Presentation   News Events   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS  zero 

 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

  Home Frenis Zero

        

 

 

    "TRA UMILIAZIONE E ONNIPOTENZA. Il lavoro analitico con i vissuti paranoidi"

 

Resoconto di Giuseppe Leo dell'Incontro/Confronto con Nancy McWilliams tenutosi a Roma il 7 giugno 2008 ed organizzato dalla S.I.P.Re. (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione).

 

 Nancy McWilliams insegna teoria e terapia psicoanalitica presso la "Graduate School of Applied and Professional Psychology" a Rutgers (New Jersey). E' inoltre presidente della Divisione di Psicoanalisi della "American Psychoanalytic Association" e membro della "National Psychological Association for Psychoanalysis".

  Foto: Nancy McWilliams

 

 

 


 

 

 

 

        

           

 

Il 7 giugno 2008 si è tenuto a Roma l'Incontro/Confronto con  Nancy McWilliams  organizzato dalla S.I.P.Re. Il lavoro analitico sulle dinamiche paranoidi è stato al centro dell'incontro, ed in particolare sono state esplorate le modalità di trattamento psicoanalitico rivolto a quei soggetti paranoidi ma non psicotici. La McWillims, a seguito di una domanda di un partecipante, ha fatto una precisazione importante, che vogliamo preliminarmente rammentare: in inglese non esiste la distinzione che esiste nel lessico psicopatologico italiano tra 'paranoico' e 'paranoide', quindi nel tradurre in italiano useremo solo il termine 'paranoide' che ha quindi un significato estensivo.

Preliminarmente, la psicoanalista statunitense ha rilevato come negli ultimi venti anni ci sia stata una notevole riduzione della letteratura scientifica  riguardante la descrizione di come i terapeuti concettualizzino le configurazioni di personalità dei pazienti e come tali concettualizzazioni influenzino il  lavoro con loro. Anche la letteratura sulla ricerca clinica, tranne poche e lodevoli eccezioni (ad es., Blatt, 2008; Wallin, 2007), non sembra dedicare una diffusa attenzione alla relazione tra variabiliella personalità e tipo di esito psicoterapeutico. Secondo la McWilliams questa minore attenzione rivolta dalla letteratura psicoanalitica alle differenze individuali ed alla loro rilevanza nel trattamento sembra andare di pari passo con una sempre maggiore enfasi posta sul processo terapeutico in sé. Naturalmente, l'avvento del DSM nella metà degli anni '70 ha influenzato questo modo di lavorare dei ricercatori. La maggior parte dei ricercatori che studiano gli esiti della psicoterapia ha infatti privilegiato non le differenze di personalità e le conseguenti dinamiche, bensì le categorie sindromiche descritte dal DSM, che è diventato lo strumento principale per studiare "che cosa funziona per chi "( Roth & Fonagy, 1996). Lo standard 'aureo' della ricerca attuale sugli esiti delle psicoterapie consiste nell'effettuare sperimentazioni controllate randomizzate (RCTs) di terapie di tipo diverso riguardanti pazienti con diagnosi confrontabili con il DSM. Tuttavia, come hanno evidenziato anche Zuroff e Blatt (2006), una tale strategia presenta dei problemi. Molte ricerche hanno infatti dimostrato che:

a)  i fattori personali (nel terapeuta e nel paziente) e

b) la qualità della relazione terapeutica

hanno una maggiore predittività sull'esito della psicoterapia rispetto al confronto tra le sindromi del DSM ed il tipo di intervento (Blatt & Hilsenroth, 2003; Norcross, 2002; Wampold, 2001; Zuroff & Blatt, 2006).

Di conseguenza, ha affermato la McWilliams durante l'incontro romano, la tradizionale attenzione rivolta dalla psicoanalisi alle differenze individuali ed ai problemi relazionali si è dimostrata fondata.

Nella relazione che la McWilliams ha presentato a Roma, intitolata "Stati paranoidi della mente in pazienti ad alto funzionamento: la relazione analitica nelle dinamiche di umiliazione", l'autrice, pur essendo una delle esponenti più insigni dell'approccio relazionale in psicoanalisi, tuttavia afferma che nei pazienti con dinamiche paranoidi resta intatta l'utilità dell'analisi dei processi intrapsichici di persone che presentato caratteristiche psicologiche simili, nonché l'importanza di chiedersi il significato che le conoscenze ricavate possono avere per la psicoterapia. La McWilliams riassume il proprio lavoro come quello di una riflessione fenomenologica sulle differenti organizzazioni psicologiche e sulle loro implicazioni terapeutiche, comune ad altri studiosi che cercano di comprendere e aiutare persone che, per quanto diverse tra loro, si collocano all'interno di un certo 'range' di problemi.

