non significa semplicemente essere in grado di fare delle asserzioni sul “cervello”. Io ritengo che l’impresa vada al di là del rinvenire “il” cervello nelle “nostre” menti e le “nostre” menti “nel” cervello. Piuttosto questa aspirazione si realizzerebbe attraverso il ritrovamento dell’attività della psiche in entrambi. In questa maniera, noi troviamo la strada che ci riconduce al nostro nome e al nostro significato originario: siamo psico-analisti; noi analizziamo la psiche umana.>> (John A. Friedman, 2004. p. 2)

 

Scalzone, nel trattare  il tema di quanto le  neuroscienze abbiano a che fare con la psicoanalisi, anche riferendosi al modo come questa nacque, afferma che il  mettere tra parentesi il rapporto della psicoanalisi con le neuroscienze costituirebbe un’operazione epistemologica “forte” che potrebbe rischiare di ridurre la psicoanalisi a un’ermeneutica o, peggio, spingerla verso lo spiritualismo, mentre essa è e deve rimanere una psicologia sui generis: la psicologia scientifica del profondo.

Richiamandosi alla lettera a Fliess del 27 aprile 1895 Freud chiamò il "Progetto" una “Psicologia per i neurologi” (p. 153) mostrando una chiara volontà di fare uno sforzo per integrare due campi la cui integrazione è a tutt’oggi incompiuta. La sfida   della nuova scienza psicoanalitica consisteva in una scienza di confine che potesse gestire un oggetto multidimensionale come la mente-cervello senza che ciò significasse una riduzione all’“isomorfismo”, ma che affermasse comunque un monismo, al di là di ogni fenomenologia, e la continuità profonda tra mente e corpo.  Freud  utilizzò una struttura-modello come rappresentazione dell’apparato neuronico, cioè del corrispettivo neuro-fisiologico dell’apparato psichico. Esso vine definito  però da Scalzone una sorta di "simulacro teorico di un apparato reale", costruito al fine di renderlo intelligibile mediante uno “schema di organizzazione di rapporti” rappresentati spazialmente: una struttura spazializzata con la relativa energia che vi circola. Per Scalzone  però, la vera ambizione di Freud era quella di trovare la "variabile nascosta", cioè una causa unica neuro-psichica in grado di produrre un effetto specifico, e su questa base costruire una "metascienza" che comprendesse in sé le scienze del corpo e della mente (Scalzone, 2004).

 La natura dell'informazione, di cui si occupa l’Informatica,  è rimasta un problema teorico relativamente aperto. L’alleanza tra la psicoanalisi e l’informatica, secondo Scalzone,  in realtà forse non è mai iniziata.  Il relatore menziona una serie di autori che si sono occupati del tema: Moser U. e von Zeppelin I.V., Peterfreund E., Palombo S., Galatzer-Levy R.M, Rosenblatt A.D. e Thickstun J.T., Alper G., Turkle S. ecc. Altri autori erano interessati ad una revisione della metapsicologia e ad una critica del concetto di energia da sostituire con quello di informazione. Altri, come Galatzer-Levy o Rosenblatt e Thickstun sono interessati nell'utilizzare modelli mutuati dall’Intelligenza Artificiale in psicoanalisi. In questo suo intervento, il relatore si propone di  indagare la possibilità di un ‘punto di contatto’ tra la Psicoanalisi e l’Informatica all’interno del dialogo tra la psicoanalisi e le neuroscienze, dal particolare punto di vista della virtualità come concetto rinvenibile, ad esempio, come macchina virtuale presente nelle macchine-pensanti (calcolatori ecc.) e nella macchina-uomo, o macchina immaginaria.

 

Questo l'ordine dell'esposizione del suo intervento:

1 Definizione di cosa bisogna intendere per virtualità in informatica e in psicoanalisi, e cosa per macchina virtuale e per simulazione, per poi utilizzare la “virtualità” come concetto-ponte tra le due discipline.

2 Esempi di virtualità nella teoria psicoanalitica, ad es. quello desumibile dai  grafici dell’apparato del linguaggio ("L’interpretazione delle afasie") come macchina per parlare. Altri esempi  di 'macchine' esistono anche  nel "Progetto per una psicologia", ne "L’interpretazione dei sogni", ecc.

3 Presentazione di esempi di virtualità nella clinica psicoanalitica, come nella macchina influenzante di Tausk e nel caso di Joey, il bambino autistico di Bettelheim con la sua macchina per vivere.

4 Esposizione del caso clinico di Angelina la quale, con il suo delirio di influenzamento, cercava di dar voce alla sua sofferenza.

5 Cenni alla metapsicologia come scienza delle strutture virtuali per avvicinare la cosa psicoanalitica quale espressione dell’indicibile.

6 Infine, alcuni  interrogativi  e  qualche considerazione di livello più generale.

Naturalmente, per questioni di spazio questo resoconto si concentrerà solo su alcuni di questi 6 punti, in particolare sui punti  2, 5 e 6.

 

 

In biologia il cervello è per antonomasia l’organo in grado di autorganizzarsi e di usare processi che modificano sé stesso… Secondo  Trautteur  (2008, p. 150): “[…] è il computare in quanto elaborazione simbolica, non è principalmente l’algoritmo, quanto la capacità di virtualità, cioè la capacità di sostituire una cosa reale con una descrizione effettiva.” La ‘virtualità’ è ciò che nasconde i sottostanti ‘calcoli’ operati dai processi. Il concetto di macchina virtuale corrisponde, nella teoria della computabilità, ad una UTM astratta (Universal Turing Machine) posta ad un livello superiore della macchina fisica (ad es. Pentium 4) ma interpretata (linguaggio interprete, codice) da una qualche UTM.

Nell’apparato psichico, secondo Franco Scalzone,  alcune strutture virtuali si trovano proprio nelle interfacce: ad esempio quella in cui si effettuano i “misteriosi salti” dal corpo alla mente di cui parla Freud – problema a tutt’oggi irrisolto – sia nell’interfacce tra Inc e Prec (pulsione = energia) e tra Prec e P-C (censura = sovrainvestimento energetico [vedi Freud, 1915, p. 77]) e tra mondo interno e mondo esterno (scudo antistimolo = energia).

