1.
Umiliazione
La tendenza a vedere se stesso
come importante e potente, come il punto focale delle deliberate
macchinazioni altrui, piuttosto che vulnerabile vittima di circostanze
esterne, fa comprendere il legame emotivo che si è più volte
ipotizzato essere all'origine delle dinamiche paranoidi: l'esperienza
infantile di ripetute umiliazioni che non hanno potuto essere evitate
nella realtà o persino definite con un nome (Meissner, 1978) e che, di
conseguenza, non sono state elaborate. <<Queste esperienze>> afferma
la McWilliams <<vanno al di là della comune vergogna e comportano un
elemento di "uccisione dell'anima" o l'induzione di una grave
confusione sui limiti tra sé e gli altri>>.
Foto: R.D. Laing
R.D. Laing ha sottolineato la
negatività della distruttività di quelle famiglie che non solo
umiliano i figli ma li fanno anche sentire complici della loro
mortificazione. <<Se si è stati incessantemente umiliati per aver
sperimentato sentimenti, desideri, impulsi, conflitti ed errori comuni
a tutti gli esseri umani>> afferma la McWilliams <<si sviluppa un
forte bisogno di negare tali aspetti della vita psicologica e di
vederli come esterni a sé piuttosto che interni>>. Difficile è
comprendere per l'analista la confusione e lo smarrimento con cui tali
pazienti accolgono i suoi tentativi di entrare in empatia con ciò che
il terapeuta stesso considera come atteggiamenti normali. Lo
psicoanalista può pensare di riconoscere in modo neutrale uno stato
emotivo normalmente comprensibile, ma il paziente si sente
insopportabilmente denigrato perché ciò che gli veniva fatto notare
nell'infanzia sulla stessa emozione era sempre colorato di disprezzo.
Le origini di questo sentimento
di umiliazione nelle caratteristiche familiari non sono del tutto
chiare. Una disposizione paranoide sembra trasmettersi da una
generazione all'altra attraverso il modellamento ed il
condizionamento, ma anche con un sottile e pernicioso processo di 'enactment'
e colpevolizzazione (secondo Adrienne Harris). Se il genitori da
bambino è stato regolarmente umiliato per una sua comune qualità
umana, egli può da grande negare quella qualità e proiettarla sul
figlio che viene allora attaccato per i sentimenti, i pensieri o gli
impulsi che il padre ha proiettato su di lui.
2. Fusione e sforzi frustranti di
separazione
Alla base delle dinamiche di
umiliazione c'è la difficoltà del genitore di permettere al bambino di
essere una persona separata. <<Se ho bisogno che mia figlia sia
depositaria della mia cattiveria>> afferma la McWilliams a mo' di
esempio <<ho un disperato bisogno di lei. Al contempo la
criticherò continuamente. Lei inevitabilmente si sentirà sia rifiutata
sia ferita e avvertirà una gran confusione su chi è, dove comincia e
dove finisce e su chi di noi sia "cattivo>>. Uno dei pazienti della
McWilliams, una persona con un alto grado di funzionamento che lottava
continuamente con reazioni paranoidi, raccontava che la madre gli
aveva confessato di avere a tal punto gradito un dipinto che egli le
aveva regalato per il compleanno da dichiarare di averlo dipinto lei
stessa e di averlo poi venduto ad un amico. La fusione psicologica di
questa madre con il figlio la proteggeva dal comprendere che il figlio
avrebbe potuto volere che lei tenesse il dipinto come un segno della
sua capacità di vedere che cosa le sarebbe potuto piacere come persona
separata. Al contrario, la madre si aspettava che lui fosse felice per
lei dal momento che aveva disposto del suo regalo così ingegnosamente.
Quando il figlio era piccolo, la donna era solita sottindere in modo
indiretto e confuso che egli fosse responsabile dei suoi episodi
depressivi. La McWilliams si accorse che questo paziente cercava di
cambiare argomento ogni volta che parlava di qualcosa di molto triste.