Analogamente a quanto la McWilliams ha rilevato per i pazienti schizoidi (McWilliams, 2006), ella pensa che coloro che si occupano di salute mentale abbiano patologizzato la paranoia al di là del dovuto invece di vederla come un continuum che va da un funzionamento mentale normale ad un disturbo grave. Certamente, le persone la cui paranoia è abbastanza grave da essere diagnosticata come un disturbo di personalità o una condizione psicotica soffrono molto e vivono una realtà interiore tristissima. La paranoia è più visibile nella condizione psicotica ed il suo costo sociale può essere molto alto. Molte persone paranoidi combattono con la psicosi e le dinamiche paranoidi nei leaders e nei loro seguaci possono devastare l'ordine sociale.

Eppure molti pazienti vengono da noi con delle versioni meno gravi delle dinamiche paranoidi, non hanno mai avuto un episodio psicotico e chiedono al terapeuta comprensione e riconoscimento per la loro specifica patologia. Nel seguito, la McWilliams menzionerà le varie sindromi paranoidi descritte dalla psichiatria descrittiva sin dai suoi esordi, per poi passare in rassegna le osservazioni cliniche di alcuni studiosi che hanno descritto questi quadri in vista della definizione di probabili eziologie, funzioni, significati ed impatti soggettivi. Infine, la McWilliams finirà per discutere le implicazioni per il trattamento.

<<Più di altri pazienti>> afferma la McWilliams, <<le persone che combattono con la paranoia hanno bisogno di significative deviazioni da ciò che è comunemente considerata la tecnica psicoanalitica convenzionale>>. Ella porta a sostegno di tale tesi i lavori di Anthony (1981), di Laing (1965), di Meissner (1978), di Oldham & Bone (1997), ma le sembra che negli ultimi decenni tale posizione sia andata perduta. <<In una cultura così attratta dalla soluzione facile di problemi e dalla risoluzione chimica dei sintomi, tutte tendenze viste con profondo sospetto dai clienti paranoidi>> afferma testualmente <<può essere particolarmente importante occuparsi di questo tipo di pazienti e delle loro specifiche esigenze>>.

           

         

Sindromi paranoidi diagnosticabili

 

Il termine 'paranoide', persino tra i professionisti della salute mentale, viene spesso usato come sinonimo di 'timoroso' o di 'irragionevolmente sospettoso', ma il suo significato, in particolare in ambito psicoanalitico, è ben più specifico. Nel 1896 Freud identificò la proiezione come caratteristica specifica della sindrome che Kraepelin aveva indicato come paranoia. Poiché la proiezione è sempre presente nella vita psichica di ciascuno di noi, ciò che tradizionalmente viene definito paranoia non comporta solo la proiezione, ma anche la negazione, la formazione reattiva, il diniego e altre operazioni di disconoscimento. In alcuni pazienti paranoidi, a motivo del grado di rigidità delle difese di disconoscimento e dell'intensità della vergogna che li suscita, la proiezione contro l'investigazione collaborativa e contro i processi emotivi su cui si basa la psicoterapia può sembrare molto più forte. A questo punto la McWilliams passa a enunciare i punti deboli del DSM riguardo al Disturbo Paranoide di Personalità. Innanzitutto, il DSM descrive le personalità paranoidi come se dovessero essere collocate all'estremità più disturbata dello spettro della salute mentale. Conseguentemente, dinamiche paranoidi centrali in pazienti con una più sottile paranoia caratteriale possono non essere prese in considerazione dai clinici che si attengono scrupolosamente ai criteri del DSM.  Inoltre, il DSM manca di una categoria che preveda le reazioni paranoidi non psicotiche o dinamiche o stili di personalità che siano insufficienti per essere classificate come disturbi di personalità. Ancora, il manuale DSM non differenzia in modo adeguato gli individui con un reale disturbo di personalità e quelli che invece vivono in quelle situazioni croniche di stress che provocano reazioni paranoidi potenzialmente in chiunque (si pensi alle profonde e ripetute umiliazioni subite da parte di soggetti da cui si è dipendenti). Da ultimo, il DSM si riferisce ad un solo tipo di funzionamento paranoide, quello persecutorio.