Anche tali interfacce indicano entità astratte e processi astratti, non sostanziali, ma comunque reali, insomma si tratta delle procedure in atto che elaborano variabili di un qualche tipo. Inoltre dobbiamo postulare che in queste strutture circola una specie di energia che rende possibile la loro stabilità nonché lo sviluppo dei processi psichici, anche se ‘struttura’ ed ‘energia’ sono due facce della stessa realtà. Tali strutture  sono organizzate secondo un ordinamento gerarchico-eterarchico; sono poste perciò a vari livelli e utilizzano codici differenti, per formare apparati o sistemi; quindi necessitano di continue trans-codifiche, trasduzioni e traduzioni.

 

Il termine “simulazione” viene impiegato nella Computer Science con molte sfumature differenti:  modelli di sequenze di ragionamento simbolico, come quello dei processi logici di pensiero, di “inganni” con i quali si illude lo spettatore ingenuo facendogli apparire che la macchina possegga un’intelligenza e una capacità relazionale simile al quella umana. Per il relatore  ci sono  due modi per tentare di simulare i processi umani ‘intelligenti’: partendo dalle funzioni simboliche di livello superiore per scomporle in sottofunzioni di livello inferiore (metodo top-down), oppure partendo dal tentativo di riprodurre le funzioni di basso livello, o addirittura l’hardware, per poi risalire alle funzioni superiori simboliche (metodo bottom-up – con apprendimento).

Il primo metodo di simulazione di processi cognitivi è quello dell’AI classica,  e il secondo è quello dell’ AI emergente.

 

Secondo il relatore, però, le simulazioni non devono semplicemente e solo riprodurre i ‘fenomeni’(ad es., le capacità di calcolo della mente umana), ma devono cercare di riprodurre i ‘meccanismi’ e i ‘processi’ che stanno dietro i fenomeni. Per ‘simulazione’ in questo senso dobbiamo intendere, in accordo con il paradigma del connessionismo, simulare il funzionamento del cervello e perciò della mente, compresa la sua organizzazione strutturale interna, proprio nel modo in cui operano, forse, nelle persone reali. Naturalmente, questo tipo di  tecniche della simulazione  sono solo agli inizi e si dovranno aspettare i futuri sviluppi per apprezzarne le reali possibilità.

Per il connessionismo il calcolatore viene impiegato non utilizzando programmi che funzionano in modo sequenziale secondo istruzioni e regole fornite dal programma per manipolare dati, ma impiegando un software che simula la rete neuronale, le reti neurali appunto, le quali operano un processamento parallelo: in modo cioè molto più simile al modo di operare del cervello.

Suggestivamente, Scalzone accosta questo  passo di Freud che ci esemplifica il funzionamento della coscienza: <<Si parla infatti, e non a torto, di “strettoia della coscienza”, termine che acquista senso e concretezza per il medico che effettua una di queste analisi. Nella coscienza dell’Io può entrare soltanto un unico ricordo alla volta; il paziente, occupato nell’elaborazione di questo solo ricordo, non vede nulla di quel che incalza e dimentica quello che è già passato.>> (Freud, 1892-1895, p. 427).

I processi coscienti allora, anche secondo Freud, sono processati in modo sequenziale, L’inconscio invece funzionerebbe in parallelo, un modo molto più simile a quello del processamento delle reti neurali.

 

 

Per il paradigma dell’IA ("intelligienza artificiale") forte, allora, il calcolatore opportunamente programmato è una ‘mente’ perché possiede stati cognitivi. AI contrario, il paradigma dell’AI debole considera il calcolatore solo come un potente strumento di lavoro per studiare la mente.

L’IA classica studiava il funzionamento mentale cercando di riprodurre procedimenti che dessero gli stessi risultati delle operazioni mentali senza interessarsi all’architettura del supporto fisico: si parla in questo caso di funzionalismo. Ciò che è importante è il software, l’insieme degli algoritmi implementati nell’hardware biologico, senza interessarsi né alla macchina né ai processi che avvengono al suo interno.

L’IA emergente, al contrario, si sforza di riprodurre anche l’organizzazione neuronale in cui è strutturato il cervello e pertanto può indagare la nascita della microstruttura dei processi cognitivi del sistema per poi giungere alla macrostruttura come insieme di proprietà emergenti. Il cognitivismo cercava di riprodurre solo i risultati esterni del lavoro mentale, il connessionismo invece cerca di riprodurre i meccanismi e le modalità di funzionamento interno. Infine, come ultima distinzione, l’IA classica opera simulando un tipo di conoscenza top-down - partendo dai livelli simbolici alti-, mentre le reti neurali procedono in modo contrario, bottom-up, cominciando cioè dal livello di configurazione sub o presimbolica. Direbbe Freud nel "Progetto", secondo Scalzone, partendo dalle quantità per giungere alle qualità, e cioè fino all’essere cosciente.

Il relatore si sofferma anche sulle  macchine che hanno capacità ricorsiva di includere modelli all’interno di modelli, di avere un modello del loro sistema operativo e che sono in grado di applicare l’uno all’altro: questi sistemi sarebbero anche "autoriflessivi" e "intenzionali". ovviamente,  non possediamo ancora un’euristica certa per poter affermare che un sistema sia in possesso o meno di una coscienza e pertanto, anche se qualche macchina l’avesse, non saremmo in grado di provarlo. Come scrive Dennett <<nel frattempo è meglio evitare di prendere a calci i calcolatori... potrebbero restituirceli>> (Dennett, 1978, 350).

 

Riguardo al punto 2 della relazione di Scalzone, quello riguardante la "Virtualità in psicoanalisi", il relatore cita Freud, quando dice: <<Per evitare ogni abuso basta ricordare che rappresentazione, pensieri, formazioni psichiche in generale, non possono affatto venir localizzate in elementi organici del sistema nervoso, ma per così dire tra questi, e allora resistenze e facilitazioni ne costituiscono il corrispettivo adeguato. Tutto ciò che può divenire oggetto della nostra percezione interna è virtuale, come l’immagine nel telescopio data dal passaggio dei raggi luminosi.>> (Freud, 1899, p. 556). E ancora lo stesso autore nel 1926:<<Ciò che è l’apparato psichico risulterà presto chiaro. Vorrei invece pregarLa di rinunciare a chiedere di che materiale sia fatto. Questo problema non ha interesse psicologico: per la psicologia esso è indifferente, come per l’ottica la questione se le pareti del cannocchiale sono metalliche o di cartone. Lasciamo da parte il punto di vista essenzialistico per non prendere in considerazione che quello spaziale. Ci rappresentiamo l’apparato ignoto che serve per l’esecuzione delle operazioni psichiche proprio come uno strumento costruito con più parti – che diciamo istanze – ciascuna delle quali ha una sua particolare funzione; esse presentano fra loro una stabile connessione spaziale: in altri termini la relazione spaziale – “avanti” e “indietro”, “superficiale” e “profondo” – ha per il momento per noi solo il significato di una rappresentazione della regolare successione delle funzioni. Sono ancora abbastanza chiaro?>> (Freud, 1926, pp. 361-362).