Quando la McWilliams gli chiese che cosa sarebbe potuto accadere se
non avesse fatto così, egli rispose: <<Posso accorgermi che ti
ferisco>>. <<Per lui era difficile pensare << afferma la McWilliams
<<che la partecipazione alla sua tristezza, che leggeva sul mio volto,
non significava che mi avesse danneggiata>>.
Foto: Nancy McWilliams
La confusione su di chi sia l'interno può essere molto sottile oppure
evidente. La McWilliams cita un collega a cui era capitato di avere in
trattamento un paziente paranoide che insisteva perché il figlio, in
assenza di sintomi, assumesse i suoi stessi farmaci antipsicotici
sulla base dell'affermazione che erano buoni per lui e quindi dovevano
essere buoni anche per il ragazzo.
Un altro collega parlava di una
famiglia affettuosamente chiamata 'i pentolacci' (potheads) perché la
loro madre paranoica insisteva perché tutti i figli portassero una
pentola da cucina in testa per proteggersi dai raggi distruttivi che
altrimenti ne avrebbero distrutto il cervello (i fratelli, che
dovevano aiutarsi l'un l'altro con l'esame di realtà, escogitarono la
strategia di nascondere le pentole nei cespugli vicino a casa loro
quando uscivano per andare a scuola). I genitori di pazienti paranoici
qualche volta assomigliano alla madre ebrea del proverbio che
proclama: <<Ho freddo, quindi mettiti un golf>>.
3. Molestie, derisione e scherno
Oltre ad imputarli emozioni ed
atteggiamenti che non corrispondono all'esperienza del bambino e poi
trattarlo come se per lui fossero evidenti, si possono menzionare
altri processi familiari che sono stati ripetutamente associati allo
sviluppo della paranoia. Molestie (spesso definite "affettuose"),
scherzi sadici di cui si nega il carattere ostile, e descrizioni di
personaggi o eventi negativi che il bambino non avrebbe potuto in
nessun modo cambiare sono state notate nei resoconti di osservatori
clinici e di ricercatori empirici (ad es. Silverman, 1991), Spyros
Orfanos riferì alla McWilliams nel 2004 (comunicazione personale) che,
a suo parere, l'alta incidenza di paranoia in Grecia sarebbe dovuta ad
un gioco in cui la madre tende del cibo verso il bambino finché con
difficoltà egli lo raggiunge e poi lo prende in giro tirandolo via.
<<Di solito, chi umilia mette in gioco una componente di scherno:
evoca nell'altro>> afferma la McWilliams <<una sua paura o un
desiderio profondo, lo espone alla sua incapacità di dominare la paura
o di soddisfare il desiderio e lo ridicolizza per la sua impotenza>>.
4. Sfiducia e disprezzo
Si è osservato che le famiglie in
cui si produce la paranoia inculcano nei figli un atteggiamento di
sospetto verso gli estranei (Meissner, 1978). Poi, durante il
trattamento, il desiderio di fidarsi e l'emergere di sentimenti di
fiducia possono essere delle esperienze terrificanti per le persone
che sono alle prese con dinamiche paranoidee. I terapeuti rimangono
spesso sorpresi dall'improvvisa volontà dei pazienti paranoidi di
interrompere il trattamento subito dopo una seduta in cui la vicinanza
e la sicurezza emotiva sembravano possibili. Il paziente sembra dire a
se stesso: <<Com'è possibile fidarsi di un 'caregiver' che ha bisogno
di umiliarci e che non riesce a distinguere tra sé e l'altro?>> E
ancora: <<Come si fa a sopravvivere senza potersi fidare di un
genitore?>> In una famiglia che alimenta la paranoia, fidarsi della
propria famiglia significa attingere a piene mani dalla propria
umiliazione, mentre viene costantemente scoraggiata la possibilità di
fidarsi degli altri. A differenza della personalità schizoide che
sembra trarre sollievo dalla distanza nonostante vi sia il desiderio
di entrare in una relazione più intima, la personalità paranoidea non
trova conforto né all'interno né all'esterno della relazione. I
pazienti paranoidi sono alle prese con un dilemma crudele: la
vicinanza con un'altra persona attiva la convinzione che le relazioni
distruggano il sé o lo inghiottano nei progetti dell'altro, mentre la
distanza crea l'angoscia di annichilimento, perché nella loro
esperienza è mancato il sostegno alla separatezza del sé.
