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    "IDENTITA' E CAMBIAMENTO. Lo spazio del soggetto"

 

Resoconto di Enrica Guarascio del XIV Congresso della Società Psicoanalitica Italiana (23-25 maggio 2008)

 

 Enrica Guarascio è psicologa e psicoterapeuta in servizio presso il Dipartimento di Salute Mentale dell'A.S.L. di Lecce.

 

 

 

 


 

 

 

 

        

           

 

Il 23, 24 e 25 maggio 2008 si è tenuto a Roma il XIV Congresso della Società Psicoanalitica Italiana dal titolo “Identità e cambiamento- Lo spazio del soggetto”.

            In assoluta continuità con le Giornate Italiane su “I disagi della civiltà” (Roma, febbraio 2005) il Congresso di questi giorni ne ha costituito l’ulteriore sviluppo interrogandosi sui cambiamenti che le trasformazioni socio-culturali portano nella stanza di analisi, e in termini di nuove forme di sofferenza psichica, le nuove patologie identitarie, e in relazione alle nuove forme dell’ethos sociale.

            La formula inaugurata dalla SPI nell’organizzare il Congresso ha visto impegnati tra i relatori esperti di altre discipline e nel pubblico anche non analisti, essendo la partecipazione aperta a psicoterapeuti, studenti in formazione, persone di cultura e studiosi di discipline affini.

            Nel tentativo di far lavorare le teorie analitiche nel dialogo tra mondo interno e mondo esterno e di riflettere sul difficile rapporto psicoanalisi-cultura, esigenza centrale rimane la comprensione delle nuove configurazioni identitarie, compresa quella dello psicoanalista. Riguardo all’importanza di quest’ultima, R. Kaes ha sottolineato come tra gli elementi costitutivi della seduta analitica, oltre al paziente, siano determinanti le figure dell’analista e dell’analista dell’analista, e la comunità analitica di appartenenza dello stesso.

            Se è vero che l’identità personale non è una struttura, ma rappresentazione di sé e che il processo di soggettivazione avviene per integrazione successiva di varie oggettivazioni in cui il soggetto si identifica, la psicoanalisi è innanzitutto smantellamento identitario. Essa sottrae la vecchia identità allo spazio di ripetizione attraverso il processo di riflessione - senza voler nulla produrre o affermare perché svincolata dall’ideologia - e così facendo strappa la giubba di pagliaccio dell’identificazione per ridare libertà all’individuo. Assumere il processo del sogno come strumento significa abbandonare la razionalità che fonda il racconto e con ciò l’identità ( F. Riolo).            Identità che procede in uno scambio continuo tra sé e non sé, attraverso equilibri dinamici e provvisori. Come dire, con parole di L. Russo, che “l’equilibrio identitario si fonda su una stabilità instabile, che cambia e si conserva invariante nella relazione dinamica tra l’essere che è rispecchiato (identificazione primaria) ed il divenire che viene riconosciuto (identificazioni secondarie e terziarie). Nelle vicissitudini identitarie l’equilibrio si può rompere per due ordini di motivi: o l’essere si blocca e rimane un nucleo astorico e scisso dal resto della personalità, in mancanza di un rispecchiamento,…o il divenire cancella l’essere producendo la follia maniacale del diventare ogni nome della storia.   

            In un’epoca in cui ci si incontra con processi identitari di eccessiva fluidificazione, all’insegna di frammentazioni in ectopie da svelare, o al contrario di eccessiva rigidità in solidificazioni di status-feticci; in cui il terrore è quello di riconoscersi con le proprie contraddizioni; in cui ci si rifugia in comportamenti collettivi con caratteristiche di difesa patologica, che mentre superficialmente proteggono dall’ansia, a livello più profondo danneggiano il nucleo primitivo del sé, prima isolato e poi progressivamente corroso; in cui il normale meccanismo del sentire dolore psichico e del cercare aiuto è bloccato, la trasformazione perseguita attraverso la parola dell’analisi mira soprattutto al riconoscimento di sé, al dolore di sé, alla tolleranza di sé, frammento non creato, ma dato, nucleo insopprimibile di ciò che non è stato. Poiché se da una parte siamo la casa che abitiamo, dall’altra siamo anche ciò che non siamo divenuti. E ciò che non è ancora rappresentazione o non lo è più pone il compito dei resti psichici da recuperare con l’analisi, ma anche il ritorno di elementi che irrompono. Ciò che distrugge la casa che abitiamo ci può riportare a casa poiché i resti non sono rovine inerti, ma hanno a che vedere con uno sguardo nuovo, con una visione dinamica.   

            “Perché ci sia veramente un dentro, bisogna che possa aprirsi su un fuori, per accoglierlo in sé… Tra le rive del Medesimo e dell’Altro, l’uomo è un ponte.” Con questa citazione di J.P. Vernant, inscritta sul ponte che collega Strasburgo a Kehl, A. Ferruta ha introdotto la sua relazione sul 'crossing the bridge' tra soggetto e ambiente, passaggio da un dentro a un fuori che avviene in uno spazio intersoggettivo, in luoghi che il soggetto non ha costruito ma che ha trovato e che gli sono stati trasmessi. L’andare verso l’altro col corpo, la parola ed il desiderio è un lavoro dinamico di assimilazione della realtà esterna al soggetto e non di adeguamento e sottomissione. L’intermedio di Winnicott è il tragitto, viaggio nello spazio, legato al tempo, in progressione verso l’esperienza vissuta.

