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     "LO SGUARDO DELLA SPETTATRICE"

di Laura Montani

 

 

 

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a cura di Laura Montani 

 

 

 


 

    

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Altri contributi dello Spazio Rosenthal:

Presentazione della curatrice (di Laura Montani)

"Sublime  Negativo" (di Laura Montani)

 

"La persona dell'analista nei passaggi istituzionali" (di Laura Montani)

 

"Le emozioni di un incontro con un soccorritore" (di Ambra Cusin)

 

"Primavera tunisina" (di Lidia Tarantini)

 

"Il corpo della psicoanalisi" (di Laura Montani)

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 Di prossima pubblicazione/About to be published:

"Psicoanalisi e luoghi della negazione" a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian,  A. Cusin, N. Janigro, G. Leo, B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.  Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-4-2

Anno/Year: 2011

Pages: 400

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"Lebensruckblick"

by Lou Andreas Salomé

(book in German)

Author:Lou Andreas Salomé

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-97479-00-0

Anno/Year: 2011

Pages: 267

Prezzo/Price: € 19,00

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"Psicologia   dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

Prezzo/Price: € 18,00

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OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

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Premessa

 

Il cinema viene ormai  considerato da più parti “l’occhio del Novecento”. Quale mezzo più adatto dunque per svelare i sintomi di questo secolo che ci ri-guarda anche se dalle nostre spalle?

Ricordo che psicoanalisi e cinema nascono contemporaneamente: numerosi aspetti legati alla proiezione, allo spettacolo, alla percezione dello spettacolo, possiedono equivalenti psicoanalitici. La percezione cinematografica è forse la sola che può far comprendere  (sebbene solo in parte) una pratica psicoanalitica: ipnosi, fascinazione, identificazione, tutti questi termini e questi procedimenti sono comuni al cinema e alla psicoanalisi, e questo è il segno di un "pensiero comune”, prettamente visionario.

Come non si può oggi prescindere, per quanto riguarda la psicoanalisi, dal lavoro di decostruzione che le analiste portano avanti rispetto alla questione del desiderio femminile all’interno della/delle teorie psicoanalitiche, così, per quanto riguarda il cinema e la critica cinematografica,  non si può ignorare il percorso di studiose di cinema che  hanno focalizzato la loro ricerca sullo sguardo della spettatrice.  Mi riferisco  qui al  saggio fondamentale di Laura Mulvey del 1975 che avvia un  dibattito teorico non ancora concluso articolato intorno ad alcune domande di imprescindibile importanza: che cosa facciamo quando guardiamo un film? Che rapporto c’è tra film e piacere? Che rapporto c’è tra la fascinazione del cinema e la narrazione per immagini?  Ma soprattutto quale visione cinematografica si articola in uno sguardo femminile?

La Mulvey e numerose altre studiose di cinema chiamano in causa la psicoanalisi per scoprire dove e come la fascinazione del film sia rinforzata da modelli di fascinazione preesistenti, già attivi nell’individuo e nelle formazioni sociali che lo hanno plasmato, e prendono come punto di partenza il modo in cui il film riflette, rivela, o anche mette in scena fedelmente, l’interpretazione socialmente stabilita della differenza sessuale che controlla le immagini, i modi di guardare erotici, lo spettacolo.

Il discorso relativo al piacere di guardare verte su come questo piacere si costruisca e venga veicolato attraverso l’apparato cinematografico e fotografico e si interroga su chi sia il soggetto che guarda e chi sia l’oggetto del desiderio. La soggettività è messa in primo piano, con la conseguente esigenza di ridiscutere il ruolo dello spettatore, ma ancora di più quello della spettatrice.

Queste indicazioni corrono parallele alla costruzione di scenari filmici e psicoanalitici di cui rovesciano la prospettiva, come rovesciano quella  tradizionale dell’epoca rispetto allo sguardo femminile (Mulvey, 1975).

Ci restituiscono una spettatrice attiva, che sogna, fantastica, immagina e ragiona sulla propria presunta identità sessuale e quella altrui, frantumando il cliché della casalinga frustrata e oziosa seduta in platea.