Tra gli psicoanalisti che hanno
trasmesso un sentimento 'viscerale', e non solo una descrizione
intelletuale della sofferenza paranoide la McWilliams cita Melanie
Klein, W.R.D. Fairbairn, Harry Stuck Sullivan, Frieda Fromm-Reichmann,
Austen de Lauriers, Hrold Searles, R.D. Laing, William Meissner, Edgar
Levenson, George Atwood, Russell Meares e Bertram Karon. Nelle
conversazioni private alcuni di loro (ad es. Laing e Levenson)
attribuivano la loro capacità di empatizzare coi pazienti paranoidi a
delle proprie personali tendenza paranoidi.
Si è rilevato che le personalità paranoidi siano estremamente sensibili ai sentimenti altrui e in
particolare a quelli negati o disconosciuti. le loro 'distorsioni'
riguardano più la natura del significato che estrapolano da quanto
sentono che non la natura di quanto essi effettivamente percepiscono.
Cioé, colgono correttamente il fenomeno ma ne sbagliano
l'interpretazione.
Implicazioni terapeutiche (I): che cosa non fare |
1. Evitare di stimolare la
regressione Avendo le
personalità paranoidi questa grande sensibilità, è quasi più
importante con loro sapere cosa non si deve fare piuttosto che
stabilire cosa si deve fare. La letteratura psicoanalitica riguardante
i pazienti paranoidi mette in guardia dall'uso del lettino così come
anche qualsiasi strumento che favorisca la regressione benigna da cui
altri pazienti trarrebbero beneficio.
Messaggi o meccanismi che in seduta favorissero la regressione
potrebbero essere sentiti dal paziente paranoide come sedutivi oppure
minacciosi. Il sentirsi dipendente, come un bambino, dal
terapeuta è associato ad un sentimento di umiliazione impotente, per
cui l'invito alla regressione verrebbe vissuto con un sentimento di
vergogna intollerabile.
2. Inibire le espressioni di simpatia
L'essere troppo comprensivi e
disponibili viene accolto male dai pazienti paranoidi. Essi non hanno
esperienza della vera gentilezza e potrebbero sospettare o che il
terapeuta è un imperdonabile ingenuo oppure che stia cercando di
manipolarli per qualche fine nascosto. Oppure potrebbero prendere la
compassione come conferma di quanto sia dura ed impietosa la vita. Per
la McWilliams è questa un'area in cui le tematiche depressive proprie
di certi terapeuti mal si conciliano con la psicologia del paziente
paranoide.
Infatti, i terapeuti danno spesso
per scontato che un atteggiamento compassionevole dia conforto; al
contrario, le personalità paranoidi sono in genere disturbate da tale
atteggiamento, e questo indipendentemente dal fatto che esso
scaturisca da un sentimento più o meno genuino da parte del terapeuta.
3. Resistere all'atteggiamento di
dimostrare la propria bontà
La consapevolezza di quanto una
visione cupa del mondo sia implicita nella condizione paranoide porta
spesso i terapeuti a sforzarsi (consciamente o inconsciamente) di
mostrare il più possibile le proprie qualità positive, al fine di
evidenziare la loro differenza rispetto all'atteggiamento umiliante
della famiglia d'origine. Ma tali tentativi di presentarsi come
oggetto buono possono mettere il paziente paranoide di fronte ad una
scelta impossibile: o sentirsi umiliati dalla superiorità morale del 'buon'
terapeuta oppure sentirsi in pericolo con una persona che protegge
un'irrealistica immagine positiva di sé.