            E gli stessi psicoanalisti oggi si devono disporre a creare un metodo che consenta di arrivare a contaminazioni feconde da parte di altri ambiti del sapere. Cambiamenti nella teoria, nella tecnica e nella formazione, che tengano conto del territorio dell’intermedio, possono portare a sospendere il giudizio di realtà e a fare entrare la realtà dell’altro nella costruzione del soggetto psicoanalitico. La psicoanalisi è scienza di frontiera, ma in questo non perde la propria identità. Il confronto con altre discipline confinanti come l’antropologia, la filosofia, la semiologia e le neuroscienze possono introdurre trasformazioni che certamente non disarticolano l’identità del pensiero analitico il cui specifico rimane pur sempre quello di riconoscere tra i fili, l’ordito nel tessuto dei discorsi  dell’uomo e sull’uomo (F. Riolo).

            Il fatto stesso che “identità” sia un concetto nato in campo filosofico e non sia mai divenuto centrale in Freud la dice lunga sulle contaminazioni cui il campo del sapere analitico è esposto e di cui si deve fare carico, interrogandosi sull’uso che di questi costrutti si fa in psicoanalisi e creando uno statuto che li fondi (P. Campanile). Le contaminazioni sono un dato di fatto e la loro presunta pericolosità può essere superata se non ci si mette nell’ottica di addomesticarle, ma piuttosto di gestire le loro dirompenti incursioni.

            Cosa vuol dire oggi riflettere sulla natura umana, alla luce delle modificazioni introdotte dalla coabitazione con le macchine? A quale idea di natura umana ci riferiamo a fronte di tutte le atrocità e le violenze di oggi, epoca in cui la gratuità del male nel comportamento collettivo esula dal patologico? Quali le domande sull’ “umanità”non solo rispetto a quello che l’uomo è in grado di fare, ma anche a quello cui l’uomo è in grado di assistere senza reagire? Cosa può resistere di solido in una realtà così fluida in cui anche il biologico muta velocemente? Come si trasforma l’umano? E la psicoanalisi, che si situa tra psiche e corporeo, quale compito ha oggi?

            A queste domande hanno cercato di dare risposta l’antropologo Marc Augé, l’epistemologo Marco Ceruti, il semiologo Paolo Fabbri.

            Il primo, partendo da una demistificazione dei fondamenti dello strutturalismo che <<rafforza sociologicamente quanto invece smonta intellettualmente>>, ha ben evidenziato lo stretto legame esistente fra costruzione dell’identità ed elaborazione della relazione, tra costruzione del medesimo e costruzione dell’altro, rintracciando nello studio di alcune popolazioni africane, una “forma elementare” che  consente di interrogarci sulle nuove forme di identità legate allo sviluppo della globalizzazione tecnologica, ben riassunte nella comparsa delle nozioni di “identità digitale” e di “non luoghi” del web.

            Il secondo ha proposto la considerazione di come l’identità umana non sia emersa una volta per tutte, come un’essenza definita, compiuta e definitiva, ma sia nata più volte. Al termine di una lunga serie di eventi lungo il processo evolutivo l’affermazione dell’homo sapiens sapiens segna l’avvento di una specie sicuramente né solida né matura, quanto piuttosto caratterizzata da una costruttiva incompiutezza. Siamo diventati uomini, non lo siamo nati: siamo il frutto di un esperimento evolutivo dovuto a condizioni sicuramente non benevole che ci colloca in una posizione di solitudine rispetto alle altre specie. L’osservazione ricorsiva di cui l’uomo è capace ha fatto sì che l’ambiente facesse il cervello tanto quanto il cervello facesse l’ambiente.

            Siamo frutto di un doppio esilio: un esilio ambientale, risultato di una condizione di disadattamento nel passaggio obbligato dalla foresta calda dei nostri antenati alla savana ed alle aree fredde del mondo, che segna la nostra memoria collettiva; un esilio interiore, che coincide con la nascita del linguaggio e del simbolico. L’emergenza del simbolico è evento sconvolgente nella storia naturale e attributo fondamentale del simbolico è quello di raccontare il senso di separazione dalla natura.

           

 

            Il terzo, partendo dal sostenere che le scienze, lungi dall’essere esaustive sono riduzioniste e che il post-positivismo moderno mentre permette di riconoscere l’autonomia di ogni individuo, non permette ancora di parlare di individualizzazione psichica, basata sulla reciprocità, ha approfondito proprio l’aspetto della simbolizzazione linguistica, legata a come il soggetto si definisce nel mondo.

            Ci sono sistemi simbolici che non danno ragione del linguaggio: un sistema rappresentativo del linguaggio non è solo forma ma è un sistema di forze. Spostando le forze si introducono delle trasformazioni. Il linguaggio, inoltre, non è solo rappresentazione mentale, ma riguarda sia un livello di identità personale che un livello di identità narrativa. Nell’atto del linguaggio il soggetto si enuncia oltre ad enunciare qualcosa o delle relazioni. Il linguaggio è un gesto di autoenunciazione ed in questo è reale, non è un atto rappresentazionale.

            La costruzione dell’ io-tu di cui si occupa la fenomenologia del linguaggio è un atto reale e non simbolico: l’io-tu è  relazionalità. Il concetto stesso di personalità si pone tra l’identità costruita nell’io-tu rispetto all’impersonale del rapporto con il terzo che è in un altro statuto semantico. Come si passa dall’io-tu, dalla soggettivazione, all’impersonale, alla collettività, e viceversa? E’ questo il luogo fondamentale della trasformazione. Ma mentre in passato la linguistica sintattica identificava il cambiamento lungo la dimensione continuo-discontinuo, oggi la linguistica ha preso in esame l’intonazione, la sonorità e colloca la trasformazione su una dimensione di continuità turbolenta.     

           

                     

               

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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