Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853
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"Psicoanalisi e luoghi della negazione"
a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)
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Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
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"Vite soffiate. I vinti della
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
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Premessa
Il
cinema viene ormai considerato
da più parti “l’occhio del Novecento”. Quale mezzo più adatto
dunque per svelare i sintomi di questo secolo che ci ri-guarda anche
se dalle nostre spalle?
Ricordo
che psicoanalisi e cinema nascono contemporaneamente: numerosi aspetti
legati alla proiezione, allo spettacolo, alla percezione dello
spettacolo, possiedono equivalenti psicoanalitici. La percezione
cinematografica è forse la sola che può far comprendere
(sebbene solo in parte) una pratica psicoanalitica: ipnosi,
fascinazione, identificazione, tutti questi termini e questi
procedimenti sono comuni al cinema e alla psicoanalisi, e questo è il
segno di un "pensiero comune”, prettamente visionario.
Come
non si può oggi prescindere, per quanto riguarda la psicoanalisi, dal
lavoro di decostruzione che le analiste portano avanti rispetto alla
questione del desiderio femminile all’interno della/delle teorie
psicoanalitiche, così, per quanto riguarda il cinema e la critica
cinematografica,
non si può ignorare il percorso di studiose di cinema che
hanno focalizzato la loro ricerca sullo sguardo della
spettatrice. Mi
riferisco qui al saggio
fondamentale di Laura Mulvey del 1975 che avvia un dibattito teorico non ancora concluso articolato intorno ad
alcune domande di imprescindibile importanza: che cosa facciamo quando
guardiamo un film? Che rapporto c’è tra film e piacere? Che
rapporto c’è tra la fascinazione del cinema e la narrazione per
immagini? Ma soprattutto quale
visione cinematografica si articola in uno sguardo femminile?
La
Mulvey e numerose altre studiose di cinema chiamano in causa la
psicoanalisi per scoprire dove e come la fascinazione del film sia
rinforzata da modelli di fascinazione preesistenti, già attivi
nell’individuo e nelle formazioni sociali che lo hanno plasmato, e
prendono come punto di partenza il modo in cui il film riflette,
rivela, o anche mette in scena fedelmente, l’interpretazione
socialmente stabilita della differenza sessuale che controlla le
immagini, i modi di guardare erotici, lo spettacolo.
Il
discorso relativo al piacere di guardare verte su come questo piacere
si costruisca e venga veicolato attraverso l’apparato
cinematografico e fotografico e si interroga su chi sia il soggetto
che guarda e chi sia l’oggetto del desiderio. La soggettività è
messa in primo piano, con la conseguente esigenza di ridiscutere il
ruolo dello spettatore, ma ancora di più quello della spettatrice.
Queste
indicazioni corrono parallele alla costruzione di scenari filmici e
psicoanalitici di cui rovesciano la prospettiva, come rovesciano
quella tradizionale
dell’epoca rispetto allo sguardo femminile (Mulvey, 1975).
Ci
restituiscono una spettatrice
attiva, che sogna, fantastica, immagina e ragiona
sulla propria presunta identità sessuale e quella altrui, frantumando
il cliché della casalinga frustrata e oziosa seduta in platea.
Se,
secondo Zizek, oggi certi autori di certi film, come Lynch, Tarkowskij,
Von Trier, e Hitchcock, ci informano sullo stato delle cose
dell’immaginario, articolandone i fantasmi e le fantasie, dandole a
vedere, la critica cinematografica femminile aggiunge che il pensiero
visivo cinematografico, così simile a quello del sogno, è una forma
particolare di pensiero che coglie al cuore la realtà psichica,
diversa nel caso che si tratti di uno spettatore o di una spettatrice,
e si va a intrecciare così con il pensiero delle psicoanaliste che
hanno rivisitato vari aspetti delle teorie della propria disciplina
utilizzando il pensiero della differenza.