Foto: C. Rogers e R.D. Laing
La McWilliams riporta un incontro
che ci fu tra Carl Rogers e R.D. Laing (come è stato descritto da
Jenner nel libro "R.D. Laing: Creative destroyer", Cassell, London,
1997) in cui Laing, che aveva una visione paranoide del mondo, diversa
dalla visione 'depressiva' di Rogers, denigrava il rispetto che Rogers
aveva per le persone e ridicolizzava la sua buona volontà tacciandola
di essere falsa e ingenua.
Edgar Levenson (1994) ha ammonito i
terapeuti dall'entrare in competizione - inconsciamente - coi genitori
del paziente per offrirgli un'esperienza migliore. Secondo
McWilliams è preferibile cercare di raggiungere il paziente paranoide
tentando di capirlo, di incoraggiare il raccontarsi da parte del
paziente e di tollerare in se stessi e nel paziente gli intensi
affetti negativi sottostanti gli adattamenti più paranoidi.
4. Trattenersi dall'assumere una
posizione rigidamente 'neutrale'
La letteratura sulla paranoia, così
come dissuade dall'offrire un'esperienza riparativa, avverte anche di
evitare atteggiamenti troppo neutrali o astinenti da parte del
terapeuta. Gli approcci psicoanalitici classici (come ad es.,
l'interpretazione sistematica di Strachey [1946] o la "tecnica del
modello base" di Eissler [1953]) dove alle domande del paziente si
risponde con delle domande e dove il terapeuta cerca di evitare una
prematura vicinanza, hanno effetti deleteri sulle paure che il
paziente paranoide vive in relazione ai possibili significati
dell'elusività del terapeuta. Il peso centrale del tema inconscio
dell'umiliazione fa sì che il paziente paranoide si senta preso in
giro, deriso dalla riluttanza del terapeuta a rispondere a una domanda
o a una richiesta di informazioni. Per la McWilliams è probabile che
ciò abbia diffuso la convinzione tra gli analisti che i pazienti
paranoidi non siano trattabili psicoanaliticamente.
L'idea alla base della tecnica
classica è che essa favorisce la produzione di materiale profondo :
con il paziente paranoide, al contrario, le modalità standard di
mantenimento della neutralità e dell'astinenza bloccano anziché aprire
le aree affettive. Secondo la McWilliams, coi pazienti paranoidi è
importante non confondere i mezzi con i fini: l'obiettivo di arrivare
a una sempre maggiore apertura ed espressione emozionale è lo stesso
che ci diamo con qualsiasi altro paziente, ma non possiamo raggiungere
quella meta con il nostro abituale veicolo.
Implicazioni terapeutiche (II): che cosa fare |
1. Comunicare rispetto
Secondo la McWilliams probabilmente
l'atteggiamento terapeutico più critico con i pazienti paranoidi è il
rispetto. Blass (2006) ha verificato che, contariamente a ciò
che riguarda l'empatia, l'autenticità, l'accettazione non giudicante
ed altre qualità terapeutiche, non esiste alcuna discussione
sistematica riguardante il rispetto per i pazienti. Il suo studio
fenomenologico del rispetto nella situazione terapeutica (intitolato "Respect
for the patient: A qualitative study", pubblicato nel 2006 come tesi
di dottorato alla Rutgers University) arriva alla conclusione che
rispetto è un termine che si applica a una circostanza in cui si
potrebbe esercitare il proprio potere per ottenere qualche cosa
dall'altra persona, ma ci si astiene dal farlo. Il concetto implica
che il paziente paranoide debba essere accettato più come persona
competente e moralmente alla pari che solo come paziente. In altre
parole, il rispetto è l'opposto dell'atteggiamento teso ad infliggere
umiliazioni. Le interviste di Blass a terapeuti esperti hanno rivelato
che il rispetto è qualcosa con la quale essi combattono regolarmente e
che trovano più difficile dell'empatia. Esistono categorie di pazienti
(ad es. tossicodipendenti, coniugi infeeli, pedofili) per i quali è
relativamente facile provare empatia, ma difficile provare rispetto.