Ma la McWilliams precisa che, a seconda di ciò che è proiettato e negato, i sintomi paranoidi sono molto diversi. L'ansia persecutoria e i comportamenti correlati (che i più e il DSM considerano tipici della paranoia) costituiscono solo una delle manifestazioni del funzionamento paranoide. Nelle persone preoccupate dal timore di attacchi, ciò che viene proiettato e negato comprende affetti di rabbia, tendenze ostili e impulsi aggressivi. <<Se odio il mio capo e lo voglio colpire, ma non sopporto di essere consapevole di questi miei impulsi perché li considererei la prova di una grave perversione del mio animo>> afferma la McWilliams <<posso negarli in me, proiettarli sul capo e quindi preoccuparmi dei modi in cui potrebbe colpirmi. Se non posso sopportare i miei sentimenti di competizione verso un amico, posso credere che egli mi invidi e stia per attaccarmi>>. E' questo processo di ostilità e di competizione negate e proiettate che spiega la sfiducia, la sospettosità e la reticenza che costituiscono l'aspetto centrale della definizione della paranoia del DSM.

Oltre all'ansia persecutoria, anche l'odio paranoide, l'erotomania, la gelosia paranoide, la megalomania e la proiezione delle intenzioni possono essere l'aspetto centrale di un quadro paranoideo. L'odio paranoide, in particolare, si manifesta quando qualità negative colorate di forti sentimenti di disprezzo vengono proiettate sugli altri e, contemporaneamente, il disprezzo verso se stessi e la paura vengono negati. Nell'odio paranoide il senso di minaccia proveniente dagli altri è meno consapevole o più razionalizzato rispetto alle dinamiche persecutorie.

 

 

 Eziologie, funzioni, significati e conseguenze soggettive della paranoia
 

1. Umiliazione

La tendenza a vedere se stesso come importante e potente, come il punto focale delle deliberate macchinazioni altrui, piuttosto che vulnerabile vittima di circostanze esterne, fa comprendere il legame emotivo che si è più volte ipotizzato essere all'origine delle dinamiche paranoidi: l'esperienza infantile di ripetute umiliazioni che non hanno potuto essere evitate nella realtà o persino definite con un nome (Meissner, 1978) e che, di conseguenza, non sono state elaborate. <<Queste esperienze>> afferma la McWilliams <<vanno al di là della comune vergogna e comportano un elemento di "uccisione dell'anima" o l'induzione di una grave confusione sui limiti tra sé e gli altri>>.

  Foto: R.D. Laing

 

R.D. Laing ha sottolineato la negatività della distruttività di quelle famiglie che non solo umiliano i figli ma li fanno anche sentire complici della loro mortificazione. <<Se si è stati incessantemente umiliati per aver sperimentato sentimenti, desideri, impulsi, conflitti ed errori comuni a tutti gli esseri umani>> afferma la McWilliams <<si sviluppa un forte bisogno di negare tali aspetti della vita psicologica e di vederli come esterni a sé piuttosto che interni>>. Difficile è comprendere per l'analista la confusione e lo smarrimento con cui tali pazienti accolgono i suoi tentativi di entrare in empatia con ciò che il terapeuta stesso considera come atteggiamenti normali. Lo psicoanalista può pensare di riconoscere in modo neutrale uno stato emotivo normalmente comprensibile, ma il paziente si sente insopportabilmente denigrato perché ciò che gli veniva fatto notare nell'infanzia sulla stessa emozione era sempre colorato di disprezzo.

Le origini di questo sentimento di umiliazione nelle caratteristiche familiari non sono del tutto chiare. Una disposizione paranoide sembra trasmettersi da una generazione all'altra attraverso il modellamento ed il condizionamento, ma anche con un sottile e pernicioso processo di 'enactment' e colpevolizzazione (secondo Adrienne Harris). Se il genitori da bambino è stato regolarmente umiliato per una sua comune qualità umana, egli può da grande negare quella qualità e proiettarla sul figlio che viene allora attaccato per i sentimenti, i pensieri o gli impulsi che il padre ha proiettato su di lui.