 

Possiamo collegare a ciò che dice Freud quello che dice Gaddini, che  scrive: <<Una difficoltà della ricerca attuale è però quella di trovarsi a volte a definire dove e come il continuum mentale cessi di essere tale – nel senso che confina, o sconfina, nel biologico – e dove, al contrario, ciò che appare come biologico appartenga invece al mentale. Io credo che si debba distinguere, a questo proposito, non la mente dal corpo – come la filosofia, la religione e la psicologia da un lato, e la medicina dall’altro, hanno fatto prima dell’avvento della psicoanalisi – ma piuttosto un continuum corpo-mente da un continuum mente-corpo, e un’area virtuale in cui questi due continuum in qualche modo si embricano.>> (Gaddini, 1979, p. 732)

 

Nel testo freudiano "L’interpretazione delle afasie" del 1891, riassumendo, vengono descritte:

1 Formazione della rappresentazione d’oggetto (aperta) che si svolge in quattro fasi procedendo dalla periferia sensoriale del sistema nervoso alla corteccia.

2 Formazione della rappresentazione di parola (chiusa).

In questo lungo percorso si trovano almeno quattro “misteriosi salti” dal corpo alla mente.

I vari campi corticali dell’apparato sono tutti collegati a mezzo di associazioni e le rappresentazioni d’oggetto sono connesse a quelle di parola attraverso una strettoia, simile a quella della coscienza di cui parla Freud, che mette in comunicazione le immagini visive con le associazioni sonore.

Le rappresentazioni d’oggetto sono equiparabili alle tracce mnestiche e ai neuroni ψ del Progetto – che funzionano in parallelo – nonché ai sistemi ψ de "L’interpretazione dei sogni".

Le rappresentazioni di parola sono omologabili alla coscienza – le quali rappresentazioni insieme alle percezioni la rendono possibile – e perciò ai neuroni w del Progetto e al sistema P-C de "L’interpretazione dei sogni": esse funzionano con il sonoro e in modo seriale (vedi anche lettera a Fliess del 6 dicembre 1896 per il Prec, e per terza riscrittura connessa alle rappresentazioni di parola [p. 237] nonché vedi la nota 1, p. 243).

Inoltre la rappresentazione d’oggetto è un processo psichico virtuale in cui vige un ordinamento associativo molto flessibile, il quale in seguito diventerà il ‘processo primario’ del sistema Inc, mentre il percorso associativo fisso della rappresentazione di parola diventerà il ‘processo secondario’ del sistema P-C (Rizzuto, 1993).

 

Per Scalzone, possiamo quindi considerare l’apparato del linguaggio in toto come una macchina virtuale in grado di leggere le tracce dell’apparato mnestico, elaborarle e poi di sonorizzarle nel linguaggio.

L’equazione correlata tra i sistemi del cervello che supportano la coscienza ed il linguaggio, ci riporta ancora al problema della struttura neurologica dell’apparato del linguaggio. Freud ha chiarito che è un’organizzazione virtuale senza strutture neurologiche proprie.

C’è da considerare in proposito l’interazione mente-corpo per cui il cervello modifica la psiche che a sua volta modifica il cervello. Il cervello “genera” le parole (simboli) che retroattivamente “generano” la sinaptogenesi cerebrale: esso è un organo che è ricorsivamente capace di modificare se stesso. Comprendiamo così l’importanza della talking cure nel modificare la psiche.

 

Nel "Progetto di una psicologia" (1895) Freud cercò di mostrarci come si articola lo sviluppo dell’apparato psichico, qui ancora apparato neuronico, alle prese con le perturbazioni provenienti da due immense fonti di energia entrambe ad esso esterne: quelle della ‘realtà esterna’ propriamente detta, e quelle della ‘realtà interna’ del mondo pulsionale.

 

Possiamo anche pensare che le tre funzioni collegate ai neuroni jyw formino una macchina virtuale che elabora e modifica continuamente uno stesso oggetto che potremmo identificare genericamente in una ‘traccia’, in quanto effetto di una causa ‘traumatica’, e ne muta continuamente la forma nel tentativo di rendere quell’oggetto ‘rappresentabile’ e perciò ‘pensabile’ dalla coscienza: dalle quantità alle qualità. Questi “neuroni” jyw[1] non sono però le unità anatomiche del sistema nervoso, ma sono gli elementi strutturali virtuali del suo funzionamento. L’oggetto in questione risulta composto di una parte facilmente "coscienzializzabile", ed un’altra parte irrappresentabile che però preme continuamente per accedere alla ‘pensabilità’ mediante una continua ritrascrizione e risignificazione fino a giungere infine alla sua connessione al linguaggio. Questa seconda parte la potremmo assimilare alla Cosa (das Ding) di cui Freud ci parla nel "Progetto", o alla “roccia basilare” (in "Analisi terminabile e interminabile"), alla O di cui parla Bion o al Reale di Lacan Essa avrebbe il carattere di invariante, di realtà ultima, cioè quello che nelle scienze naturali resta fuori anche dall’osservabilità e dalla pensabilità. Citando Scalzone, <<dalle connessioni e dalle interazioni tra livelli gerarchici e eterarchici vengono prodotte le qualità psichiche emergenti quali i sogni, le fantasie, le rappresentazioni fino a giungere alla coscienza la quale, nel momento della sua comparsa, costituirà un vero e proprio ordinatore universale>> (vedi Scalzone, 2008a).

Ne "L’interpretazione dei sogni" (1899) Freud paragona invece lo strumento deputato all’attività psichica ad un microscopio – modello ottico – e la località psichica ad un punto virtuale, posto al suo interno, in cui si formano gli stadi preliminari dell’immagine. Inoltre non parla più di sistemi di neuroni jyw, ma di sistemi y, psichici (P-C, Prec e Inc) sebbene si affretti a specificare: <<Ma i sistemi – che di per sé non sono affatto psichici e non diventano mai accessibili alla nostra percezione psichica [...]>> (p. 556).