Poiché nell'eziologia della paranoia l'umiliazione riveste un ruolo
centrale, e poiché un controtransfert caratterizzato da derisione può
rinforzare le preoccupazioni paranoidee, il rispetto è un
atteggiamento particolarmente vitale che i terapeuti devono coltivare
in se stessi.
In un libro della McWilliams ("Psychoanalytic
diagnosis: Understanding personality structure in the clinical process",
New York, Guilford Press, 1994) è affermato che uno spirito di
uguaglianza, unitamente alla tendenza a parlare con autorevolezza,
costituisca un'attitudine particolarmente importante per terapeuti che
lavorano con pazienti paranoidi. Un tono che trasmetta sentimenti di
uguaglianza riduce la minaccia costante di umiliazione: al contempo la
volontà del terapeuta di dichiarare sentimenti, idee e convinzioni in
modo autorevole comunica che il terapeuta può assumere una posizione
di separatezza, la responsabilità dei suoi vissuti e delle sue
credenze. Il paziente paranoide potrà perciò sperare che la sua
relazione col terapeuta non replicherà i 'patterns' simbiotici e
distruttivi del passato. Inoltre, con l'uso della sua legittima
autorità, il terapeuta comunica un senso di forza che riduce il timore
inconscio del paziente per cui il terapeuta potrà essere distrutto
dalla sua onnipotente malvagità.
2. Dare esempio di schiettezza
I pazienti paranoidi richiedono una
franca onestà. Ciò non significa che il terapeuta debba comunicare
tutto ciò che gli viene in mente in modo indisciplinato, ma significa
che ogni cosa che paziente e terapeuta si dicono deve essere vera
oppure autentica in senso heideggeriano. In particolare, non si
dovrebbe fare affidamento su regole di non disvelamento per
razionalizzare l'evitamento di verità spiacevoli. Se un paziente
paranoide chiede: <<Sei arrabbiata con me?>>, non si dovrebbe
rispondere con la domanda <<Che cosa ti ha fatto pensare che lo
fossi?>> poiché tali risposte suonerebbero evasive e persino
derisorie. Seguendo il principio di fare ciò che incoraggia l'aprirsi,
coi pazienti paranoidi rispondere è meglio di non rispondere, al fine
di promuovere l'esplorazione. E' perciò probabile che risposte oneste
e credibili conducano ad ulteriori esplorazioni, contrariamente agli
sforzi di rimanere neutrali. Esse possono ad es. consistere in
risposte del tipo: <<Non sono cosciente di essere arrabbiata, ma
probabilmente hai colto che sono irritata all'idea di pagare le tasse.
Che cos ti sei trovato a pensare quando hai visto l'irritazione sulla
mia faccia?>> Oppure: <<Non sono cosciente di provare rabbia nei tuoi
confronti, ma suppongo che inconsciamente questo potrebbe avere a che
fare con miei sentimenti più accesi. C'è qualcosa per cui sospetti che
io possa essere arrabbiata?>> O ancora: <<Devo pensarci. Suppongo di
aver sentito risentimento in risposta a un tuo aver agito in modo
distruttivo. Che cosa provi nell'aver notato questo in me?>>.
Quando i pazienti paranoidi ricevono
il messaggio che il terapeuta prende in seria considerazione una loro
domanda, considerando il suo contenuto e non sottindendendo che il
paziente è matto a farla, spesso spontaneamente offrono la risposta
alla non formulata domanda classica:<<Perché ciò ti sta venendo in
mente ora?>>.