“Per
comprendere il cinema occorre pensare il fantasma e il capitale
insieme” dice Derrida, in un'intervista rilasciata ai "Cahiers
du Cinema". Questo incrocio è inedito - dice ancora - perché
riunisce in un intervallo molto breve l'immediatezza delle apparizioni
e emozioni con un investimento finanziario che nessuna altra arte può
uguagliare.
Per
quanto riguarda l’incrocio inedito proposto dal cinema, tra il
capitale spettrale soggettivo dell’apparizione
e “il mercato internazionale degli sguardi”, interrogherò qui un
film e un autore, Hitchcock. Di
quello che è considerato il suo capolavoro Vertigo,
mi limitero a “guardare”, come psicoanalista-spettatrice, un solo
punto: la questione del
simulacro che, per quanto riguarda il venire ad essere della
“donna”, Vertigo mette a
tema, rimandando all’enigma della differenza (e forse della stessa femminilità) che tanto la donna
che l’uomo si trovano a patire come assoluta e inquietante alterità.
Esso compare in filigrana nella tramatura di questo film, dove quello
che non si può dire, Hitchcock ce lo ha fatto vedere.
1
Mi
pongo, con quanto segue, dalla parte dello sguardo
dello spettatore-autore e, successivamente, dalla parte dello
sguardo di una spettatrice-psicoanalista.
Ricordo
brevemente la trama di Vertigo
per chi non l’avesse visto.
Sofferente di vertigini dopo un incidente in servizio, John "Scottie"
Ferguson lascia la polizia e accetta di lavorare
privatamente, come investigatore, per un amico. Questi gli
chiede di sorvegliare la moglie Madeleine, che in ricorrenti stati di
“assenza” sembra posseduta dallo spirito di Carlotta Valdes,
suicida un secolo prima. Il solitario Ferguson, il cui legame con la
disegnatrice di moda Midge non va oltre l'amicizia, resta affascinato
dall'infelice Madeleine. E quando è costretto a intervenire per
salvarla da un tentativo di suicidio in mare, tra i due ha inizio una
storia d'amore. Ma un'altra tragedia sconvolge la fragile psiche
dell'ex poliziotto: paralizzato da un attacco di vertigini, Ferguson
non riesce a impedire a Madeleine di gettarsi da un campanile. Dopo
una lunga cura psichiatrica, Ferguson incontra casualmente Judy, sosia
perfetta, nei tratti,
di Madeleine, e cerca ad ogni costo di trasformarla, attraverso gli
abiti, il trucco, il colore dei capelli, nella donna morta e fare
rivivere attraverso di lei la donna che ancora lo ossessiona. Ma così facendo, porta
alla luce un intrigo diabolico (Judy era già Madeleine, costruita
ad hoc per ingannarlo) la cui scoperta lo condurrà a un finale
tragico.
La
costruzione della donna, nell’immaginario maschile, è svelata nel
film punto per punto. Sono certi abiti, certi tessuti che fanno della
protagonista un’icona e trasformano Judy in Madeleine.
Due
abiti in particolare: un tailleur grigio di grisaglia e un abito di
seta nero corto da sera. Sono questi i supporti identitari del "fantome"
che Madeleine costituisce nel film agli occhi sia degli spettatori,
sia di Scottie, il protagonista, quanto di Hitchcock stesso. Qualche
cosa che ritorna identico tra-i vestiti.
Potremo
parafrasare il titolo di un celebre film di cassetta: “Sotto il vestito niente” per andare ad indicare l’operazione che
Hitchcock fa con il suo personaggio femminile.
L’attrazione
potente verso ciò che è incomprensibile alla ragione e, da questo
versante non è penetrabile, il “mistero” è il fulcro di tutta
l’opera di Hitchcock.
Costruendo
con Madeleine la femme fatale come
colei che non è mai quello che sembra, una donna che nasconde una
minaccia che non è interamente leggibile, prevedibile, o
manipolabile, Hitchcock
trasforma la minaccia femminile in un segreto, qualcosa che
deve essere rivelata aggressivamente, smascherata, scoperta… e ci dà
a vedere quello che lo sguardo maschile cela: la paura. La paura
dell’alterità. La paura può spingere a negare l’alterità, o
cancellandola dal simbolico come fa Lacan, o mettendola a morte in rappresentazione come Hitchcock
(pensiamo oltre che a Vertigo a Psycho).