 

 

Il relatore passa quindi a trattare del  delirio della macchina influenzante di Tausk (1919) presente in alcuni schizofrenici.

  Foto: Viktor Tausk

 

 

 

 

 

La parte forse più originale della relazione di Scalzone è quella intitolata "Metapsicologia come meta-scienza delle strutture virtuali". Freud scrisse: <<Propongo che, se riusciamo a descrivere un processo psichico nei suoi rapporti dinamici, topici ed economici, la nostra esposizione si chiama metapsicologica.>> (Freud, 1915, p. 65).

Per il relatore, la metapsicologia  <<può essere vista come un insieme di moduli e di meccanismi, una macchina pensante, un meccanismo per costruire modelli di funzionamenti psichici e teorie psicoanalitiche; un reticolo di idee, concetti, teorie e modelli dal quale ne risulti un artefatto, una sorta di macchina connessa, un “programma” destinato a produrre un complesso sistema teorico>>.

 

Sia il punto di vista dinamico, che quello topico, che ancora quello  economico si poggiano su strutture virtuali non materiali, ma comunque reali, che poggiano sulla realtà organica.

 

In informatica l’“oggetto” è un modulo con interfaccia: esso è un tipo astratto di dato. Allo stesso modo gli “oggetti interni” della teoria psicoanalitica sono oggetti virtuali che con le loro dinamiche ci informano sul loro stato o posizione, sulle loro interazioni con il mondo interno dell’individuo – cioè gli altri oggetti – e con il mondo esterno rappresentato delle relazioni interpersonali.

 

Sul versante neurofisiologico i processi di autorganizzazione ordinano i neuroni in gruppi neuronali, repertori, mappe, centri e livelli (Edelman, 1992): anch’esse strutture con un valore funzionale di tipo distribuito, e non di valore anatomico di tipo localistico. Persino i neurotrasmettitori possono essere considerati strutture se pensiamo alla loro funzione nel dominio del loro operare mediante un insieme di relazioni tra vari elementi.

Citando testualmente Scalzone: <<Non è importante, in ogni caso, il nome di queste strutture quanto il fatto che esse possano fornire un modello concettuale per spiegare i fatti osservati – nel nostro caso, ad esempio, dei fatti clinici – il quale permetta di rappresentare il funzionamento di un sistema (mente-corpo) mediante le modalità (e le regole) secondo cui le parti o i singoli elementi, tra loro interconnessi, si comportano. La metapsicologia potrebbe costituirne la teoria delle strutture virtuali e dei processi reali, nonché una sorta di “linguaggio di mezzo” tutto da costruire, una “lingua franca” in grado di rendere possibile l’attuazione di un dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze. Forse sarebbe più giusto dire che la metapsicologia potrebbe essere uno dei tratti di unione in grado di sviluppare una piattaforma concettuale comune, formata per esempio da più modelli integrati. Essa potrebbe elaborare un lessico e un vocabolario comune in grado di consentire una maggiore comunicazione tra campi differenti che si occupano di oggetti differenti, ma simili>>. Il relatore ipotizza, in conclusione del suo intervento,  persino che <<paradossalmente, (...) se utilizziamo la metapsicologia nel senso suddetto, essa sta alla base delle psico-scienze e delle neuro-scienze, e non il contrario; in altre parole possiamo dire che questa scienza astratta è alla base della scienze delle strutture psico-biologiche. La “meta-neuro-psicologia” potrebbe pertanto essere organizzata su di una struttura triadica autoreferente formata, ad esempio dalla psicologia del profondo, dalla teoria clinica e dalla neurofisiologia. I modelli e i meccanismi di questa metascienza possono essere simulati su un calcolatore>>.

 

 


 

[1] Freud ipotizzò dunque l’esistenza di tre sistemi di neuroni: 1) neuroni j permeabili, collegati alla funzione sensoriale che ricevono stimoli dall’esterno, 2) neuroni y impermeabili, collegati con la funzione mnestica che si stabilisce mediante una facilitazione permanente in y e 3) neuroni w i cui stati di eccitamento determinano le diverse qualità, cioè le sensazioni coscienti.

 

 

 

 

 

La relazione di Gemma Zontini, intitolata "Talking cure talking wound: riflessioni sui percorsi della parola", si propone  di riflettere sul doppio versante della parola, quello sensoriale-percettivo che la lega alle sue origini biologiche e somatiche e quello simbolico e astratto che la lega più specificamente alle sue funzioni “superiori” come strumento complesso della mente e del pensiero, e su come questo doppio versante faccia di essa uno strumento centrale della cura psicoanalitica. La relatrice proporrà nella sua relazione  anche l’ipotesi che la parola "male-detta" possa rappresentare un elemento di disturbo, relativamente allo sviluppo e all’evoluzione delle strutture psichiche.

Freud (1891) ipotizzò che il linguaggio non consistesse in una espressione fisiologica di centri anatomicamente localizzati e specifici di aree cerebrali connessi da particolari vie associative (come voleva la teoria localizzazionistica di Wernicke e di Broca), ma che fosse un processo legato ad una funzione di un apparato che ha caratteristiche anatomiche che, però, non sono utilizzate esclusivamente per il linguaggio. Le vie afferenti, secondo Freud, sarebbero condivise anche da tutti gli input sensoriali che provengono da tutti gli organi di senso e da tutte le strutture muscolari coinvolte nella funzione linguistica, così come le vie efferenti che sono coinvolte anche in altre funzioni e compiti. L’apparato del linguaggio, dunque, per Freud ha ben poco di anatomicamente proprio. La sua natura è quella di effettuare processi associativi, la cui interruzione causerebbe le afasie.  A partire da tale funzione associativa si costruisce una rappresentazione d’oggetto. Le associazioni delle immagini sonore, delle immagini dei movimenti fonatori, dei segni grafici, dei movimenti degli occhi e della mano nell’atto di leggere e di scrivere danno luogo alla rappresentazione di parola. Questa si connette, poi, alla rappresentazione d’oggetto mediante la sua immagine sonora.