Foto: Harry Stack Sullivan
Sullivan ha notato che c'è sempre un
"aggancio", una percezione realistica a cui la persona paranoide
aggancia le sue proiezioni. Quando il terapeuta può riconoscere o
trovare quell'aggancio, il motivo preciso dell'attribuzione, allora il
paziente si sentirà liberato dall'accusa implicita di distorsione e
può esplorare senza umiliazione.
I pazienti paranoidi possono
cogliere anche i più piccoli indizi della ricerca del terapeuta di
spiegazioni razionali, o del suo abbandono ad auto-illusioni, e
possono spaventarsi delle implicazioni della più piccola disonestà
emotiva. La McWilliams racconta di essere arrivata una volta in
ritardo ad una seduta con una paziente paranoide la quale si trovava
in uno stato di panico: <<Alla fine è successo>> esclamò <<Ti ho
esaurito. Mi odi e ti vuoi liberare di me>>. La McWilliams le rispose
esponendo la motivazione cosciente del ritardo (difficoltà nel
liberarsi al telefono di una persona che l'aveva chiamata per un
appuntamento), ma la paziente divenne ancora più ansiosa dopo tale
spiegazione. Allora l'analista cercò le ragioni profonde e comprese
che la paziente aveva colto qualcosa: l'analista non era stata in
grado di liberarsi della telefonata in parte perché la paziente e
l'analista erano coinvolte in sentimenti difficili che l'analista
temeva di riaffrontare. Quando la McWilliams disse alla
paziente:<<Penso di non essere stata completamente onesta con me
stessa, pensando che il mio ritardo avesse a che fare con mie
difficoltà a chiudere la conversazione, probabilmente ha anche a che
fare con una parte di me che vuole evitare un argomento doloroso ma
importante che abbiamo toccato recentemente>>, allora la paziente si
calmò immediatamente. <<A condizione che io mi appropriassi dei miei
sentimenti negativi>> afferma testualmente la McWilliams <<poteva
arrivare a distinguere tra la mia esitazione momentanea e il totale
rifiuto che temeva. Non è stato per me facile imparare ad avere a che
fare con emozioni come queste, poiché la mia autostima come terapeuta
dipende dal sentimento di accettazione nei confronti dei pazienti e,
con una operazione paranoide, odio, e insieme voglio disconoscere la
parte di me rifiutante e sprezzante. Articolando il controtransfert e
permettendo loro di vederlo attraverso di me, spero di aiutare i
pazienti come questa donna a tollerare questi sentimenti dentro di
loro>>.
A proposito della 'self-disclosure'
la McWilliams afferma che, sebbene essa sia stata raccomandata nel
trattamento dei pazienti paranoidi, specie negli autori che si sono
rifatti alla Psicologia dell'Io e delle relazioni oggettuali (Karon &
VandenBos, 1981), tuttavia il "Super-Io professionale" di molti
terapeuti principianti prevede un fermo divieto ad ammettere
francamente qualcosa che appartiene allo stato mentale dell'analista o
alle sue reazioni controtransferali (Farber, 2006). Per la McWilliams
la "self-disclosure", che molti analisti raccomandano coi pazienti
paranoidi, può essere compresa solo se si fa riferimento al contesto
di umiliazione che, per la McWilliams, ha dato origine alle dinamiche
paranoidi. Naturalmente anche l'opportunità della 'self-disclosure' va
considerata previo un attento esame della struttura di personalità del
paziente: mentre pazienti narcisistici possono trovare intollerabile
l'autorivelazione da parte del terapeuta, vivendola come fuorviante
segno di auto-indulgenza, e mentre i pazienti isterici possono
sentirsi intollerabilmente sovrastimolati da rivelazioni
controtransferali, i pazienti paranoidi possono accettarle con
sollievo e gratitudine.