Se, secondo Zizek, oggi certi autori di certi film, come Lynch, Tarkowskij, Von Trier, e Hitchcock, ci informano sullo stato delle cose dell’immaginario, articolandone i fantasmi e le fantasie, dandole a vedere, la critica cinematografica femminile aggiunge che il pensiero visivo cinematografico, così simile a quello del sogno, è una forma particolare di pensiero che coglie al cuore la realtà psichica, diversa nel caso che si tratti di uno spettatore o di una spettatrice, e si va a intrecciare così con il pensiero delle psicoanaliste che hanno rivisitato vari aspetti delle teorie della propria disciplina utilizzando il pensiero della differenza.

 

 

 

 

 

 

 

“Per comprendere il cinema occorre pensare il fantasma e il capitale insieme” dice Derrida, in un'intervista rilasciata ai "Cahiers du Cinema". Questo incrocio è inedito - dice ancora - perché riunisce in un intervallo molto breve l'immediatezza delle apparizioni e emozioni con un investimento finanziario che nessuna altra arte può uguagliare.

Per quanto riguarda l’incrocio inedito proposto dal cinema, tra il capitale spettrale soggettivo  dell’apparizione e “il mercato internazionale degli sguardi”, interrogherò qui un film e un autore, Hitchcock.  Di quello che è considerato il suo capolavoro Vertigo, mi limitero a “guardare”, come psicoanalista-spettatrice, un solo punto: la questione del simulacro che, per quanto riguarda il venire ad essere della “donna”, Vertigo mette a tema, rimandando all’enigma della differenza (e forse della stessa femminilità) che tanto la donna che l’uomo si trovano a patire come assoluta e inquietante alterità. Esso compare in filigrana nella tramatura di questo film, dove quello che non si può dire, Hitchcock ce lo ha fatto vedere.

 

1

 

 Mi pongo, con quanto segue, dalla parte dello sguardo dello spettatore-autore e, successivamente, dalla parte dello sguardo di una spettatrice-psicoanalista.

Ricordo brevemente la trama di  Vertigo per chi non l’avesse visto.

 

Sofferente di vertigini dopo un incidente in servizio, John "Scottie" Ferguson lascia la polizia e accetta di lavorare  privatamente, come investigatore, per un amico. Questi gli chiede di sorvegliare la moglie Madeleine, che in ricorrenti stati di  “assenza” sembra posseduta dallo spirito di Carlotta Valdes, suicida un secolo prima. Il solitario Ferguson, il cui legame con la disegnatrice di moda Midge non va oltre l'amicizia, resta affascinato dall'infelice Madeleine. E quando è costretto a intervenire per salvarla da un tentativo di suicidio in mare, tra i due ha inizio una storia d'amore. Ma un'altra tragedia sconvolge la fragile psiche dell'ex poliziotto: paralizzato da un attacco di vertigini, Ferguson non riesce a impedire a Madeleine di gettarsi da un campanile. Dopo una lunga cura psichiatrica, Ferguson incontra casualmente Judy, sosia perfetta, nei tratti, di Madeleine, e cerca ad ogni costo di trasformarla, attraverso gli abiti, il trucco, il colore dei capelli, nella donna morta e fare rivivere attraverso di lei la donna che ancora lo ossessiona. Ma così facendo, porta alla luce un intrigo diabolico (Judy era già Madeleine, costruita  ad hoc per ingannarlo) la cui scoperta lo condurrà a un finale tragico.

 

La costruzione della donna, nell’immaginario maschile, è svelata nel film punto per punto. Sono certi abiti, certi tessuti che fanno della protagonista un’icona e trasformano Judy in Madeleine.

Due abiti in particolare: un tailleur grigio di grisaglia e un abito di seta nero corto da sera. Sono questi i supporti identitari del "fantome" che Madeleine costituisce nel film agli occhi sia degli spettatori, sia di Scottie, il protagonista, quanto di Hitchcock stesso. Qualche cosa che ritorna identico tra-i vestiti.

Potremo parafrasare il titolo di un celebre film di cassetta: “Sotto il vestito niente” per andare ad indicare l’operazione che Hitchcock fa con il suo personaggio femminile.