Freud, inoltre, specifica che la rappresentazione d’oggetto non è una replica del mondo reale, ma è la rappresentazione del corpo fisico del percipiente, percettivamente modificato dalle proprietà sensoriali dell’oggetto.  Freud usa il seguente esempio:  le proiezioni delle afferenze percettive contengono la periferia del corpo così come una poesia contiene l’alfabeto. La proiezione terminale alla corteccia cerebrale genera, infine, una modificazione fisiologica cerebrale che non lascia tracce statiche (come voleva la teoria localizzazionistica per la quale le rappresentazioni erano immagazzinate in singole cellule nervose), ma determina un processo dinamico di tipo associativo che stimola anche la funzione mnestica. La rappresentazione psichica viene da Freud concepita come il correlato psichico di questo processo fisiologico, secondo il concetto di 'dependent-concomitant'  mutuato da H. Jackson (1878-1880), esponente della scuola antilocalizzazionistica inglese. La rappresentazione psichica, cioè, emerge ogni volta che il percorso associativo è attivato sotto forma di immagine ricordata.

Questa concezione della rappresentazione di oggetto è importante per la Zontini in quanto fonda il processo rappresentativo su processi biologici e somatici.  Ma la grande varietà di rappresentazioni costruibili in tal modo rende anche ipotizzabile un fondamento “fisiologico” dei processi inconsci.

Anche la rappresentazione di parola segue, secondo Freud, un percorso associativo tra l’immagine acustica (la parola udita), l’immagine visiva grafica (la parola letta), l’immagine motoria del linguaggio (la parola parlata), l’immagine motoria grafica (la parola scritta). L’area associativa linguistica, che prevede l’associazione tra elementi visivi, acustici e motori, si estende quindi tra le aree sensoriali corticali cui le diverse sensazioni afferiscono e tra queste aree sensoriali e le aree motorie corticali concernenti il linguaggio.  Le funzioni associative che portano alla rappresentazione di parola sono molto più limitate rispetto alle infinite connessioni di stimoli sensoriali che portano alla costruzione della rappresentazione d’oggetto. E' per questo motivo che la parola detta segue un percorso associativo fisso, obbligatorio, nel quale è scritta la storia del modo in cui l’abbiamo imparata e usata. La rappresentazione di parola, in altri termini, è una funzione appresa da altri.

 Solo dopo il primo livello associativo - quello dell'associazione della rappresentazione di oggetto con quella di parola - è possibile l’emergenza della parola psichica, fornita di un significato che non è solo collegato all’associazione della rappresentazione di parola con la rappresentazione di oggetto concepita come un esponente della realtà materiale, ma è soprattutto connesso al desiderio di parlare. La parola psichica, cioè, è un dependent-concomitant del processo associativo tra rappresentazione di oggetto e rappresentazione di parola. La sua formazione è un primo esempio del “misterioso salto” tra il somatico e lo psichico ed è connessa all’emergenza di un desiderio: il desiderio di parlare, di rappresentare sé stesso all’altro. L’ipotesi che il desiderio possa assumere la funzione di stimolo a parlare introduce  la pulsione, anch’essa un concetto al limite tra somatico e psichico, inteso a ridurre il “misterioso salto” pur riproponendolo.

Possiamo a questo punto mettere di fronte il concetto di dependent-concomitant, come supporto ad una teoria in cui la psiche si sviluppa parallelamente al soma e indipendentemente da esso (una posizione dualistica del rapporto mente-corpo), con l’ipotesi di una “spinta” che lascerebbe pensare ad una sorta di “emergenza” dello psichico dal substrato biologico allorché viene raggiunto un certo livello di complessità del sistema con la necessità di smaltire, mediante la scarica, l’eccesso di eccitamento che in esso si crea (un monismo della relazione mente-corpo).

Un secondo punto analizzato da Gemma Zontini è il seguente:   se le rappresentazioni di parola si formano in modo associativo mediante la connessione tra elementi sensoriali linguistici e se queste associazioni seguono vie associative più limitate di quelle possibili per la rappresentazione d’oggetto, allora l’aggiunta di altre associazioni alle rappresentazioni di parola esistenti è anch’essa limitata nella scelta e può solo appoggiarsi a preesistenti vie associative. Ciò è rilevante per la comprensione della regola della libera associazione durante la terapia analitica e per la comprensione di cosa viene associato a ciò che si sta già dicendo. Questo tema ha a che fare con il determinismo psichico freudiano e quindi con l’idea che la libera associazione debba necessariamente condurre a quegli elementi delle rappresentazioni di oggetto, o meglio delle loro immagini mnestiche, che sono state originariamente proscritte nella loro associazioni con la rappresentazione di parola. E’ questa proscrizione che determina il discorso mutilato, sintomatico, del nevrotico. Le libere associazioni forniscono l’opportunità di riconoscere la separazione tra la parola verbalizzata e le “occorrenze” rappresentazionali ad essa connesse e che non possono essere tollerate. (Rizzuto 1993). Quindi un disturbo nevrotico funzionale che blocca l’associazione tra un aspetto della rappresentazione e le altre sue componenti potrebbe essere raggiunto da un’altra parte della rappresentazione. La libera associazione, cioè, potrebbe spingere le rappresentazioni inaccessibili a superare la difesa e a connettersi alle parole. Le rappresentazioni d’oggetto possono in tal modo superare l’afasia difensiva asimbolica nevrotica ritornando a stimolare l’apparato del linguaggio a parlare. Questo è un fondamento della talking cure inventata da Freud. Partendo da queste considerazioni la Zontini pone la seguente questione: << possiamo ipotizzare che il linguaggio abbia anche una funzione inversa a quella del facilitare l’ampliarsi del percorso associativo per raggiungere una rappresentazione d’oggetto esclusa dalla parola psichica e che quindi la parola possa essere attivamente utilizzata per proscrivere l’accesso (rimozione) di una rappresentazione d’oggetto alla parola psichica?>>

Le patologie del linguaggio spinsero Freud a considerare la possibilità di una "retrogressione funzionale" dell’apparato linguistico, di per sé altamente organizzato. Questa "retrogressione" corrisponderebbe a stadi precedenti dello sviluppo di tale apparato. Tuttavia, il ritorno ad uno stadio precedente di sviluppo non significa che questo stadio venga recuperato così come era al momento della sua formazione. Ogni stadio evolutivo viene comunque modificato dalle acquisizioni successive, il cui influsso traspare in ogni percorso involutivo.  La parola così può ritornare a farsi cosa, 'reindovarsi' nella materia fisico-biologica da cui prende le mosse la rappresentazione d’oggetto.