2. Fusione e sforzi frustranti di separazione

Alla base delle dinamiche di umiliazione c'è la difficoltà del genitore di permettere al bambino di essere una persona separata. <<Se ho bisogno che mia figlia sia depositaria della mia cattiveria>> afferma la McWilliams a mo' di esempio  <<ho un disperato bisogno di lei. Al contempo la criticherò continuamente. Lei inevitabilmente si sentirà sia rifiutata sia ferita e avvertirà una gran confusione su chi è, dove comincia e dove finisce e su chi di noi sia "cattivo>>. Uno dei pazienti della McWilliams, una persona con un alto grado di funzionamento che lottava continuamente con reazioni paranoidi, raccontava che la madre gli aveva confessato di avere a tal punto gradito un dipinto che egli le aveva regalato per il compleanno da dichiarare di averlo dipinto lei stessa e di averlo poi venduto ad un amico. La fusione psicologica di questa madre con il figlio la proteggeva dal comprendere che il figlio avrebbe potuto volere che lei tenesse il dipinto come un segno della sua capacità di vedere che cosa le sarebbe potuto piacere come persona separata. Al contrario, la madre si aspettava che lui fosse felice per lei dal momento che aveva disposto del suo regalo così ingegnosamente. Quando il figlio era piccolo, la donna era solita sottindere in modo indiretto e confuso che egli fosse responsabile dei suoi episodi depressivi. La McWilliams si accorse che questo paziente cercava di cambiare argomento ogni volta che parlava di qualcosa di molto triste. Quando la McWilliams gli chiese che cosa sarebbe potuto accadere se non avesse fatto così, egli rispose: <<Posso accorgermi che ti ferisco>>. <<Per lui era difficile pensare << afferma la McWilliams <<che la partecipazione alla sua tristezza, che leggeva sul mio volto, non significava che mi avesse danneggiata>>.

Foto: Nancy McWilliams

 

 

La confusione su di chi sia l'interno può essere molto sottile oppure evidente. La McWilliams cita un collega a cui era capitato di avere in trattamento un paziente paranoide che insisteva perché il figlio, in assenza di sintomi, assumesse i suoi stessi farmaci antipsicotici sulla base dell'affermazione che erano buoni per lui e quindi dovevano essere buoni anche per il ragazzo.

Un altro collega parlava di una famiglia affettuosamente chiamata 'i pentolacci' (potheads) perché la loro madre paranoica insisteva perché tutti i figli portassero una pentola da cucina in testa per proteggersi dai raggi distruttivi che altrimenti ne avrebbero distrutto il cervello (i fratelli, che dovevano aiutarsi l'un l'altro con l'esame di realtà, escogitarono la strategia di nascondere le pentole nei cespugli vicino a casa loro quando uscivano per andare a scuola). I genitori di pazienti paranoici qualche volta assomigliano alla madre ebrea del proverbio che proclama: <<Ho freddo, quindi mettiti un golf>>.

 

3. Molestie, derisione e scherno

Oltre ad imputarli emozioni ed atteggiamenti che non corrispondono all'esperienza del bambino e poi trattarlo come se per lui fossero evidenti, si possono menzionare altri processi familiari che sono stati ripetutamente associati allo sviluppo della paranoia. Molestie (spesso definite "affettuose"), scherzi sadici di cui si nega il carattere ostile, e descrizioni di personaggi o eventi negativi che il bambino non avrebbe potuto in nessun modo cambiare sono state notate nei resoconti di osservatori clinici e di ricercatori empirici (ad es. Silverman, 1991), Spyros Orfanos riferì alla McWilliams nel 2004 (comunicazione personale) che, a suo parere, l'alta incidenza di paranoia in Grecia sarebbe dovuta ad un gioco in cui la madre tende del cibo verso il bambino finché con difficoltà egli lo raggiunge e poi lo prende in giro tirandolo via. <<Di solito, chi umilia mette in gioco una componente di scherno: evoca nell'altro>> afferma la McWilliams <<una sua paura o un desiderio profondo, lo espone alla sua incapacità di dominare la paura o di soddisfare il desiderio e lo ridicolizza per la sua impotenza>>.

4. Sfiducia e disprezzo

Si è osservato che le famiglie in cui si produce la paranoia inculcano nei figli un atteggiamento di sospetto verso gli estranei (Meissner, 1978). Poi, durante il trattamento, il desiderio di fidarsi e l'emergere di sentimenti di fiducia possono essere delle esperienze terrificanti per le persone che sono alle prese con dinamiche paranoidee. I terapeuti rimangono spesso sorpresi dall'improvvisa volontà dei pazienti paranoidi di interrompere il trattamento subito dopo una seduta in cui la vicinanza e la sicurezza emotiva sembravano possibili. Il paziente sembra dire a se stesso: <<Com'è possibile fidarsi di un 'caregiver' che ha bisogno di umiliarci e che non riesce a distinguere tra sé e l'altro?>> E ancora: <<Come si fa a sopravvivere senza potersi fidare di un genitore?>> In una famiglia che alimenta la paranoia, fidarsi della propria famiglia significa attingere a piene mani dalla propria umiliazione, mentre viene costantemente scoraggiata la possibilità di fidarsi degli altri. A differenza della personalità schizoide che sembra trarre sollievo dalla distanza nonostante vi sia il desiderio di entrare in una relazione più intima, la personalità paranoidea non trova conforto né all'interno né all'esterno della relazione. I pazienti paranoidi sono alle prese con un dilemma crudele: la vicinanza con un'altra persona attiva la convinzione che le relazioni distruggano il sé o lo inghiottano nei progetti dell'altro, mentre la distanza crea l'angoscia di annichilimento, perché nella loro esperienza è mancato il sostegno alla separatezza del sé.