L’attrazione potente verso ciò che è incomprensibile alla ragione e, da questo versante non è penetrabile, il “mistero” è il fulcro di tutta l’opera di Hitchcock.

Costruendo con Madeleine la femme fatale come colei che non è mai quello che sembra, una donna che nasconde una minaccia che non è interamente leggibile, prevedibile, o manipolabile,  Hitchcock trasforma la minaccia femminile in un segreto, qualcosa che deve essere rivelata aggressivamente, smascherata, scoperta… e ci dà a vedere quello che lo sguardo maschile cela: la paura. La paura dell’alterità. La paura può spingere a negare l’alterità, o cancellandola dal simbolico come fa Lacan, o mettendola a morte  in rappresentazione come  Hitchcock (pensiamo oltre che a Vertigo a Psycho).

E’ attribuita ad Hemingwey, credo, la seguente battuta: “l’unica donna buona è quella morta.”

La sessualità, in  Hitchcock, diventa il luogo degli interrogativi su ciò che si può e non si può conoscere. Questo intreccio di conoscenza e sessualità, di epistemofilia e scopofilia ha delle implicazioni fondamentali per la rappresentazione della differenza sessuale.

L’intervista rilasciata a François Truffaut nel 1962, si apre con il seguente ricordo d’infanzia:

Avevo forse quattro o cinque anni… mio padre mi mandò al commissariato di polizia con una lettera. Il commissario la lesse e mi rinchiuse in una cella per cinque o dieci minuti dicendomi: Ecco che cosa si fa ai bambini cattivi.”

A Truffaut, che gli chiede: “E lei cosa aveva fatto per meritare questa punizione? Hitchcock risponde “Non ne ho la minima idea. Mio padre mi chiamava sempre “la sua piccola pecora senza macchia.”

Il mondo degli adulti, il mondo del padre,  il mondo della legge, compare davanti a Hitchcock bambino (educato in un collegio gesuitico a Londra dove si comminavano punizioni corporali), come un mondo incomprensibile, di cui  l‘unico elemento  che gli viene dato a conoscenza, perché ne fa diretta esperienza, è quello di una violenza altrettanto incomprensibile. Dal tentativo di sciogliere l’incomprensibile del mondo adulto nasce il “linguaggio filmico” di Hitchcock, traduzione sua propria e personale di una datità altrimenti irriducibile.

A proposito delle sue ri-costruzioni di un reale enigmatico che mette all'opera e al lavoro un io scopico, visionario, lo stesso Hitchcock ci dice:

C’è qualche cosa di più importante della logica: l’immaginazione. Se si pensa subito alla logica non si può più immaginare niente. Spesso lavorando con il mio. La logica la si butta dalla finestra!”

 

 

2

 

Secondo A. Warburg il pensiero è sempre passionale e Hitchcock ce lo mostra.

Attraverso la passione per Madeleine che lo travolge, emerge il carattere demoniaco dell’inseguimento sia di Scottie sia, più in generale, quello dell’inseguimento passionale. Inseguendo un fantasma e ritrovandolo in un essere vivo, Scottie non può che rivolerlo come era e interamente. Vale a dire anche morto. L’altro (l’Altra) è tallonato (Madeleine è tallonata): c’è una meta pulsionale. Donargli la morte.

La suspence che Hitchcock crea in questo film pertiene pertanto  al noir del sentimento amoroso, al noir della logica passionale che ripete all’infinito la ricerca di un fantastico oggetto originario che, come tale, non può che essere destinalmente già da sempre perso.

Vediamo il protagonista, nello svolgersi della narrazione, abbandonarsi a questa logica vertiginosa, così come lo abbiamo visto  in una delle prime scene del film sospeso nel vuoto: sotto di lui un vertiginoso ignoto. L’immagine è quella che è, rispetto alla narrazione che poi si svolgerà. Ma è anche una grande metafora atta a tradurre in immagine le parole di J. Luc Nancy:

L’uomo è l’essere dell’essere abbandonato e, come tale, costituito o piuttosto, istituito, dal solo fatto che riceve l’ordine di guardare (voire) l’uomo qui, là dove è abbandonato”.

