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Kubrick e la musica

 

IL CANTO DELL'IMMAGINE
Tre incontri tenutisi a novembre allo Spazio Contemporaneo di Villa Visconti d'Aragona hanno preso in esame il rapporto musica/immagini nel cinema di Stanley Kubrick


Il musicologo Emanuele Ferrari (una somiglianza impressionante con il figlio di Piero Angela nell'aspetto, nel modo di parlare e di gestire) ha mostrato nelle tre serate dedicate alla musica nei film di Kubrick quella che potrebbe o dovrebbe essere la critica cinematografica (e che nessuna delle televisioni italiane, né del servizio pubblico né private, pur avendone i mezzi e gli strumenti, pratica): e cioè non un discorso astratto - che traduce in linguaggio verbale impressioni suscitate da un ipertesto quale è quello cinematografico che oltre alle parole utilizza immagini in movimento, suoni e musica - bensì il commento e l'interpretazione in presenza del testo, dove l'esposizione verbale è immediatamente collegata al manifestarsi del testo in tutte le sue componenti anche non verbali.


Pochi cineasti si sarebbero prestati meglio di Kubrick ad un'analisi che prendesse in considerazione il rapporto tra musica e immagini nel cinema. Americano per nascita ma europeo per gusti e vocazione (le sue stesse scelte musicali, come anche quelle dei testi letterari cui si è ispirato il suo cinema, lo dimostrano), K. è come pochi altri il cultore di un cinema-cinema dove un'innegabile ambizione filosofica si sposa ad una cura sublime (e pertanto non manierista) degli aspetti per eccellenza cinematografici dell'opera: vale a dire tutto quanto concorre a comporre l'universo iconografico (inquadrature, movimenti di macchina, montaggio, fotografia, effetti speciali, scenografie, costumi, recitazione) e sonoro (musiche, suoni, rumori, dialoghi) dei suoi film. Per capire quanto K. considerasse importante la musica nelle sue opere potrebbe bastare citare un'antologia di scene in cui l'aspetto visivo rimane indissolubilmente legato, nel ricordo dello spettatore, al commento sonoro (il "Dies Irae" che accompagna la salita verso l'Overlook Hotel nell'incipit di "Shining"; lo stupro sulle note di "Singin' in the Rain" in "Arancia meccanica", i soldati ragazzini/assassini che cantano la canzone di Topolino nel finale di "Full Metal Jacket"…). K., che raccontava, a proposito di una scena di "Shining", di non aver scelto una musica adatta alla situazione, bensì di aver girato la scena adattando i ritmi stralunati e la recitazione straniata degli attori alle dissonanze di un brano musicale di Bartok, nel 1972, aveva dichiarato a "Positif": "La cosa migliore, in un film, è quando le immagini e la musica creano l'effetto… Si potrebbe immaginare un film dove le immagini e la musica fossero utilizzate in modo poetico o musicale, dove si avesse una serie di enunciati visuali impliciti piuttosto che delle esplicite dichiarazioni verbali… Le scene più forti, quelle di cui ci si ricorda, non sono mai delle scene in cui dei personaggi si parlano, ma quasi sempre scene di musica e di immagini…".
In realtà quest'opera fatta di immagini e di musica più che di parole, Kubrick l'aveva già realizzata quattro anni prima con "2001 Odissea nello spazio", un film che inizia con un'overture musicale di tre minuti a schermo ancora buio e nel quale per la mezz'ora iniziale e poi ancora per tutto il lungo epilogo non viene pronunciata una sola parola. E anche i rari dialoghi non aggiungono molto alla comprensione di un film filosofico ed enigmatico, del quale rimangono invece indimenticabili alcune formidabili associazioni tra musica ed immagini: il "Così parlò Zarathustra" che segna le tappe dell'evoluzione dell'umanità in occasione delle manifestazioni del monolite (l'osso/arma scagliato nel cielo da una scimmia umanoide che si trasforma in un'astronave; il feto dell'Uomo Nuovo che naviga nello spazio siderale), "Il bel Danubio blu" che trasforma la navigazione spaziale in un balletto di sublime grazia e armonia; i cori di Ligeti che annunciano la presenza terrifica dell'alieno e dell'ineffabile, la canzoncina infantile cantata dal supercomputer Hal 9000 che sprofonda in un regresso infantile e "mortale" (insulse canzoncine canteranno anche i marines di "Full Metal Jacket", anch'essi coinvolti in una regressione all'infanzia - stavolta guidata da un sistema di potere ben organizzato - che li porterà a diventare assassini inconsapevoli e automatici: quasi fossero "born to kill").
Ancora, Ferrari ha messo in luce la banalità e ovvietà dei dialoghi di "Eyes Wide Shut", adeguati al non-eroe Tom Cruise, uomo comune e senza qualità (se non quelle enunciate dal suo status socio-economico) impegnato in una notturna odissea nel regno del desiderio e della sessualità, dove invece la musica agisce spesso in senso spiazzante ed ironico, prendendo in contropiede le aspettative dello spettatore. Esemplare è l'utilizzo del "Concerto jazz" di Shostakovich sui titoli di testa del film: un brano che coniuga atmosfere viennesi (che richiamano l'ambientazione originale del romanzo di Schnitzler da cui il film trae ispirazione) ed influenze jazz (il film si svolge a Manhattan, anche se ricostruita in studio in Inghilterra come già il Vietnam di "Full Metal Jacket"), una musica dal respiro ampio, nostalgico, che evoca grandi storie e grandi destini, che prepara lo spettatore ad un racconto pieno di sentimento e di dramma. Ma nell'uscire di casa Tom Cruise spegne la stereo e la musica cessa: quella che pensavamo "la" musica del film si rivela semplicemente un motivo tra i tanti, "casuale"; e il film, d'altra parte, smentirà le promesse contenute nella musica: in "Eyes Wide Shut" nulla si conclude, nulla si spiega, nulla si risolve; il protagonista attraverso avventure continuamente interrotte, sempre sotto il segno di una torbida ambiguità; i protagonisti sono giovani, ricchi, belli, realizzati, eppure le loro storie sono dominate dal senso della frustrazione e dell'inappagamento; il desiderio confina sempre con la paura e il pericolo. "C'è una cosa che dobbiamo fare al più presto" gli dice la moglie dopo la crisi, con una sorta di lucida, rassegnata disperazione: "scopare". Dopo questa chiusa prosaica, inaspettatamente, ironicamente, riprende la musica dell'apertura, con tutta la sua carica enfatica e sentimentale. Se questa allora era davvero "la" musica del film, l'amara ironia si colora adesso di una sfumatura elegiaca, diventa forse il rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato, di ciò che poteva essere nobile e pieno di passione e si è rivelato invece squallido e frustrante. 
La musica sui titoli di coda - e non "scopare" - è l'"ultima parola" del regista Stanley Kubrick, che ci lascia in eredità alcune tra le opere più magistrali della storia del cinema e non pochi temi di riflessione.

Mauro Caron

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Aggiornato il: 28 dicembre 2002