di Margherita Mugoni

 

 

PROPOSTA DI INTERPRETAZIONE

DELLA MATERNITA’ IN ARTE

DAL PALEOLITICO A OGGI

 

 (Spunti ed osservazioni sulla “Venere di Willendorf”)

 

 

Il percorso interpretativo del concetto di MADRE, o meglio di DEA MADRE, non può estraniarsi dalla stessa cifra di lettura conoscitiva dei contesti periodali in cui tale soggetto artistico è stato calato nelle diverse epoche dal Paleolitico Superiore ai nostri giorni.

Intendo quindi dalla cosiddetta “Venere di Willendorf”, alle maternità di Costantino Nivola (“La madre sarda e la speranza del figlio meraviglioso”).

Il mondo nomade e affamato del Paleolitico Superiore esigeva concrete e tangibili manifestazioni di abbondanza, o meglio sovrabbondanza alimentare, poiché caccia e pesca, unitamente alla raccolta dei prodotti della terra, rappresentavano il mezzo primo ed ultimo di sopravvivenza, dalle zone dei ghiacciai delle Russie, fino alle lande delle aree della bassa Europa e dell’Egeo, passando per il continente africano.

Il concetto di vita e di sopravvivenza stessa, prendono forma quindi presso le genti di tale contesto epocale attraverso manifestazioni apotropaico-esorcistiche le quali culminano, in taluni casi, rarissimi, ma al contempo irripetibili, di rappresentazioni visibili ed ammirabili della segreta trama interpretativa della vita “abbondante”.

Nasce il concetto del concreto nel trascendente e/o il concetto di trascendente nella materia.

La “Dea Madre”, l’ “Alma Mater” lucreziana, viene espressa in forme che assurgono nella realizzazione materica all’altezza di capolavori.

La cosiddetta “Venere di Willendorf”, è la prova tangibile di tale idea.  La lettura artistica che viene offerta allo sguardo attento dello spettatore, non può prescindere dalla osservazione filosofica e antropologica che si sprigiona dalla pietra.

Tutto è rotondo, perfettamente rotondo. Il concetto del cerchio innanzitutto. Onnicomprendente e onnicomprensivo.

La estremizzazione delle forme, plasmate in una mostruosità fisica formulata attraverso l’eccesso della steatopigia fissato ai limiti, consente una lettura di esigenza estetica di perfetta armonia circolare. La proporzione è assoluta.

 Non è ammesso il minimo sorpasso nel calcolo esecutivo.  Tutto è compattamente armonioso nella deformità.  La testa, perfettamente ovoidale, è sormontata da una parrucca di riccioli.

E’ il segno della ricerca estetica dell’individuo, al di là del bisogno fisico della nutrizione e della esistenza stessa.

Si spiega in tal modo la concretizzazione della perfetta armonia della forma circolare nella statuetta.

L’esecutore, artista grandissimo (probabilmente stregone e sacerdote), conosce esattamente il concetto della proporzione applicato alla materia:  riesce a rendere una sequenza circolare continua dall’apice all’estremità della figura, passando per tutta la serie di applicazioni centriche e concentriche del soma.

Il capo è rotondeggiante e aderisce perfettamente al tronco fino alla linea-vita, tutto giocato nella sfericità delle spalle e delle mammelle su cui sono accennate, attraverso l’incisione nella pietra calcarea, due ipotesi di braccia (sottolineate dalla linea di contorno d’ocra aranciata) non funzionali alla realizzazione del progetto riproduttivo.  A seguire, ventre, glutei e cosce terminanti, al di sotto delle ginocchia in un abbozzo (perfetto peraltro) di gambe concluse da due accenni di rotondità come rappresentazione dei piedi (anch’essi non necessari ai fini della continuazione della specie).

La grande meraviglia è senz’altro da notarsi nell’accurata ricerca del giusto calibro espressionista:  il corpo della Dea Madre è reso secondo i canoni rispondenti all’esigenza funzionale.

Tutto è improntato alla filosofia dell’eccesso:  le mammelle, cascanti, rigonfie e splendidamente rotonde rappresentano la fons nutritionis dell’uomo, il tramite dell’alimentazione scaturente dal corpo stesso, ricco di quel cibo che la terra offre all’uomo.

E’ la epifania visibile e tangibile del territorio lussureggiante e generoso di doni.

I glutei enormi e steatopigi, così come le cosce, sono funzionali al reggimento del peso del ventre, anch’esso deformato ed evidenziato nella circolarità da due elementi che ne esaltano lo scopo ultimo:  l’ombelico reso attraverso un foro compiutamente tondo ed il pube ottenuto con un morbido triangolo convesso stigmatizzato da un segno che passa orizzontalmente tra le cosce e lo stesso, al di sotto del ventre e tutto intorno per i fianchi.

Senza alcun dubbio, una cordicella, in guisa di quelle usate come ornamento, a tutt’oggi, dalle popolazioni aborigene con usi abbigliamentari conservativi e ritualmente significativi.

Il sesso è marcato nella massa, da un’incisione verticale, sempre morbida.

Il fatto sorprendente è che in quest’opera nulla è lasciato al caso o all’errore manuale.

Ogni centimetro di lavorazione è esattamente calibrato rispetto al tutto.

 Non si può rinvenire la minima sproporzione esecutiva.  D’altronde, il concetto trascendente e concretamente terreno che l’idolo deve al contempo trasmettere, non consente la più piccola sbavatura.

Il cibo è troppo importante perché la statuina, custodita nei recessi della grotta, nelle viscere della madre terra, possa macchiare di ibris la piccola comunità di uomini che ad essa si affidano per propiziarsi la buona riuscita della caccia e della raccolta.

E’ attraverso la contemplazione della Dea, che si troverà la forza per affrontare le fiere che serviranno per cibare la comunità e garantirne la continuità fino a noi.

L’osservazione della statua deve portare alla contemplazione del realismo fisico ideale:  l’eccesso è vita!  Laddove soluzione esiziale significa conservazione della specie.