Esemplarmente, con Vertigo, Hitchcock si inoltra in una messa in rappresentazione forte dell’essere abbandonato a un caso che  diventa destino.

Da un punto di vista strutturale, il percorso conoscitivo  da lui intrapreso, segue vie in cui l’ossessivo rimarrebbe intrappolato dall’impossibilità di conoscere/riconoscere la propria oscurità.

Così il dubbio perenne dell’ossessivo, l’ambivalenza e il doppio persecutorio, l’angoscia di morte, diventano altrettanti “motivi” di una polifonia di cui Vertigo e la sua icona, la figura della spirale, che compare nei titoli di testa, rappresentano uno dei picchi più acuti e introducono lo spettatore nel labirinto passionale in cui egli stesso, guardando, cadrà.

Il dispositivo della suspence, che mette a contatto con un oggetto perturbante, abietto, mortifero, svela l’impossibilità della ragione a darne conto, convocando lo spettatore ad un’altra logica, quella del senso.

Tale logica è la stessa che l’analista deve accettare di condividere con il suo paziente rispetto alle apparizioni che gli porta, a meno che la logica del desiderio non lo spaventi e faccia arretrare: accade, può accadere.

Quanti tra noi vivono l’analisi come una pratica, forse converranno con me, oppure no, sul fatto che c’è una "suspence" psicoanalitica che ingaggia l’analista dentro il tempo dell’interiorità e lo convoca al proprio infantile e si esprime nell’appassionato desiderio di sapere, molto simile a quello che questo grande regista mette in gioco nel corso di Vertigo e in tutta la sua opera.

L’io scopico e visionario dell’analista però non può rimanere tale e deve dare parola, o silenzio, dipende dai casi, alle ”visioni” che si articolano nella stanza d’analisi, o nel caso sia un appassionato costruttore di un sistema di pensiero, come Lacan, appoggiare a queste “visioni” tutto il corpo del suo testo.

Per il bambino, e il suo pensiero onnipotente, dare la morte è un dispositivo immaginario abituale. Il gioco del fort-da lo mette in scena esemplarmente. Così come la morte viene data, così essa viene anche tolta. Fort=via/da=qui: Madeleine, come oggetto del desiderio, nella prima parte di Vertigo risponde al dispositivo del gioco infantile: scompare e riappare.

Nella seconda parte del film è invece il gioco del rocchetto a scomparire, e lo spettatore è messo a confronto, da adulto, con la perdita, con la morte, così come a tutti gli adulti accade: un essere amato scompare, ma non è più possibile il gioco. L’essere amato non ritorna più. Rimane lo smisurato dolore, la cui forza, come mostra l’ultima scena del film, permette al protagonista di tenersi in piedi, ai bordi del vuoto e di guardarlo ("voire").

Il bambino si è trasformato nell’adulto, ma anche in un virtuale assassino: la scena messa in scena da Gavin, l’assassino reale, si replica di nuovo nel reale, senza che apparentemente Scottie abbia fatto un solo gesto per provocarla.

Ma alla fine del film non possiamo tutti non convenire che l’ha potentemente desiderata.

Madelaine cade.

La vertigine prende lei ed è lei a cadere. Scottie si è liberato del suo sintomo.

La messa in atto (agieren) dell’immagine in movimento non solo svela, ma porta a compimento il lato oscuro del desiderio e permette ad Hitchcock proprio quello che in un’analisi, dove il luogo sintomatico è fonte non di azioni, ma di trasformazioni in pensiero pensato, è vietato.

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
   

 

 

 

3

Uno sguardo femminile su Vertigo –

 La donna che visse quattro volte: genealogia di un personaggio.

 

 

 

 

La costruzione spiraliforme del personaggio femminile di Vertigo giustifica la riformulazione che ho dato al titolo italiano, che potrebbe sembrare bizzarra?

Infatti, perché quattro vite? E di chi sono?