Sulla base della cronica
vulnerabilità inconscia all'umiliazione dei pazienti paranoidei, una
parte vitale del compito del terapeuta sarà quella di aiutarli a
integrare parti di sé negate e proiettate. Ostilità, avidità, invidia,
desiderio e altri affetti penosi necessitano non solo di essere
nominati e capiti in terapia, ma anche accettati come parte
inevitabile della condizione umana. Se sono solo notati e rivelati, il
paziente paranoide tende a vergognarsi e a utilizzare le solite difese
contro la mortificazione. I terapeuti coscienziosi dibattono su
come aiutare questa tipologia di pazienti a normalizzare e ad
accettare la propria esperienza interiore in modo da non odiarla e da
non avere quindi bisogno di proiettarla. Con certi pazienti
paranoidi, specie con quelli giovani o inesperti rispetto alla
psicoterapia, si può assumere un tono didattico e fare commenti
supportivi sulla normalità di aspetti odiati di sé (come fanno i
cognitivisti). Ma questa strategia rischia di rivelarsi umiliante per
altri pazienti paranoidi, in particolare per quelli psicologicamente
più sofisticati o iperattenti al rischio di essere dominati.
La soluzione che la McWilliams
prospetta al problema di come rendere più normali i sentimenti senza
mostrarsi superiore al paziente consiste nell'esporre in modo franco i
propri sentimenti e le circostanze che li hanno suscitati. Per la
McWilliams ciò va oltre la 'self-disclosure' controtransferale e può
adattarsi meglio alla sua personalità, ma non a quella di altri
analisti che possono trovare altre soluzioni. <<Ho imparato che
i pazienti paranoidi>> afferma testualmente <<possono non assumere con
facilità la normalizzazione che è implicita nell'assumere
tranquillamente un'attitudine accettante nei loro confronti ma, se
faccio capire loro chiaramente che ho provato ciò che descrivono e che
non mi odio per i sentimenti che provo, è probabile che siano in grado
di ripensare la loro vergogna e la loro riluttanza.Se mi avvicino alle
loro rivelazioni strazianti con associazioni mie che mi rivelano, il
nostro campo di gioco sembra loro meno asimmetrico. Ciò mi sottomette
all'uso che potranno fare di tali rivelazioni al servizio della loro
paranoia ("hai detto che odi la separazione, così mi aspetto che tu mi
odi per aver cancellato una seduta"), ma dato che possono usare la "non-disclosure"
nello stesso modo ("come posso sapere che tu non mi odi per aver
cancellato la seduta? Tu non sei reattivo, so che stai celando qualche
cosa"), penso che sia preferibile dare ai pazienti paranoidi
l'opportunità di internalizzare una persona che sa parlare in modo
genuino, senza vergogna dei fenomeni che sono stati umilianti da
sperimentare>>.
3. Facilitare il dolore
Poiché le persone paranoidi hanno
provato una grande vergogna per i loro sentimenti, tendono a negare e
a proiettare le emozioni dolorose piuttosto che sottoporle ad esame.
Si congelano nel tentativo di evitare ciò che potrebbe essere espresso
e superato. Di conseguenza, il fatto che il terapeuta possa
essere esplicito sul valore dei sentimenti di tristezza può essere per
loro una rivelazione. La McWilliams fa riferimento alla
concettualizazione della Klein come ad uno spostamento da una
posizione paranoide ad una depressiva. Spesso una reazione paranoide
può svanire quando il paziente diviene in grado di mettere a fuoco il
dolore che aveva cercato di ignorare. Spesso la vita delle persone
paranoidi è stata triste, e quando sono in grado di piangere con il
terapeuta per gli insulti, per i maltrattamenti e le delusioni subite,
la McWilliams confessa di sorprendersi a piangere con loro di qualche
cosa che non si dà pena di nascondere. <<L'inibire le lacrime>> dice
<<rischia di trasmettere che c'è qualche cosa di vergognoso nel
piangere>>.
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