Tra gli psicoanalisti che hanno trasmesso un sentimento 'viscerale', e non solo una descrizione intelletuale della sofferenza paranoide la McWilliams cita Melanie Klein, W.R.D. Fairbairn, Harry Stuck Sullivan, Frieda Fromm-Reichmann, Austen de Lauriers, Hrold Searles, R.D. Laing, William Meissner, Edgar Levenson, George Atwood, Russell Meares e Bertram Karon. Nelle conversazioni private alcuni di loro (ad es. Laing e Levenson) attribuivano la loro capacità di empatizzare coi pazienti paranoidi a delle proprie personali tendenza paranoidi.

Si è rilevato che le personalità paranoidi siano estremamente sensibili ai sentimenti altrui e in particolare a quelli negati o disconosciuti. le loro 'distorsioni' riguardano più la natura del significato che estrapolano da quanto sentono che non la natura di quanto essi effettivamente percepiscono. Cioé, colgono correttamente il fenomeno ma ne sbagliano l'interpretazione.

 
Implicazioni terapeutiche (I): che cosa non fare

1. Evitare di stimolare la regressione

Avendo le personalità paranoidi questa grande sensibilità, è quasi più importante con loro sapere cosa non si deve fare piuttosto che stabilire cosa si deve fare. La letteratura psicoanalitica riguardante i pazienti paranoidi mette in guardia dall'uso del lettino così come anche qualsiasi strumento che favorisca la regressione benigna da cui altri pazienti trarrebbero beneficio.

Messaggi o meccanismi che in seduta favorissero la regressione potrebbero essere sentiti dal paziente paranoide come sedutivi oppure minacciosi. Il sentirsi dipendente, come  un bambino, dal terapeuta è associato ad un sentimento di umiliazione impotente, per cui l'invito alla regressione verrebbe vissuto con un sentimento di vergogna intollerabile.

2. Inibire le espressioni di simpatia

L'essere troppo comprensivi e disponibili viene accolto male dai pazienti paranoidi. Essi non hanno esperienza della vera gentilezza e potrebbero sospettare o che il terapeuta è un imperdonabile ingenuo oppure che stia cercando di manipolarli per qualche fine nascosto. Oppure potrebbero prendere la compassione come conferma di quanto sia dura ed impietosa la vita. Per la McWilliams è questa un'area in cui le tematiche depressive proprie di certi terapeuti mal si conciliano con la psicologia del paziente paranoide.

Infatti, i terapeuti danno spesso per scontato che un atteggiamento compassionevole dia conforto; al contrario, le personalità paranoidi sono in genere disturbate da tale atteggiamento, e questo indipendentemente dal fatto che esso scaturisca da un sentimento più o meno genuino da parte del terapeuta.

3. Resistere all'atteggiamento di dimostrare la propria bontà

La consapevolezza di quanto una visione cupa del mondo sia implicita nella condizione paranoide porta spesso i terapeuti a sforzarsi (consciamente o inconsciamente) di mostrare il più possibile le proprie qualità positive, al fine di evidenziare la loro differenza rispetto all'atteggiamento umiliante della famiglia d'origine. Ma tali tentativi di presentarsi come oggetto buono possono mettere il paziente paranoide di fronte ad una scelta impossibile: o sentirsi umiliati dalla superiorità morale del 'buon' terapeuta oppure sentirsi in pericolo con una persona che protegge un'irrealistica immagine positiva di sé.

Foto: C. Rogers e R.D. Laing

La McWilliams riporta un incontro che ci fu tra Carl Rogers e R.D. Laing (come è stato descritto da Jenner nel libro "R.D. Laing: Creative destroyer", Cassell, London, 1997) in cui Laing, che aveva una visione paranoide del mondo, diversa dalla visione 'depressiva' di Rogers, denigrava il rispetto che Rogers aveva per le persone e ridicolizzava la sua buona volontà tacciandola di essere falsa e ingenua.

Edgar Levenson (1994) ha ammonito i terapeuti dall'entrare in competizione - inconsciamente - coi genitori del paziente  per offrirgli un'esperienza migliore. Secondo McWilliams è preferibile cercare di raggiungere il paziente paranoide tentando di capirlo, di incoraggiare il raccontarsi da parte del paziente e di tollerare in se stessi e nel paziente gli intensi affetti negativi sottostanti gli adattamenti più paranoidi.