Le quattro vite che articolano la costruzione del personaggio  si riferiscono:

1) a quella della moglie di Gavin, personaggio che nel film non vediamo mai, se non nella scena in cui il suo corpo, vestito del famoso tailleur grigio  si intravvede appena quando viene gettato dalla torre dal suo assassino e  il cui sembiante Judy aveva impersonato  con l’inganno.

Chiamerò Madeleine 1 questa vita non sua, che Judy si presta a vivere nella prima parte del film.

2) a quella di Carlotta Valdes, l’antenata di Madeleine1.

3) a quella di Judy, la pseudo-commessa bellissima e volgare che vediamo nella seconda parte del film.

4) a quella di Judy-Madeleine, ricostruita da Scottie, secondo il modello  di Madeleine1.

Nella complessa genealogia del personaggio interpretato da una Kim Novak in grado di comunicare la potenza sotterranea e seduttrice di un ‘eterno femminino’, c’è a monte  la questione del simulacro femminile  che  Pigmalione costruì per sé.

Delle quattro vite impersonate da un unico personaggio, solo quella di Judy sembra non risentire della costruzione pigmalionica. Lo stesso Hitchcock, quando ci presenta il personaggio nella sua veste volgare e dimessa, lo guarda, attraverso gli occhi di Scottie, per cercare i punti di appoggio su cui potere ricostruire di nuovo Madeleine1, la statua vivente che abbiamo visto comparire, in tutto il suo freddo splendore nella scena che si svolge nell’albergo. In questa rete di sguardi in  cui la donna è presa, costruita una prima volta, ricostruita una seconda, vale la pena segnalare l’aderenza della condizione di Judy di cui si può ipotizzare  un’estrazione sociale umile e un mestiere sui generis, con Carlotta Valdes, l’antenata di Madedeine 1.

Entrambe vengono portate da un uomo verso un destino di strumentalizzazione e abbandono. Carlotta Valdes viene privata della bambina che è nata dalla sua disperata vicenda amorosa: questo l’avrebbe resa folle spingendola a cercarla disperatamente ovunque, fino a morirne.

Possiamo intravvedere, dietro il ritratto che Madelaine1 contempla, dietro l’enigmatico splendore del corpo femminile che sia il ritratto che la donna viva mettono in scena, la bambina perduta che sta prima di quei corpi di donna e trova nel film un luogo rappresentazionale, al di là dell’intenzione del suo autore, grazie alla potenza espressiva dell’attrice che riesce in qualche modo a trasmetterci la follia di Judy, persa  all’inseguimento di se stessa così come Scottie la insegue?

Avanzo qui questa ipotesi non tanto come psicoanalista quanto come spettatrice.

Il lavoro di costruzione di Gavin, il lavoro di ricostruzione di Scottie, non sarebbero stati infatti possibili senza la bambina smarrita che si presta a indossare vesti di donna non sue, a vivere un corpo di donna non suo.

La fissazione ad un’infanzia mai vissuta e perduta compare in filigrana nella vocazione di Judy a vivere esclusivamente nel desiderio dell’altro.

Kim Novak ce la lascia cogliere con il suo sguardo ogni volta che come Madeleine 1 appare con tutto il suo splendore nel suo corpo di donna.

In entrambe le scene, su cui già mi sono soffermata, accanto all’effetto di apparizione di un corpo di donna eternale, lo sguardo dell’attrice riesce a rendere  magistralmente il tremolio ansioso dello sguardo infantile che cerca l’approvazione nello sguardo dell’altro, senza la quale potrebbe morire.

Lo struggimento che pervade entrambe le scene è dovuto alla capacità della protagonista di metterci in profondo contatto con l’infantile che percorre il sentimento amoroso.

Ciò accade al di là dell’intenzione di Hitchcock e a sua insaputa.

Il film “lavora” sullo scatenamento passionale di Scottie, lo sguardo di Hitchcock e Scottie coincidono, ma lo sguardo di Madelaine è un dono che Kim Novak fa allo spettatore. Lo dico da spettatrice, ma sento che Hitchcock non è interessato ad indagare l’anima del personaggio femminile, solo a costruirlo nel suo ambiguo e misterioso sembiante.