La possibilità che il linguaggio abbia un corrispettivo “cosale” è, del resto, un’ipotesi di tipo ristretto rispetto ad un’ipotesi più allargata relativa al funzionamento psichico e cioè che lo psichico non è del tutto sganciato dall’”anatomia”.  L’apparato psichico freudiano, cioè, non è solo una descrizione metaforica di funzioni totalmente sganciate dalla materia del corpo, ma è anche un apparato fatto di “località” spazialmente e materialmente intese. Il linguaggio, proprio a causa della sua genesi dalle rappresentazioni di oggetto che provengono dai sensi del corpo, ricopre anch’esso uno spazio materiale e anzi contribuisce alla sua costruzione. <<Infatti lo scambio linguistico, per la sua natura sonora, funziona come un asse acustico-riproduttivo che prevede l’avvicinamento e l’allontanamento, la presenza contemporanea e l’esistenza ad una certa distanza, favorendo in tal modo lo svuotamento dello spazio fusionale degli inizi e la costruzione di uno spazio interno ed esterno, spazi separati e differenti la costituzione dei quali rende possibile la separazione e il riconoscimento dell’indipendenza dell’oggetto>> dice la Zontini. 

La parola, però, è anche un’azione motoria specifica, come afferma lo stesso Freud (1895). Questa caratteristica è un’ulteriore conferma della presenza di una radice somatica all’interno della parola. In quanto azione, infatti, il linguaggio tende a raggiungere l’oggetto, a possederlo. Ma, forse, prima ancora esso tende ad imitare l’oggetto, come ogni altra azione del corpo in una fase molto iniziale dell’esistenza. Gaddini (1969) ci ricorda che nelle prime vicissitudini del rapporto con l’oggetto il bambino imita per essere, per raggiungere l’identità fusionale di tipo magico-allucinatorio con l’oggetto. Già in questa fase, che egli chiamò area piscosensoriale, è evidente una psichicizzazione primitiva del modello biologico della percezione sensoriale. Successivamente, Gaddini ipotizzò un modello evolutivo dello psichismo con la costituzione di un’area psico-orale, la cui attività  conduce ad un embrionario riconoscimento della separatezza dell’oggetto. Il funzionamento di questa area consiste nel “possedere” l’oggetto mediante l’utilizzo dell’introiezione, un meccanismo psichico il cui corrispettivo somatico è l’incorporazione. La parola, in quanto azione specifica, partecipa al processo imitativo, sia nel senso di imitare per essere, sia nel senso di imitare per avere.  D’altronde la scoperta dei mirror neurons sembra avvalorare l’ipotesi di un meccanismo imitativo primario che funzioni “a ponte” tra sistemi percettivo-motori e sistemi simbolici. Infatti, l’esecuzione di un’azione propria, ma anche la percezione di un’azione compiuta da un altro attiva nel soggetto percipiente un’area cerebrale, situata in vicinanza dell’area di Broca (area motoria del linguaggio), costituita da una particolare popolazione neuronale, i mirror neurons. Più precisamente  tali neuroni si attivano quando le azioni compiute dal soggetto osservato sono dotate di uno scopo. Essi, quindi, mostrerebbero un’attività di “risonanza” del sistema motorio del soggetto in relazione all’osservazione di un’azione compiuta da un altro soggetto, cosa che fa pensare,  utilizzando il linguaggio psicoanalitico, ad una forma di imitazione inconscia. Inoltre, poiché l’attivazione di questo sistema neuronale è connessa soprattutto all’osservazione di azioni dirette ad uno scopo, possiamo anche affermare che tale sistema assume anche la funzione di “leggere le intenzioni altrui”. Se ipotizziamo con Freud che la parola è una forma di azione specifica, possiamo anche ipotizzare che essa abbia una funzione regolativa degli scambi relazionali. Ma la scoperta di sistemi neuronali motori connessi strettamente anche ai sistemi neuronali motori del linguaggio, ci consente di pensare che tali scambi regolativi in senso relazionale non si svolgono solo sul piano simbolico e del pensiero, della comunicazione secondaria, ma anche su un piano molto più primitivo che include l’attività imitativa percettiva primaria a sua volta connessa con una primitiva attribuzione di un significato e di un’intenzione degli atti compiuti dall’altro. Gallese (2000) proprio a proposito del linguaggio afferma: <<Queste caratteristiche ‘mimetiche’ dei sistemi motori consentono anche di ipotizzare un nuovo scenario evolutivo per l’origine del linguaggio. L’equivalenza motoria tra i gesti fonologici prodotti e quelli percepiti consente di situare l’origine della comprensione linguistica in termini di “risonanza” motoria…. Il linguaggio a mio parere costituisce invece la felice applicazione in un nuovo dominio di capacità pre-adattate per scopi di interazione sociale.>>(Gallese 2000, p.3).

Anche Corballis (2002) sostiene l’ipotesi di un’evoluzione del linguaggio come specializzazione del gesto motorio. Esso si sarebbe evoluto dai gesti della mano e non dai richiami vocali, incorporando successivamente le vocalizzazioni che, inizialmente, avrebbero avuto solo la funzione di veicolo di stati emotivi. <<Il linguaggio, cioè, avrebbe sostituito la sintassi comunicativa del volto e delle mani, fino a divenire il principale mezzo di comunicazione umana, liberando così, sebbene mai completamente, il corpo dalla funzione comunicativa e relazionale>>. E aggiunge la Zontini: <<questa capacità di comunicare anche a distanza è, tra l’altro, il fondamento della talking cure. Tuttavia, una volta strutturatosi un sistema linguistico, esso retroattivamente influenza il gesto motorio, per esempio condizionando, sebbene non totalmente, la destrimanità della specie umana>>.

