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Nicole
Janigro è nata a Zagabria (Croazia) e vive a Milano, è psicologa,
psicoterapeuta ed analista di formazione junghiana,
fa parte dell’associazione “Laboratorio analitico delle immagini”
(L.A.I.). Collabora a progetti di formazione legati al tema dell’
elaborazione del conflitto, rivolti a volontari e operatori attivi
sul campo nelle aree di crisi della ex Jugoslavia. Ha in corso una
ricerca su sogno e guerra. Ha svolto attività giornalistica ed
editoriale, è autrice di L’esplosione delle nazioni (Feltrinelli
1993,1999), ha curato il Dizionario di un paese che scompare.
Narrativa dalla ex Jugoslavia (manifestolibri 1994),
l’antologia Accadde a Sarajevo (Edizioni Scolastiche B.
Mondadori 1996), Vivere altrimenti, guida alle comunità
alternative in Italia e nel mondo (con G.Ciuffreda, Pratiche
1997), l’antologia di narrativa Non troppo uguali.
Storie di identità e differenze (con R.Cacciatori, Edizioni
Scolastiche B.Mondadori 1999), La guerra moderna come malattia
della civiltà, (Bruno Mondadori, Milano 2002),
Casablanca serba. Racconti da Belgrado, (Feltrinelli,
Milano 2003). Ha tradotto Il centro del mondo (il
Saggiatore 1995) e Il divano orientale (il Saggiatore 1997)
di Dzevad Karahasan e Il ruolo della mia famiglia nella
rivoluzione mondiale di Bora Cosic (edizioni e/o 1997).
Il presente articolo uscirà sul numero 13
(novembre 2008) di "EIDOS. Cinema, psyche e arti visive", dedicato
al tema di "Cinema e violenza". Si ringrazia sentitamente i
responsabili editoriali della rivista per la gentile
disponibilità. |
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Sale su un treno,
passa su un camion, poi continua a piedi, il fazzoletto in testa, la
borsa e la sporta sempre accanto. Sbuffa e si irrita, suda e si
appisola, la sua presenza, massiccia e ingombrante, è un carico
speciale in viaggio verso un fronte. Alexandra è una nonna che
ha ottenuto il permesso di fare visita al nipote ufficiale, una
presenza incongrua tra i soldati in divisa e i loro spostamenti
rapidi. Attenta, curiosa, osserva il mondo nuovo che si trova intorno,
sono i suoi occhi la macchina da presa che inseguirà ogni particolare
di un film sulla guerra dove la guerra rimane fuori campo. Sarà il suo
sguardo a diventare il protagonista capace di
far sentire allo
spettatore il gravame di ogni conflitto – “la
fame, i parassiti, il fango, e quei rumori pazzeschi” (Otto Dix) -, a
farlo inciampare, come accade a lei, nell’insormontabilità dei corpi.
A spostare la sua attenzione dal visibile delle immagini all’intuibile
dell’immaginazione.
Quando finalmente
raggiunge l’accampamento, in una tenda trova il nipote addormentato, i
piedi sporchi, segni che fanno pensare ad una ferita. Nonostante le
mostri che la sua figura non ha nulla del guerriero, il suo sonno
indifeso è quello di un bambino. E così la nonna lo affronta,
assillandolo con preoccupazioni quotidiane, che cosa mangi, dove ti
lavi – come se la cura del proprio corpo potesse rallentare il
processo evidente della sua disumanizzazione. Il campo militare è uno
spazio claustrofobico, i soldati sembrano prigionieri di un labirinto
nel quale è facile perdere l’orientamento, la fotografia decolorata e
seppiata sottolinea una natura fatta di polvere. Fuori – il territorio
nemico – è diviso solo da una sbarra. Aleksandr Sokurov, figlio di un
militare, ci porta the war inside – prima di rimontare il film
al computer ha girato in Cecenia. Le parti in causa non vengono mai
nominate, ma le rovine di Grozny urlano di sofferenza. Convinto che
“la guerra sia il massimo livello del degrado umano”, il regista non
la mostra dall’alto degli elicotteri in missione, ma dal basso, dai
piedi della nonna che, prima uno poi l’altro, scende dal carro armato
del nipote capitano stupita dalle ristrettezze del blindato.
Alexandra è la baba di tante fiabe slave, la vecchia saggia
alla quale si deve rispetto, la sua figura condensa il dolore infinito
delle madri in visita ai figli in guerra. E il gesto con il quale il
nipote prende in braccio la nonna evoca le
inquadrature di Madre e figlio (Sokurov, 1997), il figlio che
solleva la madre, malata e sofferente, che vorrebbe ancora poterlo
proteggere, come quando era piccolo. E qui è il nipote che ricorda
alla nonna la sua passata severità e durezza. Ora, però, è lui, l’uomo
giovane, che pettina la donna vecchia in una scena dalla fisicità
struggente – la morte è vicina a entrambi.
Alexandra è interpretata dalla grande artista Galina Vishnevskaja,
soprano famosa e moglie del violoncellista Mstislav Rostropovic – alla
loro vita e alle loro battaglie comuni contro il regime sovietico
Sokurov ha dedicato il film Elegia della vita. E sul set del
campo militare Galina Vishnevskaja si muove con la sicurezza di chi ha
trascorso tutta un’esistenza sul palcoscenico, di chi non teme il
rischio e possiede quell’autorevolezza che consente di ficcare il naso
dappertutto. Infatti sfugge alla sorveglianza dei militari che un po’
la coccolano un po’ la sorvegliano, e riesce a sgusciare all’esterno
della zona (difficile non pensare ai tratti comuni al cinema di
Tarkovskij, del quale Sokurov è stato allievo). Dentro non si notano
le distruzioni inflitte al paesaggio esterno, dove una sorta di
imitazione della vita sopravvive fra gli scheletri dei palazzi
sventrati. Nel suo curiosare
pronto a incontrare
l’altro, la russa incrocia una simile, un’altra vecchia signora, la
maestra cecena Malika, anche lei con il fazzoletto in testa, che nella
sua casa disastrata le offre un tè. Non ci sono molte parole per dire
lo scempio, solo la frase: “Quando guardiamo i soldati russi sembrano
piccoli, come ragazzini”. Le due si scambiano gesti minuti, sono i
riti antichi dell’ospitalità, Alexandra invita Malika a farle visita
quando farà ritorno a casa, nello spazio infinito della Grande madre
Russia.
L’evento bellico, relegato nello schermo durante i decenni della
guerra fredda, occupa il centro della scena internazionale. E anche il
cinema cerca nuovi modi per rappresentarlo. L’esibizione della morte e
della violenza è oggi incredibilmente amplificata dalla sua
trasmissione visiva che pone al centro l’esposizione del corpo: il
corpo maciullato, il corpo del nemico ucciso per terrorizzare chi
resta, la mutazione del corpo del guerriero, sempre più vicino a un
robot imbottito di psicofarmaci. Fedele alla sua ricerca di
spiritualità delle immagini, Sokurov crea un amalgama originale di
etica ed estetica che riesce a trasformare una visione di guerra in
uno stato interiore. E Alexandra, una Anna Magnani slava,
riesce a diventare un simbolo, una figura femminile la cui presenza
non indica l’insostenibile leggerezza della violenza, come appare
negli accostamenti audaci dei media fra le scollature delle inviate e
i cadaveri per terra, ma esalta la necessità biologica di curare la
vita.
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