Infatti se comunque Hitchcock/Scottie “rivede”, sia nella prima scena citata che nella seconda, e Madeleine gli appare permettendogli di ritrovare un oggetto originario perduto, a sua volta la donna, ricollocata in questo spazio originario, non ritrova se stessa, ma solo una bambina  vertiginosamente persa nello sguardo dell’altro, nel cui fondo più profondo non può incontrare di se stessa se non un simulacro. Questa è la dannazione della donna che abbiamo già incontrato nel testo di Lacan.

La scena in cui Judy tenta di scrivere a Scottie la “verità” è a  uso e consumo del solo spettatore. Il protagonista, Scottie, non verrà mai a sapere del tentativo di Judy di smarcarsi da Madeleine e svelarsi. La tramatura noir impressa in tutto il film dalla logica passionale fa sì che la lettera non venga scritta e Judy si consegni al suo destino di simulacro. Questa  altra verità  dunque la saprà sempre e solo lo spettatore a cui viene svelata e anticipata una verità che Scottie non saprà mai, quella di Judy-persona, mentre quella dell’inganno del doppio gioco di Madeleine gli apparirà davanti in modo accecante grazie al lapsus di Judy: la collana simile a quella portata nel quadro da Carlotta Valdes e incautamente conservata.

Quel lapsus svela a Scottie un brandello di “verità”. Quella di Madelaine-Judy,  quella del doppio, quella della femme fatale, ma non quella di Judy, che, ipotizzo, fosse il desiderio  di essere riconosciuta finalmente come non-Madeleine, ma come assolutamente altra da quella, vale a dire, lei, proprio lei, Judy in carne ed ossa, se rimaniamo sul piano della sua intravista infantile e disperata dipendenza dallo sguardo dell'altro.

A questo punto mi chiedo ancora: non c’è forse anche in Madeleine-Judy il tentativo inconscio di portare l'uomo alla decantazione estrema del suo desiderio? E che questo "apra" su un possibile smarcamento o su una prevalenza incontrollata della pulsione di morte sua propria?

Lascio aperta a una discussione possibile questa domanda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

 

 

    Tirando le fila

 

 

Ho percorso un’ipotesi di lettura possibile, fra le tante che questo film straordinario propone.

In definitiva, stando a questa ipotesi di  ”trame nere” quale è il filo che apparenta la ricerca artistica di Hitchcock a quella psicoanalitica di Lacan ?

Una risposta possibile, ma da interrogare a sua volta come tale, potrebbe essere la seguente: il desiderio di svelare il segreto del femminile, il primo costruendolo e ricostruendolo per poi metterlo a morte, il secondo allucinandone il corpo muto e silenzioso, a immagine somiglianza di un Dio  inesistente, cancellandone così, con un’operazione di apparente omaggio, come avviene nell’amor cortese, l’effettiva pregnanza simbolica e reale.

La donna non esiste, dice Lacan, proprio come Dio: così come Dio, la donna non è che il prodotto dell’immaginario di chi su questa inesistenza può costruire il suo testo. Come lascia cogliere il discorso latente che tesse la trama sia  di questo film che di questa scrittura.

 

Rileggiamo a questo punto la conclusione del capitolo VI di Ancora (J. Lacan [1972-73], Il Seminario. Libro XX, Ancora, Einaudi, 1983).

“Oggi mi metterò piuttosto a mostrarvi in che senso esiste appunto il vecchio buon Dio (…). Questo Altro, se non ce n’è che uno solo, deve pur avere qualche rapporto con quel che appare dell’altro sesso…”( sottolineatura e corsivo  miei).

 

Prendiamoci, come donne, questo, che in fondo risulta essere, insieme, una blasfemia e un omaggio.

Ma mi viene da dire, a questo punto, per concludere con Woody Allen: “Dio è morto e neppure io mi sento tanto bene”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
 

 Bibliografia

 

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 G. Genette (1982), Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi,1997.

G. Genette (1983), Nuovo discorso del racconto, Einaudi, 1987.

G. Genette (1987) Soglie, i dintorni del testo, Einaudi, 1989.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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