Per Gaddini  il meccanismo imitativo si serve, nella fase psico-orale, dell’introiezione che consente il possesso dell’oggetto riconosciuto come oggetto separato, sebbene in modo molto embrionario. Lo stesso Gaddini (1969) ipotizza che il corrispettivo “fisico” di questo meccanismo psichico sia l’incorporazione. Abraham e Torok (1975) ipotizzano che il persistere dell’uso di meccanismi incorporativi determina un rapporto peculiare con l’oggetto che può essere “portato” mediante l’incorporazione all’interno dello psichismo, ma la sua rappresentazione non ha libera circolazione all’interno dell’apparato psichico, ma forma una “cripta” chiusa ad ogni forma di scambio associativo. Ciò accade quando la realtà esterna è eccessivamente traumatica e l’introiezione è sostituita, appunto, dal meccanismo incorporativo. L’incorporazione mantiene l’oggetto esterno traumatico incorporato e l’Io che lo incorpora in una condizione di non trasformazione.  Essa è il movimento che precede non la rimozione dinamica,  come accade nel caso dell’introiezione, ma è ciò che precede una rimozione conservatrice che esclude dalla coscienza un “blocco di realtà” che non può essere sottoposto a trattamento simbolico. La topica psichica non può essere conservata, ma è costretta a modificarsi, poiché, appunto, ciò che fa trauma resta come tale, inelaborato, nello psichismo.  Siamo qui nell’ambito di una topica psichica che non è più quella postulata da Freud (1899, 1923),  fondata prevalentemente sul punto di vista dinamico e, appunto, topico-strutturale. Siamo, invece, nell’ambito della terza topica postulata soprattutto dalla psicoanalisi francese e, in particolare, da autori come Laplanche (2007) e Dejours (2001). Questa terza topica cerca di spiegare quei funzionamenti psichici che non sono determinati dalla coppia rimozione-ritorno del rimosso, ma che sono caratterizzati da funzionamenti che attingono piuttosto al punto di vista economico, basati, cioè, sulla scarica dell’eccitazione derivata dall’incontro con la realtà esterna traumatica. Essa, quindi, prende in carico i disturbi cosiddetti gravi, quali le psicosi, i disturbi di personalità, le somatizzazioni, le psicopatie e, in generale, tutte le condizioni psichiche caratterizzate dalle reazioni violente, dal delirio, dall’acting out, da espressioni sintomatiche non simboliche quali le psicosomatosi o l’abuso di sostanze, cioè quelle problematiche psichiche determinate dalla pulsione di morte.

 

Va detto, comunque, che non è solo la scarica mediante l’azione il meccanismo utilizzato nelle patologie gravi laddove è interrotta l’associazione tra gli elementi senso-percettivi della rappresentazione d’oggetto e gli elementi simbolici della rappresentazione di parola. Un’altra modalità sintomatica spesso utilizzata in questo tipo di disturbi è la désaffectation (McDougall 1989). Questo meccanismo difensivo arcaico prevede una dissociazione tra rappresentazione d’oggetto e rappresentazione di parola che interverrebbe a livello di quella spinta a parlare cui la Zontini ha in precedenza accennato e che sarebbe alla base dell’emergenza della parola psichica.  La désaffectation rappresenterebbe proprio la perdita della possibilità di sperimentare sentimenti in relazione agli accadimenti concernenti la propria esistenza. Ciò che viene perduto in questo caso non è solo il legame tra rappresentazione d’oggetto e rappresentazione di parola, ma anche il legame tra spinta somatica (secondo il concetto di appoggio, Scarfone 2001) e spinta psichica che conduce all’esperienza del desiderio e dei sentimenti coscienti che lo accompagnano. La perdita della capacità di desiderare e di sentire determina una condizione inibitoria e di evitamento vitale estesa (l’ipotesi di una situazione fobica di base, Green 2000) o una situazione in cui gli affetti vengono espressi, messi in scena nel corpo (la pratica del tagliarsi ad esempio o i tatuaggi, [Zontini 2008]). Verrebbe, persa, in questo caso, la capacità di “metaforizzare” gli affetti che l’oggetto suscita in noi, di trovare per essi una forma di espressione simbolica, prima tra tutte la parola, che li renda utilizzabili nella relazione con l’altro.

In definitiva,   la parola è legata alle afferenze senso-percettive e alle efferenze motorie del corpo, e  la perdita delle funzioni associative tra il simbolo linguistico e le sue radici somatiche può condurre a patologie che giacciono sul piano simbolico (nel caso delle nevrosi), ma anche su un piano in cui il corpo è direttamente implicato, come accade nelle forme più gravi di patologia.

I sistemi linguistici, in altri termini, per la loro caratteristica di essere forniti di una radice corporea (tale anche pensare ad un sistema di competenze universale e innato [Chomsky 1957, 1968]), partecipano anche di quei sistemi subsimbolici amodali e transmodali a pregnanza totale quali sono, ad esempio, i sistemi che vengono attivati dalle emozioni. Probabilmente la stessa rappresentazione di oggetto si genera in modo transmodale a partire  dall’associazione di sistemi percettivi unimodali - sensazioni tattili, visive, uditive, viscerali, afferenti dagli organi interni  che associate insieme danno luogo alla rappresentazione di un oggetto intero. Essa, cioè, non consisterebbe in una rappresentazione simbolica astratta e isolata, ma sarebbe piuttosto una rappresentazione-evento (Falci 2009) generata dall’attivazione di schemi sensitivi, motori, relazionali, psico-sessuali. La genesi di queste rappresentazioni-eventi avrebbe, perciò, un carattere multifattoriale e una qualità subsimbolica, ma non totalmente asimbolica. Processi di codificazione o di stabilizzazione di tali rappresentazioni d‘oggetto ricorsivi e via via più complessi comportano  l’acquisizione di una maggiore astrazione e categorialità, finché, una volta raggiunto un grado elevato di astrazione, esse divengono astrazioni simboliche. La rappresentazione d’oggetto, in altri termini  non è né una costruzione simbolica d’emblée, né un evento somato-psichico totalmente privo di connotazioni simboliche. Per la Zontini <<il raggiungimento di una simbolicità astrattiva è un fenomeno di emergenza dalla complessità del funzionamento diffuso dell’apparato psichico. La parola con la sua radice corporea partecipa dello stesso destino. Non nasce come capacità simbolica e astrattiva per sé, ma estrae il suo massimo di capacità simbolica dal terreno del corpo. Questo processo di estrazione del simbolico dalla materia del corpo viene compiuto mediante l’operazione di legame, via via sempre più complessa, tra la parola stessa e le rappresentazioni d’oggetto costruite dai sensi del corpo e depositate nei sistemi di memoria, non solo in quel sistema di memoria che ci consente di esplicitare, dichiarare, significare qualcosa di noi stessi e delle nostre relazioni (la memoria dichiarativa), ma anche di quel sistema mnestico che ci consente di conservare nel corpo, in modo implicito (la memoria procedurale), l’esperienza vissuta ma non ricordata (Scalzone e Zontini 2006), conosciuta non pensata (Bollas 1989)>>. La relatrice precisa di non voler far coincidere  la memoria implicita  con l’inconscio, né che la memoria dichiarativa coincide con la coscienza. Piuttosto intende  mostrare  che la parola, sistema simbolico per eccellenza, non giace solo sul piano del mentale puro, della coscienza a livello del suo funzionamento più elevato, delle facoltà psichiche e, si potrebbe dire, cerebrali superiori. La capacità simbolica è una capacità diffusa del cervello come della mente partendo da vari gradi e livelli. Già la percezione è una forma di raggruppamento simbolico, o forse si dovrebbe dire subsimbolico, degli stimoli che colpiscono i sensi corporei: l’attività simbolica umana comincia già a partire dalla  materia del corpo e dalla sua capacità di conservare in una memoria incarnata. La ripetizione dei processi di associazione con l’aggiunta di nuove stimolazioni incrementa il processo di simbolizzazione finché esso raggiunge le sue forme più astratte tra le quali il linguaggio e, attraverso di esso, la comunicazione con l’altro. La parola, dunque, è spirito, ma è anche carne (Lakoff 1986).  