E’
attribuita ad Hemingwey, credo, la seguente battuta: “l’unica
donna buona è quella morta.”
La
sessualità, in Hitchcock, diventa il luogo degli interrogativi
su ciò che si può e non si può conoscere. Questo intreccio di
conoscenza e sessualità, di epistemofilia e scopofilia ha delle
implicazioni fondamentali per la rappresentazione della differenza
sessuale.
L’intervista
rilasciata a François Truffaut nel 1962, si apre con il seguente
ricordo d’infanzia:
“Avevo
forse quattro o cinque anni… mio padre mi mandò al commissariato di
polizia con una lettera. Il commissario la lesse e mi rinchiuse in una
cella per cinque o dieci minuti dicendomi: Ecco che cosa si fa ai
bambini cattivi.”
A
Truffaut, che gli chiede: “E
lei cosa aveva fatto per meritare questa punizione? Hitchcock
risponde “Non ne ho la minima idea. Mio padre mi chiamava sempre “la sua piccola
pecora senza macchia.”
Il
mondo degli adulti, il mondo del padre, il mondo della legge,
compare davanti a Hitchcock bambino (educato in un collegio gesuitico
a Londra dove si comminavano punizioni corporali), come un mondo
incomprensibile, di cui l‘unico
elemento che gli viene dato a conoscenza, perché ne fa diretta
esperienza, è quello di una violenza altrettanto incomprensibile. Dal
tentativo di sciogliere l’incomprensibile del mondo adulto nasce il
“linguaggio filmico” di Hitchcock, traduzione sua propria e
personale di una datità altrimenti irriducibile.
A
proposito delle sue ri-costruzioni di un reale enigmatico che mette
all'opera e al lavoro un io scopico, visionario, lo stesso Hitchcock
ci dice:
“C’è
qualche cosa di più importante della logica: l’immaginazione. Se si
pensa subito alla logica non si può più immaginare niente. Spesso
lavorando con il mio. La logica la si butta dalla finestra!”
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2
Secondo
A. Warburg il pensiero è sempre passionale e Hitchcock ce lo mostra.
Attraverso
la passione per Madeleine che lo travolge, emerge il carattere
demoniaco dell’inseguimento sia di Scottie sia, più in generale,
quello dell’inseguimento passionale. Inseguendo un fantasma e
ritrovandolo in un essere vivo, Scottie non può che rivolerlo come
era e interamente. Vale a dire anche morto. L’altro (l’Altra) è
tallonato (Madeleine è tallonata): c’è una meta pulsionale.
Donargli la morte.
La
suspence che Hitchcock crea in questo film pertiene pertanto
al noir del
sentimento amoroso, al noir
della logica passionale che ripete all’infinito la ricerca di un
fantastico oggetto originario che, come tale, non può che essere
destinalmente già da sempre perso.
Vediamo
il protagonista, nello svolgersi della narrazione, abbandonarsi a
questa logica vertiginosa, così come lo abbiamo visto
in una delle prime scene del film sospeso nel vuoto: sotto di
lui un vertiginoso ignoto. L’immagine è quella che è, rispetto
alla narrazione che poi si svolgerà. Ma è anche una grande metafora
atta a tradurre in immagine le parole di J. Luc Nancy:
“L’uomo
è l’essere dell’essere abbandonato e, come tale, costituito o
piuttosto, istituito, dal solo fatto che riceve l’ordine di guardare
(voire) l’uomo qui,
là dove è abbandonato”.
Esemplarmente,
con Vertigo, Hitchcock si inoltra in una messa in rappresentazione
forte dell’essere abbandonato a un caso che
diventa destino.
Da
un punto di vista strutturale, il percorso conoscitivo
da lui intrapreso, segue vie in cui l’ossessivo rimarrebbe
intrappolato dall’impossibilità di conoscere/riconoscere la propria
oscurità.