 

4. Trattenersi dall'assumere una posizione rigidamente 'neutrale'

La letteratura sulla paranoia, così come dissuade dall'offrire un'esperienza riparativa, avverte anche di evitare atteggiamenti troppo neutrali o astinenti da parte del terapeuta.  Gli approcci psicoanalitici classici (come ad es., l'interpretazione sistematica di Strachey [1946] o la "tecnica del modello base" di Eissler [1953]) dove alle domande del paziente si risponde con delle domande e dove il terapeuta cerca di evitare una prematura vicinanza, hanno effetti deleteri sulle paure che il paziente paranoide vive in relazione ai possibili significati dell'elusività del terapeuta. Il peso centrale del tema inconscio dell'umiliazione fa sì che il paziente paranoide si senta preso in giro, deriso dalla riluttanza del terapeuta a rispondere a una domanda o a una richiesta di informazioni. Per la McWilliams è probabile che ciò abbia diffuso la convinzione tra gli analisti che i pazienti paranoidi non siano trattabili psicoanaliticamente.

L'idea alla base della tecnica classica è che essa favorisce la produzione di materiale profondo : con il paziente paranoide, al contrario, le modalità standard di mantenimento della neutralità e dell'astinenza bloccano anziché aprire le aree affettive. Secondo la McWilliams, coi pazienti paranoidi è importante non confondere i mezzi con i fini: l'obiettivo di arrivare a una sempre maggiore apertura ed espressione emozionale è lo stesso che ci diamo con qualsiasi altro paziente, ma non possiamo raggiungere quella meta con il nostro abituale veicolo.

 
Implicazioni terapeutiche (II): che cosa fare

 

1. Comunicare rispetto

Secondo la McWilliams probabilmente l'atteggiamento terapeutico più critico con i pazienti paranoidi è il rispetto.  Blass (2006) ha verificato che, contariamente a ciò che riguarda l'empatia, l'autenticità, l'accettazione non giudicante ed altre qualità terapeutiche, non esiste alcuna discussione sistematica riguardante il rispetto per i pazienti. Il suo studio fenomenologico del rispetto nella situazione terapeutica (intitolato "Respect for the patient: A qualitative study", pubblicato nel 2006 come tesi di dottorato alla Rutgers University) arriva alla conclusione che rispetto è un termine che si applica a una circostanza in cui si potrebbe esercitare il proprio potere per ottenere qualche cosa dall'altra persona, ma ci si astiene dal farlo. Il concetto implica che il paziente paranoide debba essere accettato più come persona competente e moralmente alla pari che solo come paziente. In altre parole, il rispetto è l'opposto dell'atteggiamento teso ad infliggere umiliazioni. Le interviste di Blass a terapeuti esperti hanno rivelato che il rispetto è qualcosa con la quale essi combattono regolarmente e che trovano più difficile dell'empatia. Esistono categorie di pazienti (ad es. tossicodipendenti, coniugi infeeli, pedofili) per i quali è relativamente facile provare empatia, ma difficile provare rispetto. Poiché nell'eziologia della paranoia l'umiliazione riveste un ruolo centrale, e poiché un controtransfert caratterizzato da derisione può rinforzare le preoccupazioni paranoidee, il rispetto è un atteggiamento particolarmente vitale che i terapeuti devono coltivare in se stessi.

In un libro della McWilliams ("Psychoanalytic diagnosis: Understanding personality structure in the clinical process", New York, Guilford Press, 1994) è affermato che uno spirito di uguaglianza, unitamente alla tendenza a parlare con autorevolezza, costituisca un'attitudine particolarmente importante per terapeuti che lavorano con pazienti paranoidi. Un tono che trasmetta sentimenti di uguaglianza riduce la minaccia costante di umiliazione: al contempo la volontà del terapeuta di dichiarare sentimenti, idee e convinzioni in modo autorevole comunica che il terapeuta può assumere una posizione di separatezza, la responsabilità dei suoi vissuti e delle sue credenze. Il paziente paranoide potrà perciò sperare che la sua relazione col terapeuta non replicherà i 'patterns' simbiotici e distruttivi del passato. Inoltre, con l'uso della sua legittima autorità, il terapeuta comunica un senso di forza che riduce il timore inconscio del paziente per cui il terapeuta potrà essere distrutto dalla sua onnipotente malvagità.