Se la parola ha origini corporee <<può acquistare anche il peso e la consistenza del trauma>> afferma la Zontini <<può perdere la sua lievità simbolica e assumere la grevità del corpo estraneo incorporato nello psichismo che costringe l’apparato ad usare difese estreme, quali il diniego, la forclusione, la scissione, fino al ritorno massiccio al corpo (ipocondria, psicosomatosi) o alla chiusura dello psichismo in condizioni quali la posizione fobica primaria in cui l’associazione tra pensieri e tra pensieri ed emozioni è vietata, generando in tal modo quelle condizioni sintomatiche che vengono definite, in senso generale, patologie gravi>>.

Una parola male-detta, prosegue la relatrice <<può far trauma non solo sul piano dello spostamento simbolico del suo significato, come si potrebbe pensare accada nelle nevrosi, ma anche coinvolgendo il corpo stesso mediante un regresso della parola psichica a quei livelli subsimbolici che hanno ancorato la sua origine alla rappresentazione d’oggetto>>. Questa forma di regressione, proprio perché coinvolge i livelli subsimbolici prossimi al corpo, determina la comparsa di patologie che non appartengono all’area della nevrosi, ma si configurano come disturbi più gravi in cui il corpo è al centro della scena sintomatica, non nella sua funzione simbolica come avviene nell’isteria, ma proprio nella sua funzione di espressione “cosale” dell’identità.

Paradossalmente, però, l’ipotesi di una parola traumatica, male-detta, potrebbe comportare l’implicazione che una sua ri-iscrizione, una sua elaborazione in senso maggiormente simbolico possa funzionare in senso terapeutico. Infatti, come lo stesso Freud (1891) ha affermato, la rappresentazione di parola e la rappresentazione d’oggetto sono connesse mediante la loro immagine sonora. Si potrebbe, allora, pensare che, la parola male-detta ha assunto un ruolo di trauma poiché ha attivato in senso 'regrediente' il percorso simbolico da cui ha tratto la sua origine. Essa, in tal modo è restata bloccata a livello dei processi associativi subsimbolici a genesi corporea e ciò ha probabilmente interrotto quel legame tra rappresentazione d’oggetto e rappresentazione di parola a livello dell’immagine sonora. La rappresentazione d’oggetto, dissociata dalla rappresentazione di parola, a causa di una parola male-detta, resta come corpo estraneo nello psichismo e da questa posizione esplica la sua funzione traumatica. La talking cure potrebbe allora rimettere in moto un percorso 'progrediente' e restituire al discorso traumatico il suo valore simbolico-astrattivo, sganciandolo, sebbene mai totalmente, dai circuiti subsimbolici del corpo in cui è restato intrappolato e riaprendo, così, la via a nuove e multiple associazioni simboliche che posano liberarla dalla sua traumaticità iniziale e portarla a nuove acquisizioni di significato. Ciò significa, però, secondo la Zontini, <<pensare alla psicoanalisi non solo come ad un processo storico-ricostruttivo delle vicende di vita di un paziente o un procedimento di avvicinamento ad una profondità, quella delle origini remote, dove giacciono verità ignote e neppure come ad un processo ermeneutico di attribuzione di un significato condiviso al racconto dell’analizzando>>. Si potrebbe pensare la talking cure <<anche come un procedimento che mira a ripercorrere le intersezioni di varie linee evolutive di aspetti identitari. Tali linee evolutive si dispiegano attraverso il gioco delle varie sovrapposizioni interpretative, delle attribuzioni transferali e controtransferali e, in generale, del transfert sulla parola>>. Come dice Rizzuto  (1993) ascoltare ciò che viene detto dall’altro è un processo attivo che richiede un discorso interno con noi stessi. La parola che comprendiamo è la parola combinata cioè quella pronunciata dall’altro e quella interna che noi stessi abbiamo detto. Ascoltare, perciò, è associare le parole esterne alle parole interne. Noi udiamo, infine, noi stessi internamente. <<E’, dunque, questo transfert del nostro discorso interno, nelle sue varianti simboliche ma anche subsimboliche, incarnate, sulla parola male-detta che rende quest’ultima traumatica. Allo stesso modo il transfert sulla parola analitica può comportare la ri-messa in moto di quelle linee evolutive interrotte dal trauma e liberare il sintomo, mediante il lavoro interpretativo di parola, non solo entrando in profondità, ma anche generando trasformazioni e differenze che riattivano processi inconsci che non chiudono il paziente nella sua storia ma rilanciano anche altre possibilità di evoluzione futura. Il disvelamento dell’inconscio, quindi, è solo in parte ricostruzione della storia fantasmatica e relazionale del soggetto, ma è anche apertura ad una non-storia, a ciò che non è stato realizzato, che non è mai stato formulato e che può rappresentare il punto di partenza per divenire quel se stesso mai prima conosciuto>>.

 

 

 

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