Così
il dubbio perenne dell’ossessivo, l’ambivalenza e il doppio
persecutorio, l’angoscia di morte, diventano altrettanti
“motivi” di una polifonia di cui Vertigo e la sua icona, la figura
della spirale, che compare nei titoli di testa, rappresentano uno dei
picchi più acuti e introducono lo spettatore nel labirinto passionale
in cui egli stesso, guardando, cadrà.
Il
dispositivo della suspence,
che mette a contatto con un oggetto perturbante, abietto, mortifero,
svela l’impossibilità della ragione a darne conto, convocando lo
spettatore ad un’altra logica, quella del senso.
Tale
logica è la stessa che l’analista deve accettare di condividere con
il suo paziente rispetto alle apparizioni che gli porta, a meno che la
logica del desiderio non lo spaventi e faccia arretrare: accade, può
accadere.
Quanti
tra noi vivono l’analisi come una pratica, forse converranno con me,
oppure no, sul fatto che c’è una "suspence" psicoanalitica che
ingaggia l’analista dentro il tempo dell’interiorità e lo convoca
al proprio infantile e si esprime nell’appassionato desiderio di
sapere, molto simile a quello che questo grande regista mette in gioco
nel corso di Vertigo e in tutta la sua opera.
L’io
scopico e visionario dell’analista però non può rimanere tale e
deve dare parola, o silenzio, dipende dai casi, alle ”visioni” che
si articolano nella stanza d’analisi, o nel caso sia un appassionato
costruttore di un sistema di pensiero, come Lacan, appoggiare a queste
“visioni” tutto il corpo del suo testo.
Per
il bambino, e il suo pensiero onnipotente, dare la morte è un
dispositivo immaginario abituale. Il gioco del
fort-da lo mette in scena esemplarmente. Così come la morte
viene data, così essa viene anche tolta. Fort=via/da=qui: Madeleine, come oggetto del desiderio, nella prima parte
di Vertigo risponde al dispositivo del gioco infantile: scompare e
riappare.
Nella
seconda parte del film è invece il gioco del rocchetto a scomparire,
e lo spettatore è messo a confronto, da adulto, con la perdita, con
la morte, così come a tutti gli adulti accade: un essere amato
scompare, ma non è più possibile il gioco. L’essere amato non
ritorna più. Rimane lo smisurato dolore, la cui forza, come mostra
l’ultima scena del film, permette al protagonista di tenersi in
piedi, ai bordi del vuoto e di guardarlo ("voire").
Il
bambino si è trasformato nell’adulto, ma anche in un virtuale
assassino: la scena messa in scena da Gavin, l’assassino reale, si
replica di nuovo nel reale, senza che apparentemente Scottie abbia
fatto un solo gesto per provocarla.
Ma
alla fine del film non possiamo tutti non convenire che l’ha
potentemente desiderata.
Madelaine
cade.
La
vertigine prende lei ed è lei a cadere. Scottie si è liberato del
suo sintomo.
La
messa in atto (agieren)
dell’immagine in movimento non solo svela, ma porta a compimento il
lato oscuro del desiderio e permette ad Hitchcock proprio quello che in
un’analisi, dove il luogo sintomatico è fonte non di azioni, ma di
trasformazioni in pensiero pensato, è vietato.
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3
Uno sguardo femminile su Vertigo –
La donna che visse quattro
volte: genealogia di un personaggio.
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La
costruzione spiraliforme del personaggio femminile di Vertigo
giustifica la riformulazione che ho dato al titolo italiano, che
potrebbe sembrare bizzarra?
Infatti,
perché quattro vite? E di chi sono?
Le
quattro vite che articolano la costruzione del personaggio si riferiscono:
1) a quella della moglie di Gavin, personaggio
che nel film non vediamo mai, se non nella scena in cui il suo
corpo, vestito del famoso tailleur grigio
si intravvede appena quando viene gettato dalla torre dal
suo assassino e il
cui sembiante Judy aveva impersonato
con l’inganno.