 

2. Dare esempio di schiettezza

I pazienti paranoidi richiedono una franca onestà. Ciò non significa che il terapeuta debba comunicare tutto ciò che gli viene in mente in modo indisciplinato, ma significa che ogni cosa che paziente e terapeuta si dicono deve essere vera oppure autentica in senso heideggeriano. In particolare, non si dovrebbe fare affidamento su regole di non disvelamento per razionalizzare l'evitamento di verità spiacevoli. Se un paziente paranoide chiede: <<Sei arrabbiata con me?>>, non si dovrebbe rispondere con la domanda <<Che cosa ti ha fatto pensare che lo fossi?>> poiché tali risposte suonerebbero evasive e persino derisorie. Seguendo il principio di fare ciò che incoraggia l'aprirsi, coi pazienti paranoidi rispondere è meglio di non rispondere, al fine di promuovere l'esplorazione. E' perciò probabile che risposte oneste e credibili conducano ad ulteriori esplorazioni, contrariamente agli sforzi di rimanere neutrali. Esse possono ad es. consistere in risposte del tipo: <<Non sono cosciente di essere arrabbiata, ma probabilmente hai colto che sono irritata all'idea di pagare le tasse. Che cos ti sei trovato a pensare quando hai visto l'irritazione sulla mia faccia?>> Oppure: <<Non sono cosciente di provare rabbia nei tuoi confronti, ma suppongo che inconsciamente questo potrebbe avere a che fare con miei sentimenti più accesi. C'è qualcosa per cui sospetti che io possa essere arrabbiata?>> O ancora: <<Devo pensarci. Suppongo di aver sentito risentimento in risposta a un tuo aver agito in modo distruttivo. Che cosa provi nell'aver notato questo in me?>>.

Quando i pazienti paranoidi ricevono il messaggio che il terapeuta prende in seria considerazione una loro domanda, considerando il suo contenuto e non sottindendendo che il paziente è matto a farla, spesso spontaneamente offrono la risposta alla non formulata domanda classica:<<Perché ciò ti sta venendo in mente ora?>>.

  Foto: Harry Stack Sullivan

Sullivan ha notato che c'è sempre un "aggancio", una percezione realistica a cui la persona paranoide aggancia le sue proiezioni. Quando il terapeuta può riconoscere o trovare quell'aggancio, il motivo preciso dell'attribuzione, allora il paziente si sentirà liberato dall'accusa implicita di distorsione e può esplorare senza umiliazione.

I pazienti paranoidi possono cogliere anche i più piccoli indizi della ricerca del terapeuta di spiegazioni razionali, o del suo abbandono ad auto-illusioni, e possono spaventarsi delle implicazioni della più piccola disonestà emotiva. La McWilliams racconta di essere arrivata una volta in ritardo ad una seduta con una paziente paranoide la quale si trovava in uno stato di panico: <<Alla fine è successo>> esclamò <<Ti ho esaurito. Mi odi e ti vuoi liberare di me>>. La McWilliams le rispose esponendo la motivazione cosciente del ritardo (difficoltà nel liberarsi al telefono di una persona che l'aveva chiamata per un appuntamento), ma la paziente divenne ancora più ansiosa dopo tale spiegazione. Allora l'analista cercò le ragioni profonde e comprese che la paziente aveva colto qualcosa: l'analista non era stata in grado di liberarsi della telefonata in parte perché la paziente e l'analista erano coinvolte in sentimenti difficili che l'analista temeva di riaffrontare. Quando la McWilliams disse alla paziente:<<Penso di non essere stata completamente onesta con me stessa, pensando che il mio ritardo avesse a che fare con mie difficoltà a chiudere la conversazione, probabilmente ha anche a che fare con una parte di me che vuole evitare un argomento doloroso ma importante che abbiamo toccato recentemente>>, allora la paziente si calmò immediatamente. <<A condizione che io mi appropriassi dei miei sentimenti negativi>> afferma testualmente la McWilliams <<poteva arrivare a distinguere tra la mia esitazione momentanea e il totale rifiuto che temeva. Non è stato per me facile imparare ad avere a che fare con emozioni come queste, poiché la mia autostima come terapeuta dipende dal sentimento di accettazione nei confronti dei pazienti e, con una operazione paranoide, odio, e insieme voglio disconoscere la parte di me rifiutante e sprezzante. Articolando il controtransfert e permettendo loro di vederlo attraverso di me, spero di aiutare i pazienti come questa donna a tollerare questi sentimenti dentro di loro>>.