Chiamerò
Madeleine 1 questa vita non sua, che Judy si presta a vivere
nella prima parte del film.
2)
a quella di Carlotta Valdes, l’antenata di Madeleine1.
3)
a quella di Judy, la pseudo-commessa bellissima e volgare che
vediamo nella seconda parte del film.
4)
a quella di Judy-Madeleine, ricostruita da Scottie, secondo il
modello di
Madeleine1.
Nella
complessa genealogia del personaggio interpretato da una Kim
Novak in grado di comunicare la potenza sotterranea e seduttrice
di un ‘eterno femminino’, c’è a monte
la questione del simulacro femminile
che Pigmalione costruì per sé.
Delle
quattro vite impersonate da un unico personaggio, solo quella di
Judy sembra non risentire della costruzione pigmalionica. Lo
stesso Hitchcock, quando ci presenta il personaggio nella sua veste
volgare e dimessa, lo guarda, attraverso gli occhi di Scottie,
per cercare i punti di appoggio su cui potere ricostruire di
nuovo Madeleine1, la statua vivente che abbiamo visto comparire,
in tutto il suo freddo splendore nella scena che si svolge
nell’albergo. In questa rete di sguardi in
cui la donna è presa, costruita una prima volta,
ricostruita una seconda, vale la pena segnalare l’aderenza
della condizione di Judy di cui si può ipotizzare
un’estrazione sociale umile e un mestiere sui generis,
con Carlotta Valdes, l’antenata di Madedeine 1.
Entrambe
vengono portate da un uomo verso un destino di
strumentalizzazione e abbandono. Carlotta Valdes viene privata
della bambina che è nata dalla sua disperata vicenda amorosa:
questo l’avrebbe resa folle spingendola a cercarla
disperatamente ovunque, fino a morirne.
Possiamo
intravvedere, dietro il ritratto che Madelaine1 contempla,
dietro l’enigmatico splendore del corpo femminile che sia il
ritratto che la donna viva mettono in scena, la bambina perduta
che sta prima di quei corpi di donna e trova nel film un luogo
rappresentazionale, al di là dell’intenzione del suo autore,
grazie alla potenza espressiva dell’attrice che riesce in
qualche modo a trasmetterci la follia di Judy, persa
all’inseguimento di se stessa così come Scottie la
insegue?
Avanzo
qui questa ipotesi non tanto come psicoanalista quanto come
spettatrice.
Il
lavoro di costruzione di Gavin, il lavoro di ricostruzione di
Scottie, non sarebbero stati infatti possibili senza la bambina
smarrita che si presta a indossare vesti di donna non sue, a
vivere un corpo di donna non suo.
La
fissazione ad un’infanzia mai vissuta e perduta compare in
filigrana nella vocazione di Judy a vivere esclusivamente nel
desiderio dell’altro.
Kim
Novak ce la lascia cogliere con il suo sguardo ogni volta che
come Madeleine 1 appare con tutto il suo splendore nel suo corpo
di donna.
In entrambe le scene, su cui già mi sono
soffermata, accanto all’effetto di apparizione di un corpo di
donna eternale, lo sguardo dell’attrice riesce a rendere magistralmente
il tremolio ansioso dello sguardo infantile che cerca
l’approvazione nello sguardo dell’altro, senza la quale
potrebbe morire.
Lo
struggimento che pervade entrambe le scene è dovuto alla
capacità della protagonista di metterci in profondo contatto
con l’infantile che percorre il sentimento amoroso.
Ciò
accade al di là dell’intenzione di Hitchcock e a sua insaputa.
Il
film “lavora” sullo scatenamento passionale di Scottie, lo
sguardo di Hitchcock e Scottie coincidono, ma lo sguardo di Madelaine
è un dono che Kim Novak fa allo spettatore. Lo
dico da spettatrice, ma sento che Hitchcock non è interessato ad
indagare l’anima del personaggio femminile, solo a costruirlo
nel suo ambiguo e misterioso sembiante.