A proposito della 'self-disclosure' la McWilliams afferma che, sebbene essa sia stata raccomandata nel trattamento dei pazienti paranoidi, specie negli autori che si sono rifatti alla Psicologia dell'Io e delle relazioni oggettuali (Karon & VandenBos, 1981), tuttavia il "Super-Io professionale" di molti terapeuti principianti prevede un fermo divieto ad ammettere francamente qualcosa che appartiene allo stato mentale dell'analista o alle sue reazioni controtransferali (Farber, 2006). Per la McWilliams la "self-disclosure", che molti analisti raccomandano coi pazienti paranoidi, può essere compresa solo se si fa riferimento al contesto di umiliazione che, per la McWilliams, ha dato origine alle dinamiche paranoidi. Naturalmente anche l'opportunità della 'self-disclosure' va considerata previo un attento esame della struttura di personalità del paziente: mentre pazienti narcisistici possono trovare intollerabile l'autorivelazione da parte del terapeuta, vivendola come fuorviante segno di auto-indulgenza, e mentre i pazienti isterici possono sentirsi intollerabilmente sovrastimolati da rivelazioni controtransferali, i pazienti paranoidi possono accettarle con sollievo e gratitudine.

Sulla base della cronica vulnerabilità inconscia all'umiliazione dei pazienti paranoidei, una parte vitale del compito del terapeuta sarà quella di aiutarli a integrare parti di sé negate e proiettate. Ostilità, avidità, invidia, desiderio e altri affetti penosi necessitano non solo di essere nominati e capiti in terapia, ma anche accettati come parte inevitabile della condizione umana. Se sono solo notati e rivelati, il paziente paranoide tende a vergognarsi e a utilizzare le solite difese contro la mortificazione.  I terapeuti coscienziosi dibattono su come aiutare questa tipologia di pazienti a normalizzare e ad accettare la propria esperienza interiore in modo da non odiarla e da non avere quindi bisogno di proiettarla.  Con certi pazienti paranoidi, specie con quelli giovani o inesperti rispetto alla psicoterapia, si può assumere un tono didattico e fare commenti supportivi sulla normalità di aspetti odiati di sé (come fanno i cognitivisti). Ma questa strategia rischia di rivelarsi umiliante per altri pazienti paranoidi, in particolare per quelli psicologicamente più sofisticati o iperattenti al rischio di essere dominati.

La soluzione che la McWilliams prospetta al problema di come rendere più normali i sentimenti senza mostrarsi superiore al paziente consiste nell'esporre in modo franco i propri sentimenti e le circostanze che li hanno suscitati. Per la McWilliams ciò va oltre la 'self-disclosure' controtransferale e può adattarsi meglio alla sua personalità, ma non a quella di altri analisti che possono trovare altre soluzioni.  <<Ho imparato che i pazienti paranoidi>> afferma testualmente <<possono non assumere con facilità la normalizzazione che è implicita nell'assumere tranquillamente un'attitudine accettante nei loro confronti ma, se faccio capire loro chiaramente che ho provato ciò che descrivono e che non mi odio per i sentimenti che provo, è probabile che siano in grado di ripensare la loro vergogna e la loro riluttanza.Se mi avvicino alle loro rivelazioni strazianti con associazioni mie che mi rivelano, il nostro campo di gioco sembra loro meno asimmetrico. Ciò mi sottomette all'uso che potranno fare di tali rivelazioni al servizio della loro paranoia ("hai detto che odi la separazione, così mi aspetto che tu mi odi per aver cancellato una seduta"), ma dato che possono usare la "non-disclosure" nello stesso modo ("come posso sapere che tu non mi odi per aver cancellato la seduta? Tu non sei reattivo, so che stai celando qualche cosa"), penso che sia preferibile dare ai pazienti paranoidi l'opportunità di internalizzare una persona che sa parlare in modo genuino, senza vergogna dei fenomeni che sono stati umilianti da sperimentare>>.

 

3. Facilitare il dolore

Poiché le persone paranoidi hanno provato una grande vergogna per i loro sentimenti, tendono a negare e a proiettare le emozioni dolorose piuttosto che sottoporle ad esame. Si congelano nel tentativo di evitare ciò che potrebbe essere espresso e superato.  Di conseguenza, il fatto che il terapeuta possa essere esplicito sul valore dei sentimenti di tristezza può essere per loro una rivelazione. La McWilliams fa riferimento alla concettualizazione della Klein come ad uno spostamento da una posizione paranoide ad una depressiva. Spesso una reazione paranoide può svanire quando il paziente diviene in grado di mettere a fuoco il dolore che aveva cercato di ignorare. Spesso la vita delle persone paranoidi è stata triste, e quando sono in grado di piangere con il terapeuta per gli insulti, per i maltrattamenti e le delusioni subite, la McWilliams confessa di sorprendersi a piangere con loro di qualche cosa che non si dà pena di nascondere. <<L'inibire le lacrime>> dice <<rischia di trasmettere che c'è qualche cosa di vergognoso nel piangere>>.

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Rivista "FRENIS ZERO" All rights reserved 2004-2005-2006-2007-2008