Infatti
se comunque Hitchcock/Scottie “rivede”, sia nella prima scena
citata che nella seconda, e Madeleine gli appare permettendogli
di ritrovare un oggetto originario perduto, a sua volta la
donna, ricollocata in questo spazio originario, non ritrova se
stessa, ma solo una bambina
vertiginosamente persa nello sguardo dell’altro, nel
cui fondo più profondo non può incontrare di se stessa se non
un simulacro. Questa è la dannazione della donna che abbiamo già
incontrato nel testo di Lacan.
La scena in cui Judy tenta di scrivere a Scottie la
“verità” è a uso
e consumo del solo spettatore. Il protagonista, Scottie, non
verrà mai a sapere del tentativo di Judy di smarcarsi
da Madeleine e svelarsi. La tramatura noir impressa in tutto il
film dalla logica passionale fa sì che la lettera non venga
scritta e Judy si consegni al suo destino di simulacro. Questa
altra verità dunque
la saprà sempre e solo lo spettatore a cui viene svelata e
anticipata una verità che Scottie non saprà mai, quella di
Judy-persona, mentre quella dell’inganno del doppio gioco di
Madeleine gli apparirà davanti in modo accecante grazie al
lapsus di Judy: la collana simile a quella portata nel quadro da
Carlotta Valdes e incautamente conservata.
Quel
lapsus svela a Scottie un brandello di “verità”. Quella di Madelaine-Judy, quella
del doppio, quella della femme fatale, ma non quella di Judy,
che, ipotizzo, fosse il desiderio
di essere riconosciuta finalmente come non-Madeleine, ma
come assolutamente altra da quella, vale a dire, lei, proprio
lei, Judy in carne ed ossa, se rimaniamo sul piano della sua
intravista infantile e disperata dipendenza dallo sguardo
dell'altro.
A
questo punto mi chiedo ancora: non c’è forse anche in
Madeleine-Judy il tentativo inconscio di portare l'uomo alla
decantazione estrema del suo desiderio? E che questo
"apra" su un possibile smarcamento o su una prevalenza
incontrollata della pulsione di morte sua propria?
Lascio
aperta a una discussione possibile questa domanda.
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Tirando le fila
Ho
percorso un’ipotesi di lettura possibile, fra le tante che
questo film straordinario propone.
In
definitiva, stando a questa ipotesi di
”trame nere” quale è il filo che apparenta la ricerca
artistica di Hitchcock a quella psicoanalitica di Lacan ?
Una
risposta possibile, ma da interrogare a sua volta come tale,
potrebbe essere la seguente: il desiderio di svelare il segreto
del femminile, il primo costruendolo e ricostruendolo per poi
metterlo a morte, il secondo allucinandone il corpo muto e
silenzioso, a immagine somiglianza di un Dio
inesistente, cancellandone così, con un’operazione di
apparente omaggio, come avviene nell’amor cortese, l’effettiva
pregnanza simbolica e reale.
La
donna non esiste, dice Lacan, proprio come Dio: così come Dio, la
donna non è che il prodotto dell’immaginario di chi su questa
inesistenza può costruire il suo testo. Come lascia cogliere il
discorso latente che tesse la trama sia
di questo film che di questa scrittura.
Rileggiamo
a questo punto la conclusione del capitolo VI di Ancora (J. Lacan
[1972-73], Il
Seminario. Libro XX, Ancora, Einaudi, 1983).
“Oggi
mi metterò piuttosto a mostrarvi in che senso esiste appunto il
vecchio buon Dio (…). Questo Altro, se non ce n’è che uno
solo, deve pur avere qualche rapporto con
quel che appare dell’altro sesso…”(
sottolineatura e corsivo miei).
Prendiamoci,
come donne, questo, che in fondo risulta essere, insieme, una
blasfemia e un omaggio.
Ma
mi viene da dire, a questo punto, per concludere con Woody Allen:
“Dio è morto e neppure io mi sento tanto bene”.
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